‘Abdul-Hâdî
- Ivan Agueli
Pagine dedicate a Mercurio, (Sahayf
ataridiyah)*
Tra le varie dottrine esoteriche, non ve
n’è, a mia conoscenza, alcuna che presenti tante analogie con quella degli
Arabo-musulmani quanto il Taoismo quale è stato esposto da Matgioi nei suoi
diversi scritti.
Ciò è tanto più sorprendente in quanto l’Islâm, non solo exoterico, ma anche esoterico, costituisce, non dico la combinazione, ma il giusto mezzo e l’equilibrio tra il Giudaismo e il Cristianesimo.
La Qabbalah può essere un’intermedia tra Talmudisti e Cristiani: non posso proprio negarlo. La Qabbalah musulmana non è affatto la stessa cosa che quella dello Sepher ha-Zohar e dello Sepher Ietsirah, nonostante i loro numerosi punti in comune. L’Islâm, ha si utilizzato nel suo simbolismo personaggi e località dei due Testamenti (anche in un senso identico), ma il suo spirito è ben diverso; esso si differenzia chiaramente dalle altre tradizioni semitiche e si avvicina molto al Taoismo, e cosi alla «Tradizione primordiale».
L’Islâm, anche solo exoterico, si è sempre rifiutato di essere una nuova religione; esso ha sempre rivendicato il titolo di Dînu-l-Fitrah, cioè la «Religione primitiva», quella dell’inizio dell’Umanità. V’è un detto assai curioso del Profeta Muhammad: «Cercate la Scienza, foss’anche in Cina». Generalmente si ritiene che la menzione della Cina non sia qui che un modo di dire per designare un paese lontanissimo e sconosciuto, intendendo con ciò che nessun sforzo dev’essere risparmiato per cercare la Scienza. Ma è possibile che il Profeta abbia voluto fare allusione al Taoismo, poiché la differenza tra l’Islâm e la tradizione cinese non è altro che quella che esiste tra la Religione universale e la Scienza sacra. Per rilevare tutti i punti in comune tra l’Islâm ed il Taoismo, sarebbe sufficiente che commentassi riga per riga, pagina per pagina, innanzitutto i libri taoisti di Matgioi e quindi la traduzione dello Yi-King di Philastre; ne varrebbe la pena, visti i risultati sorprendenti che se ne otterrebbero. Mi accontenterò, qui, di segnalare alcuni principi fondamentali, e cioè: il fatalismo, il panteismo trascendente insito in ciò che chiamiamo «l’Identità suprema», l’Uomo Universale, la cerebralità del ragionamento visuale, la tolleranza illimitata, e ciò a motivo della loro natura, non dico contraria alla religione, ma extra-religiosa. E questo discorso sull'accordo delle due dottrine sugli stessi principi potrebbe continuare indefinitamente.
Sia ben chiaro che il «fatalismo trascendente» non ha nulla a che vedere con l’attuale decadenza di gran parte degli Orientali. La causa di tale decadenza risiede unicamente nell’azione demoralizzante di governi dispotici e, talvolta, nell’eterogeneità etnica di questi popoli; l’abiezione nasce con i contatti «governativi», nelle capitali e nei grandi centri commerciali. Il fatalismo consiste nel pensare che il Cielo fa tutto, non direttamente, ma indirettamente, attraverso gli uomini e le cose. Questo fatalismo ci fa considerare la storia naturale o umana come un libro sacro, di cui noi siamo una parte più o meno importante. Un grande scrittore che si definisce cattolico, ma che i Cattolici sono inclini a non ritener tale M. Leon Bloy, ha ben formulato il nostro fatalismo con una frase lapidaria: «Tutto quel che succede è mirabile». È questo nostro fatalismo che ci fa attribuire un carattere monumentale ai fatti più diversi. In tutta Europa, ho solo trovato alcuni rari Parigini, per lo più scettici «boulevardiers», che abbiano potuto comprendere che cosa sia la rassegnazione alla volontà del Cielo o il fatalismo trascendente[1].
Ciò è tanto più sorprendente in quanto l’Islâm, non solo exoterico, ma anche esoterico, costituisce, non dico la combinazione, ma il giusto mezzo e l’equilibrio tra il Giudaismo e il Cristianesimo.
La Qabbalah può essere un’intermedia tra Talmudisti e Cristiani: non posso proprio negarlo. La Qabbalah musulmana non è affatto la stessa cosa che quella dello Sepher ha-Zohar e dello Sepher Ietsirah, nonostante i loro numerosi punti in comune. L’Islâm, ha si utilizzato nel suo simbolismo personaggi e località dei due Testamenti (anche in un senso identico), ma il suo spirito è ben diverso; esso si differenzia chiaramente dalle altre tradizioni semitiche e si avvicina molto al Taoismo, e cosi alla «Tradizione primordiale».
