Gian Giuseppe Filippi
Il Serpente e la Corda
Il Serpente e la Corda
Indice I Parte
Introduzione
1. Attuale situazione delle forme tradizionali e delle organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: śrāvaṆa
7. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: manana
8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
9. Significato vedāntico di Yoga
10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
11. Da manana a nididhyāsana
12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
I Parte
4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
Le precedenti considerazioni ci conducono ad affermare che
al di sopra e al di là delle intuizioni mentali, ci deve essere qualcosa di
costante che ci rende capaci di adempiere a quelle funzioni.
Per comprendere questa affermazione produciamo come esempio l’idea della somiglianza o della differenza tra due oggetti collocati in due condizioni spaziali e temporali diverse, come, per esempio, un avvenimento a cui s’assiste nello spazio e tempo della veglia e un altro evento a cui si partecipa nello spazio e nel tempo del sogno. Ora, il mondo della veglia e il mondo del sogno hanno tempi e spazi separati; in tutta evidenza non c’è alcuna continuità tra spazio e tempo dello stato di veglia (jāgrat avasthā) e spazio e tempo del sogno (svāpna avasthā). Ciò che in stato di veglia si ricorda dei sogni, perciò, in realtà non fa parte della memoria di chi veglia. Infatti durante la veglia si può ricordare soltanto qualcosa che si è sperimentato durante la veglia. Quello che si chiama “ricordo” del sogno, quindi, non è affatto un “ricordo”[1], ma qualcosa di altra natura. Questo presuppone necessariamente un Testimone cosciente (Sākṣin Caitanya) che sta “dietro” alla mente presa come un tutt’uno, pur nella sua complessità (antaḥkāraṇa), che esiste indipendentemente e che è al di là d’ogni spazio e tempo, la cui Coscienza rimane inalterata dalla veglia e dal sogno[2]. La natura immutabile dell’Intuizione, la quale rimane sempre identica a se stessa indipendentemente dalle condizioni di spazio e di tempo, non è solamente dimostrata dalla deduzione (anumāna pramāṇa) sopra formulata, ma trova supporto e spiegazione nella śruti. Così la dottrina autorevole delle Upaniṣad[3] (śabda pramāṇa) ricorre anche agli esempi tratti dall’esperienza quotidiana della vita umana per indicare un’evidenza che, anche se non compresa nel suo vero senso, è davanti agli occhi di tutti.
Perciò è il Sé autoluminoso che illumina tutti gli oggetti, fenomeni e accadimenti onirici per mezzo della sua propria coscienza: questa è la ragione per la quale lo stato di sogno (svāpna avasthā) è chiamato anche taijasa, il luminoso. Questa coscienza permanente è l’Intuizione illuminante che è lo stesso Ātman. Nel sogno, il Sé non ha bisogno di ricorrere a una luce a lui esteriore che debba operare attivamente, come invece fa la mente quando percepisce gli oggetti esterni nello stato di veglia (jāgrat avasthā). In quest’ultimo stato il soggetto vegliante, infatti, illumina gli oggetti della sua indagine sensoriale per mezzo della luce di quella parziale coscienza[7] che è la mente; ma il vegliante deve anche ricorrere alla luce solare e ad altre luci secondarie, come è stato spiegato nella precedente citazione della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad sui quesiti di re Janaka. Invece nello svāpna avasthā, gli oggetti interni sono tutti illuminati da un’unica luce interiore: è perciò evidente che l’Ātman è la sua propria luce. Ciò risulta ancor più lampante quando si smette di considerare i singoli oggetti del mondo onirico, e si prende coscienza dello stato di sogno (svāpna avasthā) come un tutto, cioè quando lo si considera come un