"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 28 gennaio 2018

René Guénon, Considerazioni sull'Iniziazione - XVI - Il rito e il simbolo

René Guénon
Considerazioni sull'Iniziazione

XVI - Il rito e il simbolo

Abbiamo in precedenza indicato come il rito e il simbolo, i quali sono l’uno e l’altro elementi essenziali di qualsiasi iniziazione, e si ritrovano anzi ‑ in maniera più generale ‑ invariabilmente associati in tutto quel che presenta carattere tradizionale, siano in realtà strettamente legati dalla loro stessa natura.

Di fatto, qualsiasi rito comporta necessariamente un significato simbolico in tutti i suoi elementi costitutivi, e, inversamente, ogni simbolo produce (ed è proprio a questo che è essenzialmente destinato), per colui che lo medita con le attitudini e le disposizioni richieste, effetti rigorosamente paragonabili a quelli dei riti veri e propri, a patto che ‑ ovviamente ‑ ci sia al punto di partenza di un tale lavoro di meditazione e quale condizione preventiva, la trasmissione iniziatica regolare, senza la quale, del resto, i riti non sarebbero se non un vano simulacro, come accade nelle parodie della pseudo-iniziazione. C’è da aggiungere che, quando si tratti di riti e di simboli veramente tradizionali (e quelli che non possiedono tale carattere non meritano di essere indicati con questi nomi, poiché in realtà sono soltanto contraffazioni puramente profane), la loro origine è ugualmente «non-umana»; per cui l’impossibilità da noi già segnalata di assegnar loro un autore o un inventore definito, non è dovuta all’ignoranza ‑ come possono pensare gli storici comuni (quando non si spingano, per la disperazione, a vedere in essi il prodotto di una specie di «coscienza collettiva», la quale, se pure esistesse, sarebbe in ogni caso assolutamente incapace di dar origine a cose di carattere trascendente come lo sono quelle in questione) ‑, ma è una conseguenza necessaria proprio di tale origine, che non può essere contestata se non da coloro che disconoscono la natura vera della tradizione e di tutto quel che ne fa parte integrante, com’è evidentemente il caso per i riti e per i simboli.
Volendo esaminare più da vicino l’identità di fondo del rito e del simbolo, si può dire innanzitutto che il simbolo, inteso quale raffigurazione «grafica» come più abitualmente avviene, è in qualche modo non altro che la fissazione di un gesto rituale[1]. Accade d’altronde spesso che la tracciatura stessa del simbolo debba essere effettuata regolarmente in condizioni che le conferiscono tutti i caratteri di un rito vero e proprio; di questo esiste un esempio evidentissimo in un ambito inferiore, quello della magia (la quale è a ogni buon conto una scienza tradizionale), per quanto riguarda la confezione delle figure talismaniche; e, nella sfera che più da vicino ci interessa, la tracciatura degli yantra nella tradizione indù ne è anch’essa un esempio non meno ragguardevole[2].
Ma non è tutto, giacché la nozione di simbolo alla quale ci siamo riferiti fin qui è, a dire il vero, ancora troppo restrittiva: non solo esistono simboli figurativi o visivi, ma anche simboli sonori; abbiamo già indicato in altra sede la distinzione tra due categorie fondamentali di simboli, distinzione che nella dottrina indù è quella tra lo yantra e il mantra[3]. Abbiamo anche precisato in tale occasione che la loro rispettiva predominanza caratterizzava due sorta di riti, i quali in origine si riconducono ‑ per i simboli visivi ‑ alle tradizioni dei popoli sedentari, e ‑ per i simboli sonori ‑ a quelle dei popoli nomadi; è del resto evidente che tra gli uni e gli altri non si può stabilire la separazione in modo assoluto (e per questa ragione parliamo soltanto di predominanza), poiché in questo campo sono possibili tutte le combinazioni, a causa dei molteplici adattamenti prodottisi nel corso delle epoche, e in conseguenza dei quali si sono costituite le diverse forme tradizionali che sono attualmente conosciute. Le considerazioni che precedono mostrano chiaramente il legame che in modo del tutto generale esiste tra i riti e i simboli; ma possiamo aggiungere che nel caso dei mantra tale vincolo è più immediatamente evidente: in effetti, mentre il simbolo visivo, una volta tracciato, rimane o può rimanere, allo stato permanente (ed è questa la ragione per cui abbiamo parlato di gesto «fissato»), il simbolo sonoro ‑ invece ‑ non si manifesta se non durante l’esecuzione vera e propria del rito. Tale differenza si trova però attenuata quando si stabilisce una corrispondenza tra i simboli sonori e i simboli visivi; è ciò che accade nella scrittura, la quale rappresenta una vera fissazione del suono (non del suono in quanto tale, beninteso, ma di una possibilità permanente di riprodurlo); e non c’è quasi bisogno di ricordare a tal proposito che qualsiasi