Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda
Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
I Parte
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
Il primo problema da affrontare consiste nel rispondere ai quattro quesiti che si pone chiunque per la prima volta si rivolge al Vedānta: ossia se si può conoscere il Brahman, come lo si conosce, in che cosa consiste questa conoscenza e chi può conoscerlo.
Questo problema, tuttavia, è impostato male poiché pare dare realtà all’equivoco che debba essere l’individuo a conoscere l’Assoluto. Ciò è un errore da respingere poiché è impossibile che il relativo possa conoscere il Brahman, l’Assoluto. Anzi, appare evidente che solo quest’ultimo deve essere considerato come l’unico conoscitore. Per rettificare il modo in cui procedere dobbiamo perciò considerare con attenzione per quale ragione l’individuo, in quanto essere contingente non può avere accesso a quella conoscenza. Esaminiamo, dunque, questo primo problema per gradi, partendo dall’argomento per cui il Brahman è l’unico conoscitore.
[1] Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (BU), IV. 5. 15.
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
Il primo problema da affrontare consiste nel rispondere ai quattro quesiti che si pone chiunque per la prima volta si rivolge al Vedānta: ossia se si può conoscere il Brahman, come lo si conosce, in che cosa consiste questa conoscenza e chi può conoscerlo.
Questo problema, tuttavia, è impostato male poiché pare dare realtà all’equivoco che debba essere l’individuo a conoscere l’Assoluto. Ciò è un errore da respingere poiché è impossibile che il relativo possa conoscere il Brahman, l’Assoluto. Anzi, appare evidente che solo quest’ultimo deve essere considerato come l’unico conoscitore. Per rettificare il modo in cui procedere dobbiamo perciò considerare con attenzione per quale ragione l’individuo, in quanto essere contingente non può avere accesso a quella conoscenza. Esaminiamo, dunque, questo primo problema per gradi, partendo dall’argomento per cui il Brahman è l’unico conoscitore.
Quando il Brahman
è considerato come conoscitore (jñātṛ
o jñāta), lo si deve intendere in
senso non duale, perciò privo di qualsiasi cosa che possa essere conosciuta (jñeya) come altra da lui. Ossia, il
Principio supremo non può essere in alcun modo considerato come un soggetto che
conosca altro da Sé come oggetto; e nemmeno come fosse dotato di una conoscenza
intesa quale attività d’indagine nei confronti di qualcosa da conoscere diverso
da lui che, se fosse tale, sarebbe del tutto inesistente:
Ma
quando per quella persona tutto è diventato il solo Ātman, chi si potrebbe
vedere e con che cosa, chi si potrebbe annusare e con che cosa, chi si potrebbe
gustare e con che cosa, a chi si potrebbe parlare e con che cosa, chi si
potrebbe toccare e con che cosa, chi si potrebbe conoscere e con che cosa?[1]
La conoscenza priva di oggetto attribuita al Brahman deve
perciò essere compresa come Coscienza di Sé, vale a dire come Intuizione
metafisica (pāramārthika anubhava).