unico oggetto sintetico[8]. Ci si renderà conto allora che ciò accade anche quando si diventa coscienti dello stato di veglia (jāgrat avasthā), non per via analitica lasciandosi coinvolgere nel mondo della veglia, ma contemplandolo come un tutt’uno. Dalle precedenti osservazioni e dimostrazioni, si trae che gli stati di jāgrat e di svāpna sono tra loro discontinui al punto tale che né il mondo con gli oggetti che lo compongono, spazio, tempo, causalità, molteplicità e altre condizioni limitative tipiche del Macrocosmo, né il soggetto, con il suo corpo, sensi, mente, intelletto, io (aham) e altre condizioni limitative tipiche del microcosmo, possono essere traslati da un’avasthā all’altra. Ciò nonostante hanno in comune la coscienza del Testimone, ossia l’Ātman, il quale rimane inalterato dalla presenza o assenza degli stati di veglia e di sogno. Questa riflessione ci permette di ottenere l’Intuizione che l’immutabile coscienza dell’Ātman continua a mantenersi identica a se stessa persino nello stato di sonno profondo (suṣupti avasthā), in cui non soltanto sono evidentemente assenti la mente e i sensi, ma anche l’“io” (aham), che è il loro locus. Ecco come si esprime la śruti a questo riguardo:
Per comprendere questa affermazione produciamo come esempio l’idea della somiglianza o della differenza tra due oggetti collocati in due condizioni spaziali e temporali diverse, come, per esempio, un avvenimento a cui s’assiste nello spazio e tempo della veglia e un altro evento a cui si partecipa nello spazio e nel tempo del sogno. Ora, il mondo della veglia e il mondo del sogno hanno tempi e spazi separati; in tutta evidenza non c’è alcuna continuità tra spazio e tempo dello stato di veglia (jāgrat avasthā) e spazio e tempo del sogno (svāpna avasthā). Ciò che in stato di veglia si ricorda dei sogni, perciò, in realtà non fa parte della memoria di chi veglia. Infatti durante la veglia si può ricordare soltanto qualcosa che si è sperimentato durante la veglia. Quello che si chiama “ricordo” del sogno, quindi, non è affatto un “ricordo”[1], ma qualcosa di altra natura. Questo presuppone necessariamente un Testimone cosciente (Sākṣin Caitanya) che sta “dietro” alla mente presa come un tutt’uno, pur nella sua complessità (antaḥkāraṇa), che esiste indipendentemente e che è al di là d’ogni spazio e tempo, la cui Coscienza rimane inalterata dalla veglia e dal sogno[2]. La natura immutabile dell’Intuizione, la quale rimane sempre identica a se stessa indipendentemente dalle condizioni di spazio e di tempo, non è solamente dimostrata dalla deduzione (anumāna pramāṇa) sopra formulata, ma trova supporto e spiegazione nella śruti. Così la dottrina autorevole delle Upaniṣad[3] (śabda pramāṇa) ricorre anche agli esempi tratti dall’esperienza quotidiana della vita umana per indicare un’evidenza che, anche se non compresa nel suo vero senso, è davanti agli occhi di tutti.
[Il puruṣa,] quando s’addormenta, da questo mondo troppo coinvolgente porta lì qualche cosa[4]. Egli sopprime [il corpo] e si crea un nuovo corpo e, grazie alla sua somiglianza e la sua propria luminosità, sogna. Qui, questo puruṣa diventa autoluminoso.[5]Quando si sta sognando, si vedono corpi apparenti e apparenti oggetti. Ma cos’è quella luce che, anche quando si tengono gli occhi chiusi, ci permette di osservare questa replica del mondo della veglia che è il sogno[6]? In ogni evidenza, non c’è nulla dello stato di veglia che possa passare allo stato di sogno, come neppure i sensi né la mente “cosciente” tipica dello stato di veglia. Se ci si addormenta con un fucile in mano, com’è che con quest’arma non si può uccidere la tigre che ci assale nel sogno? Se si guadagna una fortuna in sogno, com’è che ci si risveglia poveri?