scrittura, per lo meno per quanto riguarda le sue origini, è una raffigurazione essenzialmente simbolica. D’altronde, la stessa cosa si può dire financo della parola, alla quale tale carattere simbolico è non meno inerente per sua natura propria: è infatti evidente che la parola, quale essa sia, non può essere che un simbolo dell’idea che è destinata a esprimere; per cui qualunque linguaggio, sia orale sia scritto, è veramente un insieme di simboli, ed è precisamente questa la ragione per cui il linguaggio, a onta di tutte le teorie «naturalistiche» che sono state immaginate nei tempi moderni per cercare di spiegarlo, non può essere una creazione più o meno artificiale dell’uomo, né un semplice prodotto delle sue facoltà di ordine individuale[4].
Esiste, nel campo degli stessi simboli visivi, un caso che è paragonabile a quello dei simboli sonori sotto il profilo che abbiamo appena indicato: è quello dei simboli che non vengono tracciati in modo permanente, ma soltanto usati come segni nei riti iniziatici (in particolare i «segni di riconoscimento» di cui abbiamo parlato in precedenza)[5] e anche nei riti religiosi (il «segno della croce» è fra questi ultimi un esempio tipico e noto a tutti)[6]; in questo caso il simbolo fa veramente una sola cosa con lo stesso gesto rituale[7]. Sarebbe però assolutamente inutile voler costituire con tali segni una terza categoria di simboli, distinta da quelle di cui abbiamo parlato finora; certi psicologi forse li classificherebbero in questo modo denominandoli simboli «motori», o con qualche altra espressione del genere; sennonché, poiché sono fatti per essere percepiti dalla vista, essi rientrano con ciò stesso nella categoria dei simboli visivi; e in tale categoria essi sono, a motivo della loro «istantaneità» ‑ se così si può dire ‑ quelli che presentano la rassomiglianza maggiore con la categoria complementare, quella dei simboli sonori. D’altra parte, lo stesso simbolo «grafico» è, ripetiamo, un gesto o un movimento «fissato» (quel movimento, o insieme più o meno complesso di movimenti, che occorre fare per tracciarlo, e che sempre gli stessi psicologi, nel loro particolare linguaggio, chiamerebbero senza dubbio uno «schema motorio»)[8]; e, per quanto riguarda i simboli sonori, si può dire ancora che il movimento degli organi vocali, necessario per la loro produzione (sia che si tratti dell’emissione della parola ordinaria o di quella di suoni musicali), costituisca in fondo un gesto, così come gesti sono tutti gli altri tipi di movimenti corporei, dai quali non è del resto mai possibile isolarlo completamente[9]. Sicché tale nozione di gesto, intesa nella sua accezione più ampia (accezione che è d’altronde più conforme a ciò che implica veramente la parola di quanto non lo sia l’accezione più restrittiva datale dall’uso corrente), riconduce tutti questi casi diversi all’unità, talché si può dire che sia in ciò che essi hanno in fondo il loro principio comune; tale fatto ha, nella sfera metafisica, un significato profondo, che però noi non possiamo pensare di sviluppare in quest’occasione per non scostarci troppo dall’argomento principale del nostro studio.
Si deve poter ora capire senza difficoltà come ogni rito sia letteralmente costituito da un insieme di simboli: questi ultimi, infatti, non solo comprendono gli oggetti usati o le figure rappresentate, come si potrebbe esser tentati di pensare quando ci si attenga alla nozione più superficiale, ma anche i gesti effettuati e le parole pronunciate (queste ultime intese però, in realtà ‑ secondo quanto abbiamo detto ‑, soltanto come un caso particolare dei primi), in una parola, tutti gli elementi del rito senza eccezione; e tali elementi hanno per questa ragione valore di simboli a causa della loro propria natura, e non in virtù di un significato sovrapposto che gli proverrebbe dalle circostanze esteriori e non sarebbe loro veramente connaturato. Si potrebbe inoltre dire che i riti sono simboli «messi in azione», che qualsiasi gesto rituale è un simbolo «agito»[10]; si tratta, insomma, solo di un altro modo di esprimere la stessa cosa, il quale pone soltanto più particolarmente in evidenza la caratteristica che il rito ha di essere, così come ogni azione, qualcosa che si sviluppa necessariamente nel tempo[11], mentre il simbolo in quanto tale può essere considerato da un punto di vista «intemporale». Secondo questo modo di vedere si potrebbe parlare di una certa preminenza del simbolo nei confronti del rito; sennonché rito e simbolo non sono in fondo che due aspetti di una medesima realtà; e in definitiva questa realtà non è se non la corrispondenza che lega tra di loro tutti i gradi dell’Esistenza universale, cosicché, attraverso essa, il nostro stato umano può esser messo in comunicazione con gli stati superiori dell’essere.