Analogamente, come l’Assoluto è autoconoscente, allo stesso modo si può dire
che è autoluminoso (Deva o svaprakāśa), senza che esista qualcosa d’altro da poter illuminare né che
il Brahman possa svolgere un’attività diretta a illuminare alcunché differente
da lui stesso:
Quell’autoluminoso
(Deva) primordiale, difficile da
vedere, è entrato in un luogo segreto, è nascosto nella caverna [del
cuore] e abita un
posto soggetto a molteplici pericoli. Conoscendolo per mezzo dell’adhyātma yoga
il saggio è libero sia dalla gioia sia dalla sofferenza.[2]
Perciò colui che si è riconosciuto identico al Brahman
autoluminoso riscopre il proprio stato di illuminazione immutabile ed eterno e,
di conseguenza, rimuove l’errore di credersi un individuo separato. Allo stesso
modo, indentificandosi coscientemente all’Assoluto, rimuove persino tutti i
mezzi empirici che lo hanno aiutato a rimuovere l’errore:
Dato
che c’è il testo che comincia così: “Qui il padre smette d’essere il padre […]
i Veda non sono più nessun Veda”[3] noi, nello stato
d’illuminazione, riconosciamo con certezza che persino la śruti non sia più
nulla.[4]
Da ciò deriva che l’illuminato è tale non in quanto è
illuminato da alcunché, ma perché autoluminoso per sua natura essenziale (svarūpa). Ciò è sostenibile per la
medesima ragione per cui, essendo egli stesso il Brahman, possiamo dire,
parafrasando la śruti: “cosa ci
sarebbe da illuminare, e con che cosa?” Inoltre
è affermato con chiarezza che l’Intuizione altro non è se non la luce di chi è
autoluminoso:
Perché,
non appena affiora, l’Intuizione dell’Ātman annulla l’ignoranza (avidyā) e,
quindi, non c’è alcuna ulteriore illuminazione che debba essere considerata
necessaria.[5]
A buon diritto possiamo affermare anche in questo caso:
“cosa ci sarebbe da intuire, e con che cosa?” Per usare il sillogismo proprio
della logica “secca” (śuṣka tarka), che ogni qual volta sia necessario
può essere assunto anche nel corso della riflessione vedāntica (manana), se l’Ātman è il
Brahman, esso è anche il conoscitore, l’autoluminoso e colui che intuisce:
Questo Ātman è il Brahman. Esso è chi intuisce tutto; questo
è l’insegnamento. [6]
In base a quanto premesso, possiamo iniziare
l’argomentazione (vicāra) sulla natura dell’Intuizione vedāntica (Vedānta vijñāna). Come si può vedere
nella formula precedente si è usato il termine vijñāna per esprimere il concetto di Intuizione; dobbiamo perciò
avvertire il lettore che ci sono diversi modi per esprimere in sanscrito
l’“esperienza intuitiva” che in precedenza abbiamo definito anubhava. La terminologia śaṃkariana
s’adegua alle diverse varianti usate nelle Upaniṣad,
e che si devono considerare sinonimiche tra loro: anzitutto vijñāna che abbiamo qui usato per ultimo,
il cui significato vedāntico andrebbe tradotto con “conoscenza discriminativa”[7], vale a dire quella conoscenza che appare a conclusione della discriminazione, viveka, attuata per mezzo della tecnica
del “neti neti”. Vedānta vijñāna perciò significa
conoscenza istantanea ottenuta distinguendo ciò che è reale (sat) da quello che non lo è (asat). L’esempio classico vedāntico che
illustra il rapporto intercorrente tra la realtà e l’apparenza è il seguente:
se qualcuno entra in una stanza in penombra, sul cui pavimento giace una corda,
potrebbe prenderla per un serpente. Solamente rimovendo le tenebre per mezzo
d’una lampada costui sarà in grado di riconoscere che non di un serpente si
trattava, ma d’una corda. Ovvero, se si rimuovono le tenebre dell’ignoranza, la
reale natura, la corda, appare immantinente per l’eliminazione della falsa
apparenza di serpente. La conoscenza immediata e improvvisa della realtà, è
dunque ciò che si intende con Intuizione.
Altri termini upaniṣadici che significano Intuizione sono avagati, comprensione, adhyavasāya, apprendimento, comprensione
finale e, forse quello più ricorrente e in cui ci siamo già imbattuti, anubhava, esperienza intuitiva
immediata. Noi in italiano useremo principalmente i termini di esperienza
diretta, illuminazione e Intuizione, adattando questi tre termini e altri
ancora al contesto, ma sempre per intendere il medesimo concetto.