Perciò è il Sé autoluminoso che illumina tutti gli oggetti, fenomeni e accadimenti onirici per mezzo della sua propria coscienza: questa è la ragione per la quale lo stato di sogno (svāpna avasthā) è chiamato anche taijasa, il luminoso. Questa coscienza permanente è l’Intuizione illuminante che è lo stesso Ātman. Nel sogno, il Sé non ha bisogno di ricorrere a una luce a lui esteriore che debba operare attivamente, come invece fa la mente quando percepisce gli oggetti esterni nello stato di veglia (jāgrat avasthā). In quest’ultimo stato il soggetto vegliante, infatti, illumina gli oggetti della sua indagine sensoriale per mezzo della luce di quella parziale coscienza[7] che è la mente; ma il vegliante deve anche ricorrere alla luce solare e ad altre luci secondarie, come è stato spiegato nella precedente citazione della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad sui quesiti di re Janaka. Invece nello svāpna avasthā, gli oggetti interni sono tutti illuminati da un’unica luce interiore: è perciò evidente che l’Ātman è la sua propria luce. Ciò risulta ancor più lampante quando si smette di considerare i singoli oggetti del mondo onirico, e si prende coscienza dello stato di sogno (svāpna avasthā) come un tutto, cioè quando lo si considera come un unico oggetto sintetico[8]. Ci si renderà conto allora che ciò accade anche quando si diventa coscienti dello stato di veglia (jāgrat avasthā), non per via analitica lasciandosi coinvolgere nel mondo della veglia, ma contemplandolo come un tutt’uno. Dalle precedenti osservazioni e dimostrazioni, si trae che gli stati di jāgrat e di svāpna sono tra loro discontinui al punto tale che né il mondo con gli oggetti che lo compongono, spazio, tempo, causalità, molteplicità e altre condizioni limitative tipiche del Macrocosmo, né il soggetto, con il suo corpo, sensi, mente, intelletto, io (aham) e altre condizioni limitative tipiche del microcosmo, possono essere traslati da un’avasthā all’altra. Ciò nonostante hanno in comune la coscienza del Testimone, ossia l’Ātman, il quale rimane inalterato dalla presenza o assenza degli stati di veglia e di sogno. Questa riflessione ci permette di ottenere l’Intuizione che l’immutabile coscienza dell’Ātman continua a mantenersi identica a se stessa persino nello stato di sonno profondo (suṣupti avasthā), in cui non soltanto sono evidentemente assenti la mente e i sensi, ma anche l’“io” (aham), che è il loro locus. Ecco come si esprime la śruti a questo riguardo:
Dunque questa è la sua vera forma al di là d’ogni desiderio, al di là d’ogni male, senza paura (abhaya). Come qualcuno che è abbracciato appassionatamente dall’amatissima moglie non è cosciente né del mondo esterno né di quello interno, così anche questo puruṣa, appassionatamente abbracciato dall’Ātman cosciente, non conosce nulla di esterno o di interno. Questa in verità è per lui la situazione (rūpa) che ha esaudito tutti i desideri, per la quale è estinto ogni altro desiderio diverso da quello per il Sé, e che è priva di desideri e libera da sofferenza.[9]Quell’Ātman reale, che è Testimone anche dell’aham, non è mai contaminato dalle apparenze o dai mutamenti del mondo esterno (jāgrat prapañca) né da quelli del mondo interno (svāpna prapañca). Può essere riconosciuto per il fatto che la sua natura essenziale di pura coscienza e di Intuizione assoluta permane anche mentre passa, almeno in apparenza[10], attraverso i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo. Rimane inalterato anche quando attraversa nascita, crescita e morte, se lo si considera dal punto di vista microcosmico; oppure quando attraversa le fasi di manifestazione, mantenimento e dissoluzione dell’Universo, se considerato dal punto di vista macrocosmico. Si deve quindi prestare attenzione a queste due affermazioni di Śaṃkara, per comprendere a fondo che la immutabile natura dell’Ātman è esattamente la stessa cosa dell’Intuizione:
Esattamente come un mago non cambia affatto se stesso durante le tre fasi temporali [in cui proietta, mantiene e dissolve] una immagine illusionistica ch’egli stesso ha prodotto, per il semplice fatto che quest’ultima è priva di sostanza, così anche il vero Sé rimane incontaminato dall’immagine illusoria del saṃsāra.[11]