[1] Queste considerazioni si ricollegano direttamente a quella che abbiamo chiamato la «teoria del gesto», alla quale abbiamo avuto occasione di fare allusioni in diverse occasioni.
[2] Si può accostare a essi ‑ nell’antica Massoneria ‑ la tracciatura del «quadro di Loggia» (in inglese tracing board, e anche ‑ forse per corruzione ‑ trestle board), che costituiva effettivamente uno yantra vero e proprio. I riti che erano in relazione con la costruzione dei monumenti di destinazione tradizionale potrebbero anch’essi esser citati qui come esempio, poiché si trattava di monumenti che avevano necessariamente in sé un carattere simbolico.
[3] Cfr. Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. XXI.
[4] È scontato che la distinzione tra le «lingue sacre» e le «lingue profane» interviene solo in modo secondario; per le lingue, così come per le scienze e per le arti, il carattere profano non rappresenta mai altro che il risultato di un vero e proprio processo di degradazione, processo che si è però potuto sviluppare più presto e più facilmente nel caso delle lingue a motivo del loro uso più corrente e più generalizzato.
[5] Le «parole» di impiego similare rientrano naturalmente nella categoria dei simboli sonori.
[6] Tale segno era del resto anch’esso un vero «segno di riconoscimento» per i Cristiani dei primi tempi.
[7] Un caso in certo qual modo intermedio è quello delle figure simboliche che, tracciate all’inizio di un rito o nel corso della sua preparazione, sono cancellate subito dopo la sua esecuzione; questo succede per molti yantra, e così accadeva anche in altri tempi per il «quadro di Loggia» nella Massoneria. Una tale pratica non rappresenta soltanto una precauzione adottata contro la curiosità profana, spiegazione che è sempre troppo «semplicistica» e superficiale; in essa occorre vedere soprattutto proprio una conseguenza del legame che unisce il simbolo al rito, e fa sì che il primo non abbia ragione di permanere allo stato di visibilità al di fuori del secondo.
[8] Questo si vede chiaramente in un caso come quello del «segno di riconoscimento» che per i Pitagorici consisteva nella tracciatura del pentagramma d’un sol tratto.
[9] Per quanto riguarda i rapporti del linguaggio con il gesto, inteso nel suo senso più comune e restrittivo, segnaliamo i lavori del Rev. P. Marcel Jousse, i quali ‑ per quanto procedano da un punto d’avvio necessariamente molto diverso dal nostro ‑ tuttavia non sono meno degni d’attenzione dal nostro punto di vista, in quanto toccano la questione di taluni modi d’espressione tradizionali generalmente collegati alla costituzione e all’uso delle lingue sacre e quasi interamente perduti o dimenticati nelle lingue profane, le quali sono in definitiva ridotte alla forma di linguaggio più restrittivamente limitata di tutte.
[10] Da questo punto di vista porremo in particolare evidenza il ruolo che nei riti ricoprono i gesti denominati mudrâ nella tradizione indù, gesti che costituiscono un vero e proprio linguaggio di movimenti e atteggiamenti; i «toccamenti» (grips, in inglese) usati come «mezzi di riconoscimento» nelle organizzazioni iniziatiche, tanto in Occidente quanto in Oriente, in realtà non sono altro che un particolare caso di mudrâ.
[11] In sanscrito la parola karma, la quale significa prima di tutto «azione» in generale, viene usata in modo «tecnico» per denominare in particolare l’«azione rituale»; quel che esprime allora direttamente è proprio il carattere del rito che qui indichiamo.

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