Si dovrà prestare attenzione a un altro particolare non da
poco: infatti Intuizione assume un significato assoluto solamente quando è
applicato alla conoscenza del Brahman. Negli altri casi i vari usi del termine
intuizione[8], pur essendo passibili di fungere da simboli dell’Intuizione, devono essere
sempre rigorosamente distinti da quest’ultima. Per spiegare meglio questo
distinguo, anubhāva significa
esperienza intuitiva raggiunta senza alcuna mediazione anche quando lo si usa
in riferimento alla funzione delle facoltà di senso. È esperienza quotidiana (vyāvahārika anubhāva) di tutti che, per esempio, la vista
recepisce immediatamente le forme e i colori degli oggetti esterni, ossia senza
alcuna mediazione o indugio[9]; analogamente si comporta il tatto, allorché percepisce il calore o la freddezza
dell’oggetto che tocca. Allo stesso modo percepiscono anche gli altri sensi. In
questo modo, dunque, la nostra percezione sensoriale appare come una esperienza
intuitiva immediata. Per la natura di questa esperienza i sensi sono
considerati strumenti validi di conoscenza (pramāṇa)
degli oggetti esterni, nei limiti del loro campo d’applicazione e, proprio per
questa ragione, sono definiti jñāna –
indriya, facoltà “di “conoscen za[10].
Che si tratti di conoscenza valida (saṃyaj jñāna) è provato dal fatto che, per esempio, la vista
percepisce davvero la forma della corda, mentre è la mente che alla retta
percezione sovrappone, per errata interpretazione, l’apparenza illusoria del
serpente. Infatti la mente ha degli oggetti esterni solo una conoscenza
mediata. Mediata, appunto, dalle facoltà di senso, ragion per cui possiamo a
buon diritto dire che se la mente fosse isolata dai propri sensi non avrebbe
nessun contatto con il mondo esterno[11].
Tuttavia, anche la mente, manas,
riceve certe intuizioni, che essa sperimenta come una gamma di sensazioni
comprese tra i termini estremi di gioia (sukha)
e di dolore (duḥkha). Anche queste
esperienze piacevoli o spiacevoli sono della natura delle intuizioni immediate;
il che spiega le repentine impressioni di simpatia o antipatia che, a seconda
delle inclinazioni innate di ogni essere vivente, sorgono irriflessivamente nei
confronti di persone, cose e idee. Analogamente, l’intelletto, buddhi, quando elabora le informazioni
che il manas le comunica, a sua volta
recepisce intuizioni nella forma di ciò che gli appare come attraente o
repellente a livello concettuale, ossia ciò che è favorevole (artha o śreyas) od ostile (anartha o aśreyas) al proprio “io” (aham)
e al proprio “mio” (mama). Tutto ciò accade appunto nel dominio
individuale sottoposto all’aham, o jīvātman che dir si voglia. Questi
diversi livelli di intuizione riguardano comunque una valutazione immediata e
istantanea e sono provocati dal contatto sensoriale con oggetti esterni,
durante la veglia, e con oggetti interni, durante il sogno. Fanno, cioè, parte
dell’orizzonte ordinario (vyāvahārika
darśana) dell’“io”. Queste
intuizioni, infatti, anche se repentine e immediate, riguardano avvenimenti che
si sviluppano nel tempo, e come tali sorgono e si estinguono nel corso del
tempo.
Ci si può chiedere, a questo punto, cos’è che fa sì che
l’essere umano diventi cosciente delle sue percezioni, sentimenti, volizioni e
desideri. Come s’arriva a concepire la mente e le sue stesse intuizioni? Come
si riesce a riconoscere quando la mente assieme a tutte le sue molteplici
modificazioni è presente o è assente? È evidente che i sensi non possono
diventare oggetti di loro stessi e quindi non possono indagarsi da soli: la
vista non può vedere la vista, né l’udito può udire l’udito. Parimenti la mente
non è in grado di pensare a se stessa come un oggetto del suo pensiero[12] né, a maggior ragione, diventare cosciente della sua assenza. Per esempio la
mente non può essere cosciente durante il sonno profondo, lo svenimento, il
coma grave, la condizione artificialmente indotta dall’anestesia totale, poiché
in quegli stati essa è assente (abhava).