Esattamente come un sognatore rimane immutato dall’esperienza fantasmagorica dei sogni, per il fatto che questa esperienza non continua ad apparire nella veglia e nel sonno profondo, così l’unico Testimone di tutti i tre stati rimane sempre immutato e incontaminato dalle tre avasthā che sono mutevoli. In verità, quel vero Sé appare nella triplice forma delle avasthā, che è solo un gioco illusionistico, come quando la corda è percepita sotto le parvenze di un serpente o altri oggetti. A questo riguardo il venerato maestro [Gauḍapāda], ben versato nell’autentica tradizione vedāntica, ha proclamato nella seguente kārikā[12]: “Quando il jīva si sveglia dal sogno senza inizio prodotto dalla Māyā, egli giunge a conoscere il Principio non duale mai nato (aja), che non dorme mai né sogna”.[13]Qui è probabile che si possa sollevare un’obiezione: se, come sostengono gli advaitin, la libertà da tutte le differenziazioni è la natura intrinseca dell’Ātman, perché le cose differenziate, dopo che sono scomparse tutte nel sonno profondo, svegliandosi riappaiono ripetutamente? Ciò non sarà il segnale di qualcosa di potenzialmente persistente nell’Ātman che lo condiziona a rimanifestare quelle differenziazioni? A questa obiezione Śaṃkara così risponde:
Questo non è affatto un punto debole, perché a questo proposito vi è un’evidenza [indiscutibile]: proprio come nel caso di chi è andato nel sonno profondo, nel samādhi o in qualsiasi altro stato simile dove c’è eterna assenza di distinzione, la distinzione riappare come prima non appena costui si sveglia, per la semplice ragione che la falsa conoscenza non è stata eliminata, così può anche accadere persino in questo caso. C’è la seguente śruti[14] a confermarlo: “Tutti questi esseri sono diventati uno con l’Essere puro, ma essi non sono consapevoli d’essere diventati uno con l’Essere puro. Qualunque cosa essi siano stati in precedenza, tigre, leone, lupo, cinghiale, insetto, farfalla, tafano o zanzara, essi tornano a esserlo di nuovo”.[15]Con questa argomentazione Śaṃkara risponde all’obiezione spiegando com’è che, anche dopo la totale dissoluzione del cosmo differenziato, gli esseri e le cose ricompaiano. Come egli afferma in modo inequivocabile, l’esempio macrocosmico del pralaya è esattamente paragonabile all’esperienza microcosmica dell’entrata in suṣupti, in samādhi, in coma profondo o durante una sincope.
In verità in questo Essere ci sono due stati: questo mondo e l’altro: la terza avasthā intermedia è lo stato di sonno profondo. Stando in questo stato egli contempla gli altri due stati, quello di questo mondo [della veglia] e quello dell’altro [del sogno].[16]Si pone ora il problema se vi è una fusione reale delle distinzioni durante il sonno profondo o in quegli stati inaccessibili all’aham a esso paragonabili. È sbagliato ritenere che Ātman sia realmente contaminato da differenziazioni, e che perciò si debba raggiungere quello stato di indistinzione, conosciuto come mukti o Liberazione, a seguito di un percorso di disciplina spirituale. La verità è che la nostra reale natura è sempre libera da ogni distinzione e differenza, anche quando appare da esse macchiato e contaminato, come la nostra innata ignoranza ci fa credere. Finché l’ignoranza (avidyā) non sia stata spazzata via, noi continuiamo a immaginare che le differenze si mantengano, almeno in forma potenziale, persino quando la natura ci immerge ripetutamente nella realtà indifferenziata dello stato di sonno profondo e degli altri stati analoghi prima citati. Così Śaṃkara descrive il grave errore di valutazione, tipico della gente ordinaria:
Durante il periodo di mantenimento [e sviluppo] dell’universo, a causa della falsa conoscenza, si constata che la vita empirica si sviluppa nella differenziazione, sebbene l’Ātman sia sempre privo di distinzioni; il che conferma che si tratta di una percezione illusoria simile a quella d’un sogno. Così, dal punto di vista empirico la medesima falsa conoscenza ci induce a credere che la differenziazione persista allo stato potenziale anche durante il pralaya. Ciò confuta l’obiezione che considera possibile la rinascita perfino per i liberati, perché nel loro caso la falsa conoscenza è stata distrutta del tutto dalla vera Conoscenza.[17]
Per gentile concessione del Comitato Redazionale Tridaṇḍa del sito Veda Vyāsa Maṇḍala e dell'Autore
[1] Per la medesima ragione il sogno scompare
con grande rapidità dalla mente non appena svegli. Se tra sogno e veglia ci
fosse una continuità temporale il ricordo dovrebbe rimanere vividissimo,
essendosi apparentemente prodotto solo pochi istanti prima del risveglio.
Invece scompare completamente in pochi secondi o pochi minuti. Non è, quindi,
di un “ricordo che passa” che qui si tratta, ma della coscienza del Testimone,
che rimane stabile mentre le avasthā
sono mutevoli.
[2] Tuttavia c’è da precisare che si sperimenta
questo falso “ricordo” solamente dopo essere “tornati” alla veglia, perciò esso
è il frutto di una rielaborazione che fa la mente della veglia dell’esperienza
onirica testimoniata dal Sākṣin.
Tutte queste considerazioni devono essere comprese alla luce delle esperienze
di Coscienza (Caitanya) e non come
oggetti d’indagine psicologica. L’indagine psicologica tradizionale, come
quella divinatoria o medica, pur lecite (perciò non ci riferiamo qui alla
psicoanalisi), si applicano a un livello d’indagine molto più esteriore di
quello della conoscenza dei tre stati di coscienza dell’Ātman. Ci riserviamo di sviluppare in altra sede la dottrina dei
tre stati, trayāvasthā, essendo
troppo complessa per essere sintetizzata nel corso di della presente
argomentazione vedāntica (Vedānta vicāra).
Ci si ripromette, dunque, in un prossimo futuro di dedicare un’intera
pubblicazione su questo tema.
[3] Diciamo autorevole perché la dottrina
upaniṣadica, intesa come śabda,
ovvero come “la parola”, è considerata come l’ultimo strumento più elevato di
conoscenza (antyapramāṇa), ben di più
della deduzione logica (anumāna) fin
qui da noi usata. La śruti, infatti,
è la dottrina tramandata da quei liberati (mukta) che hanno sperimentato direttamente
la Verità suprema e che l’hanno trasmessa come insegnamento orale, sotto forma
di Upaniṣad, attraverso le generazioni dei discepoli. Questa sua natura
la distingue nettamente dai testi sacri “rivelati”. A proposito di quest’ultimi
si legge in Śaṃkara: “Obiezione: Anche l’oppositore del Vedānta potrà
richiamarsi all’autorità dell’Āgama [un testo tantrico, in questo caso il Pāśupata
Tantra] che è stato rivelato da Dio onnisciente. Risposta: No,
perché in questo caso ci sarebbe il ripugnante errore della reciproca
dipendenza (anyonya āśraya doṣa),
in quanto l’autorità dell’Āgama deve appoggiarsi sull’onniscienza del Dio che
l’ha rivelato, e l’onniscienza del Dio deve appoggiarsi sull’autorità
dell’Āgama rivelato” (BSŚBh
II. 2. 38). Svāmī Satcidnāndendra
così commenta questa citazione: “È ovvio che Śaṃkara con questo si riferisce
alla Bibbia, al Corano, allo Zend Avesta e ai libri sacri delle religioni,
perché tutti affermano che la loro natura ispirata dipende dalla debole
argomentazione basata su un circolo vizioso, esattamente come accade per gli
Āgama dell’induismo” (Svāmī
Satchidānandendra Sarasvatī, Intuition of Reality, Holenarsipur,
APK, 1995, pp. 8-9). Si noti che śruti, esattamente come śrāvaṇa,
significa audizione. Audizione di che cosa? Dello śabda, cioè
dell’insegnamento orale del Vedānta.