È, infatti, esperienza comune di tutti che la percezione sensoria e la presenza
mentale in quegli stati sono sospese. Ebbene, ciò che ci rende capaci d’essere
coscienti di tutte le intuizioni corrispondenti alle percezioni, emozioni, volizioni
e desideri provenienti dai sensi, dalla mente, dall’intelletto e dall’“io”, sia
durante la loro presenza sia in loro assenza (bhavābhava), è quello che il Vedānta
nel suo linguaggio tecnico chiama anubhāva,
l’Intuizione universale. Le intuizioni sensorie e mentali possono essere
ricordate quando ci si sforza in tal senso: questo è possibile perché l’anubhāva immutabile ci permette d’essere
consapevoli di tali esperienze temporanee[13], anche quando sono passate. Sul rapporto tra le intuizioni o illuminazioni
sensorie e mentali e l’Intuizione illuminante universale, la śruti afferma quanto segue:
Una
volta Yājñavalkya andò da Janaka [Re] di Videha senza aver l’intenzione
d’impartire alcun insegnamento. Dopo che Janaka [Re] di Videha e Yājñavalkya
ebbero dialogato sull’agnihotra, Yājñavalkya concesse al Re di esaudire un suo
desiderio. Il Re gli chiese di poterlo interrogare quanto voleva e Yājñavalkya
accettò. Fu così che il Re gli pose per prima questa domanda:
«Yājñavalkya,
quale luce illumina questo puruṣa?» Egli rispose: «O Re, è la luce del sole.
Illuminato dalla luce solare il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.»
«Sì, Yājñavalkya, è davvero così;
ma,
Yājñavalkya, quando il sole è tramontato, quale luce illumina questo puruṣa?»
«O Re, è la luce della luna. Illuminato dalla luce lunare il puruṣa sta, si
muove, agisce e torna a casa.» «Sì, Yājñavalkya, è davvero così;
ma,
Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, quale luce illumina
questo puruṣa?» «O Re, è la luce del fuoco. Illuminato dalla luce del fuoco il
puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.» «Sì, Yājñavalkya, è davvero così;
ma,
Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati e il fuoco è spento,
quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce del suono [o voce].
Illuminato dalla luce del suono il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.
Perciò, o Re, quando le tenebre sono dense tanto da non poter vedere neanche
una propria mano, si va verso il luogo da cui si sente [provenire]
un suono» «Sì,
Yājñavalkya, è davvero così;
ma,
Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, il fuoco è spento, e
ogni suono tace, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce
dell’Ātman. Illuminato dalla luce dell’Ātman il puruṣa sta, si muove, agisce e
torna a casa.»[14]
Śaṃkara, commentando il quinto śloka spiega che :
Durante
la stagione delle piogge, quando alle tenebre [s’aggiunge] l’oscurità prodotta
dalle nuvole, soffocando ogni barlume, tanto da non poter vedere neanche una
propria mano e da interrompere qualsiasi attività a causa della mancanza di
luce esterna, ci si riesce a orientare se si percepisce un suono, come per
esempio il latrato di un cane o il raglio d’un asino. Il suono agisce come una
luce e connette l’udito con la mente: così, in questo caso, il suono svolge la
funzione di luce.[15]
Non per nulla in un altro passaggio s’afferma: “È attraverso
la mente che si vede e si ode.”[16] Il che non fa altro che sottolineare il fatto che le facoltà di senso non sono
altro che forme o modificazioni (vikāra,
vṛtti) della mente. Così, dunque, si
spiega in qual modo la mente, essendo la radice di tutti i sensi, abbia la
capacità di usare l’udito come fosse la vista[17], al fine d’ottenere l’intuizione sensoriale necessaria. Le prime quattro strofe, dunque, riguardano le intuizioni sensorie e la quinta l’intuizione mentale[18]. In quest’ultimo caso, infatti, la mente interviene per usare un senso che non è
collegato all’elemento corrispondente: il senso della vista (rūpa) corrisponde alla luce, l’elemento tejas, cioè il fuoco. Ma in assenza totale di luce e perciò con il
senso della vista onnubilato, la mente, al fine di poter ritrovare l’agognata
via di ritorno a casa, è in grado di decidere di sostituirlo con un altro
senso, l’udito (śrotra) che
corrisponde all’elemento etere (ākāśa).
Ritorniamo ora al sesto śloka sopra citato, che qui c’interessa maggiormente in quanto
tratta dell’Intuizione universale che è l’Ātman stesso: tant’è vero che vi è
affermato esplicitamente che la luce interiore dell’Ātman costituisce l’intrinseca natura dell’uomo e di ogni altro
essere. La luce dell’Intuizione può istruire direttamente e, anche nella vita
quotidiana, funge da eterna guida in ogni scelta per quell’aggregato di corpo,
facoltà di senso, mente, intelletto ed ego
che è l’individuo. A questo dobbiamo aggiungere alcune precisazioni, perché
qualcuno potrebbe sospettare che l’Intuizione universale si limiti a essere una
funzione della mente atta a ispirare l’aggregato individuale al fine d’operare
delle scelte e a compiere le conseguenti azioni. Questa idea sarebbe
comprensibile se si trattasse di una semplice questione di deduzione: in
quest’ultimo caso la mente non ha la possibilità d’indagare il mondo esterno se
non attraverso la mediazione delle facoltà di senso (indriya) e per mezzo degli organi corporei
corrispondenti (indriya golaka).
Sempre rimanendo su questo piano individuale, si sa che esiste una facoltà
razionale che rende la buddhi capace
di mettere a confronto le somiglianze e le differenze tra due idee o due
oggetti, purché siano collocati nel medesimo continuum spaziale o percepibili come successivi nel medesimo
scorrere del tempo. Ma poiché il processo cognitivo è possibile solamente se
l’organo interno (antaḥkāraṇa),
quando pensa, formula una idea alla volta come modificazione di se stesso[19], è evidente che non può mai concepire due pensieri simultaneamente. Per questa
ragione la mente, nel suo complesso, può elaborare solo un pensiero
separatamente da un altro. In caso contrario, i due pensieri si ostacolerebbero
reciprocamente durante il loro sviluppo.
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
[1] Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (BU), IV. 5. 15.
[2] Kaṭha
Upaniṣad (KU), I. 2. 12.
[3] BU
IV. 3. 22.
[4] BSŚBh
IV. 1. 3.
[5] BSŚBh
IV. 1. 2.
[6] BU
II. 5. 19.
[7] Quando è usato al di fuori dell’ambito
vedāntico, vijñāna, come anche vidyā, sta a significare una scienza
particolare, applicata a qualche settore della cosmologia, distinguendolo così
da jñāna, la conoscenza metafisica.
[8] Segnaliamo al lettore che in questo studio
l’Intuizione applicata all’Ātman è
stata scritta sempre con l’iniziale maiuscola, per distinguerla con maggiore
prontezza dalle altre intuizioni, in minuscolo, riferite a quelle dei sensi,
della mente e dell’intelletto.
[9] Questa affermazione è
tradizionalmente espressa dall’affermazione: “Apro gli occhi e vedo”. Si
potrebbe obiettare con ragione che i sensi recepiscono le percezioni degli
oggetti esterni tramite la mediazione degli organi corrispondenti. Cosa
d’altronde verissima poichè nulla si può percepire senza il supporto del corpo
grossolano. Tuttavia, nella prospettiva in cui ci stiamo ponendo, quella
espressa nella Māṇḍūkya Upaniṣad, gli
organi sono considerati non tanto come mediatori, ma come delle aperture (mukha) attraverso le quali passano
liberamente le percezioni. In questo caso, è considerato intermediazione
soltanto quando un organo di senso ne sostituisce un altro, come nella
successiva citazione dalla Bṛhadārṇyaka
Upaniṣad in cui è detto che l’udito sostituisce la vista per orientarsi.