[4] Il “qualche cosa” a cui si riferisce l’Upaniṣad corrisponde in senso inverso
all’apparente “ricordo” degli oggetti del sogno durante la veglia di cui s’è
accennato nella nota n. 2; gli oggetti del sogno appaiono, in questo caso, come
fossero costituiti dai “ricordi” che il sognatore avrebbe della veglia. Si
tratta sempre, anche in questo caso dunque, soltanto della Coscienza del
Testimone.
[5] BU
IV. 3. 9.
[6] Per meglio
comprendere le considerazioni che seguono, il lettore deve essere informato
sulla terminologia vedāntica in uso sull’argomento. Gli stati di coscienza
dell’Ātman, le avasthā, soprattutto quelle di veglia e di sogno, comprendono una
persona (puruṣa) e il mondo
corrispondente (prapāñca). La persona è il soggetto (pramātṛ-viṣayin) o conoscitore (jñātṛ), mentre il mondo è composto da un numero illimitato d’oggetti
(prameya o viṣaya) o cose conoscibili (jñeya). Lo spettatore (dṛṣṭṛ) che osserva lo spettacolo (dṛṣya) messo in scena dalla persona e
dal mondo, è l’Ātman, chiamato in
questo caso Sākṣin, Testimone
diretto. Il Testimone, comunque, ha una visione sintetica della persona, del
mondo e degli oggetti del mondo come un tutt’uno, poiché queste sono soltanto
sue differenziazioni apparenti. Al contrario, l’individuo-soggetto vede gli
oggetti del mondo in modo analitico.
[7] Per la verità le componenti individuali in
quanto tali sono prive di coscienza (acit),
esattamente come le pietre e la sabbia: “[...] Prajāpati allora pensò: “Possa io fruire degli oggetti esterni.” Quindi
effettuò delle aperture [nel corpo] attraverso
le quali fruì degli oggetti esterni per mezzo delle cinque redini. Le cinque
redini sono le facoltà di percezione; i karmendrya sono i cavalli; il corpo è
il carro, la mente l’auriga, la volontà [buddhi] la frusta; dietro Suo
impulso il corpo cominciò a muoversi come la ruota del vasaio. Così questo
corpo appare come fosse cosciente, mentre lo è soltanto chi lo muove (Maitry Upaniṣad, II.6).
[8] Ciò è possibile soltanto quando si è
“usciti” dallo stato di sogno. Infatti, finché si sta sognano, il mondo del
sogno appare illuminato da un sole, una luna, un fuoco di sogno, perché la
persona è coinvolta nell’illusorietà del sogno. Che nella svāpna avasthā non ci sia alcuna fonte luminosa appare
evidente soltanto quando se ne è fuori: allora si comprende che quella
luminosità interna era prodotta soltanto dall’autoluminoso Ātman. La logica conseguenza di questa argomentazione è che se
l’illusorietà del sogno è evidente solamente quando non si è più coinvolti
dallo sperimentare il mondo onirico, i suoi oggetti e i suoi avvenimenti, così
l’illusorietà della veglia apparirà evidente soltanto uscendo dal mondo della
veglia.
[9] BU IV.
3. 21.
[10] In realtà non
è il Testimone che “passa”, poiché la sua vera natura non è sottoposta ad
azione e cambiamento: sono i tre stati che sembrano “passare” a causa della
loro condizione saṃsārica (saṃsāṛtva).
[11] BSŚBh
II. 1. 9.
[12] Māṇḍūkya
Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā (MāUGK), I. 16.
[13] BSŚBh
II. 1. 9.
[14] Chāṅdogya
Upaniṣad (ChU), VI. 9. 2.
[15] BSŚBh
II. 1. 9
[16] BU IV.
3. 9.
[17] Ibid.
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