[10] Naturalmente, per i fini stessi che si
prefigge, questa conoscenza non può superare i limiti degli oggetti su cui
indaga, appartenenti tutti alla modalità grossolana.
[11] Se in questa condizione fossero annullati
anche tutti i ricordi impressi nella mente (vāsanā
saṃskāra), l’antaḥkāraṇa non
potrebbe avere alcuna prova dell’esistenza del mondo esterno.
[12] La mente può, infatti, analizzare alcune sue
attività minori formulate come pensieri o idee, ma non se stessa in quanto
tale. Questa concezione è sempre più lontana dalle convinzioni moderne, il cui
stato d’ignoranza, avidyā, ha
raggiunto un livello d’estrema gravità, tale da indurre a confondere la mente
con il suo organo coporeo corrispondente, il cervello, e le funzioni
intellettive con i segnali elettrici del sistema nervoso.
[13] È in virtù di questo anubhāva immutabile che è possibile mantenere una fievole
consapevolezza dei sogni, una volta “ritornati” allo stato di veglia. Sogni che
non sono ricordi, in quanto il ricordo nello stato di veglia è la
memorizzazione di un’esperienza passata che è avvenuta sempre nel medesimo
stato di veglia. Possiamo portare un esempio empirico di questa differenza: il
ricordo si affievolisce con il passare dei giorni, dei mesi, degli anni. La
consapevolezza del sogno elaborata appena svegli è cancellata nel giro di pochi
secondi o minuti. Nel prossimo capitolo ritorneremo a sviluppare queste
considerazioni.
[14] BU IV.
3. 1-6.
[15] Bṛhadāraṇyaka
Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (BUŚBh),
IV. 3. 5.
[16] BU
I. 5. 3.
[17] Questa osservazione consente di comprendere
in qual modo, nei tempi primordiali, i “veggenti” (questo è il significato
letterale di ṛṣi derivato dalla
radice verbale dṛś, vedere) abbiano potuto
“ascoltare” la śruti. Quest’ultimo termine significa, infatti,
“audizione”, perciò è sinonimo di śrāvaṇa.
[18] Rispettivamente indriya anubhāva (o vedana
anubhava) e mānasa pratyakṣa (o pratyaya
anubhāva quest’ultimo usato anche per l’intuizione intellettuale). Śrī Śrī Satcidānandendra Saraswathi Swāmījī, Articles and Thoughts on Vedanta, Bangalore, Adhyatma Prakasha
Karyalaya, 2015, pp. 53-54.
[19] Nel Vedānta i pensieri (mata, pratyāya) sono
considerati provenire dall’esterno; prodotti da Hiraṇyagarbha, essi vanno e
vengono alla mente di tutti gli esseri individuali attraverso i prolungamenti
sottili, provocando al loro passaggio delle modificazioni mentali (vṛtti, coinvolgimenti). Queste
modificazioni costituiscono la base per le cogitazioni che un determinato
individuo rielabora e poi rimette in circolo. La portata generale dei pensieri
è ciò che dà origine alla mentalità, che si diffonde comunemente tra gli
individui di una medesima specie, comunità, generazione; l’esempio
dell’insorgenza inattesa e immotivata delle mode nel comportamento e nelle idee
si spiega in questi termini. Quanto al passaggio dei pensieri indotti da
Hiraṇyagarbha nella mente d’un individuo, esso può provocare una “scoperta”
scientifica, tecnologica, geografica o altro, in forma apparentemente casuale,
che si suole attribuire alla genialità dello “scopritore”. In realtà lo
“scopritore” appare sempre imbattersi passivamente e casualmente nella “scoperta”,
la cui giustificazione “scientifica” ufficiale è poi formulata a posteriori.
L’esempio classico usato per illustrare come circolano i pensieri nella
collettività composta dagli individui è quella dell’aria (prāṇa) che si respira. Essa è di ciascuno e di tutti, e circola in
continuazione nel dominio del generale, diffondendo nell’ambiente e nei singoli
i residui sottili espulsi, mischiati all’aria espirata da ogni individuo.
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