L’Islâm, anche solo exoterico, si è sempre rifiutato di essere una nuova religione; esso ha sempre rivendicato il titolo di Dînu-l-Fitrah, cioè la «Religione primitiva», quella dell’inizio dell’Umanità. V’è un detto assai curioso del Profeta Muhammad: «Cercate la Scienza, foss’anche in Cina». Generalmente si ritiene che la menzione della Cina non sia qui che un modo di dire per designare un paese lontanissimo e sconosciuto, intendendo con ciò che nessun sforzo dev’essere risparmiato per cercare la Scienza. Ma è possibile che il Profeta abbia voluto fare allusione al Taoismo, poiché la differenza tra l’Islâm e la tradizione cinese non è altro che quella che esiste tra la Religione universale e la Scienza sacra. Per rilevare tutti i punti in comune tra l’Islâm ed il Taoismo, sarebbe sufficiente che commentassi riga per riga, pagina per pagina, innanzitutto i libri taoisti di Matgioi e quindi la traduzione dello Yi-King di Philastre; ne varrebbe la pena, visti i risultati sorprendenti che se ne otterrebbero. Mi accontenterò, qui, di segnalare alcuni principi fondamentali, e cioè: il fatalismo, il panteismo trascendente insito in ciò che chiamiamo «l’Identità suprema», l’Uomo Universale, la cerebralità del ragionamento visuale, la tolleranza illimitata, e ciò a motivo della loro natura, non dico contraria alla religione, ma extra-religiosa. E questo discorso sull'accordo delle due dottrine sugli stessi principi potrebbe continuare indefinitamente.
Sia ben chiaro che il «fatalismo trascendente» non ha nulla a che vedere con l’attuale decadenza di gran parte degli Orientali. La causa di tale decadenza risiede unicamente nell’azione demoralizzante di governi dispotici e, talvolta, nell’eterogeneità etnica di questi popoli; l’abiezione nasce con i contatti «governativi», nelle capitali e nei grandi centri commerciali. Il fatalismo consiste nel pensare che il Cielo fa tutto, non direttamente, ma indirettamente, attraverso gli uomini e le cose. Questo fatalismo ci fa considerare la storia naturale o umana come un libro sacro, di cui noi siamo una parte più o meno importante. Un grande scrittore che si definisce cattolico, ma che i Cattolici sono inclini a non ritener tale M. Leon Bloy, ha ben formulato il nostro fatalismo con una frase lapidaria: «Tutto quel che succede è mirabile». È questo nostro fatalismo che ci fa attribuire un carattere monumentale ai fatti più diversi. In tutta Europa, ho solo trovato alcuni rari Parigini, per lo più scettici «boulevardiers», che abbiano potuto comprendere che cosa sia la rassegnazione alla volontà del Cielo o il fatalismo trascendente[1].
Anche noi pensiamo, come Matgioi, che la
«sentimentalità» non conti per nulla nell’evoluzione esoterica della personalità,
poiché essa è necessariamente di natura egoistica; essa è soprattutto una forma
di cecità e comporta una pericolosa confusione di piani. In effetti, è
difficile distinguere ciò che è universale da ciò che è interesse. Orbene, la
condizione indispensabile perché i verifichino i primi bagliori
dell’«Illuminazione esoterica» (El-Ishrâq)
è che nel proprio foro interiore si faccia un posto esclusivamente riservato a
Dio. È indifferente che questo posto sia grande o piccolo, ricco o povero:
l’importante è che sia assolutamente puro. È molto difficile, vivendo
nell’attuale disordine, realizzare la sincerità e la Solitudine divina
assoluta, anche solo per la durata di un minuto.
Se ci si obietta che il perfezionamento
spirituale dell'esoterista musulmano consiste nella progressiva trasmutazione
della «Passione» (Shawq) in «Amore» (Ishq), risponderò che l’uomo sentimentale
non è affatto quel che i Sufi chiamano un «appassionato» o un «seguace
dell’Amore», e che la «sentimentalità» può esser utile tutt’al più per il bene
delle collettività, poiché, ben diretta, può trasformarsi in pudore, in
«solidarietà delle specie» (Matgioi). o in altre forme di egoismo ben compreso;
aggiungerò che essa, connessa com’è all’egoismo e all’incoscienza, contiene
appunto i due più grandi ostacoli all’evoluzione della personalità; dirò pure
che il termine alwijdân si deve
tradurre con «emotività», che il termine ad-dhawq
(il gusto) è da tradursi con il «gusto intuitivo», e che la parola europea
«sentimentalità», presa nel suo senso ordinario, non possiede un corrispondente
nel linguaggio dei Sufi, il termine che più le si avvicina essendo al-tawaggiud, cioè «simulazione
dell’emotività pura»[2].
«L’Identità suprema» (Wahadatu-l-wugiûd = l’Identità
dell’Esistenza) si fonda sull’accordo perfetto tra l’esteriore e l’interiore.
Dio è l’Esistenza, e l’Esistenza è sempre unica e assoluta, in quanto Egli è
superlativo.
Fintantoché l’uomo potrà concepire la
singolarità del superlativo logico, il monoteismo sarà la religione naturale e
primitiva (Dînu-l-Fitrah) e si
accorderà perfettamente con la «Tradizione primordiale» (Matgioi). Ho evitato
di impiegare le parole panteismo e misticismo, poiché non sono che delle fruste
convenzioni e danno luogo a spiacevoli equivoci. «L’Identità suprema» è una
specie di materialismo trascendente e sintetico. I liberi pensatori avrebbero
dovuto essere nostri fratelli; sennonché, difettando di apertura mentale, si
sono arrestati a metà cammino e, obbedendo all’oscuro istinto dell’«animale
religioso», si sono messi a pontificare come gli altri, ma con l’arte antica in
meno. La concezione dell’«Uomo Universale» (Al-Insânu-l-Kâmil),
nell’esoterismo islamico, è più vicina a quella del Taoismo che a quella dei
sogni kiliasti del «Messianesimo» e del «Regno di Dio», e ciò a motivo della
sua modestia sociale, del suo fatalismo e della sua intimità. La concezione di
Muhyiddîn Ibn Arabi sul Califfato universale e sul Mahdismo non ha nulla in
comune con quella della plebaglia di Alessandria d’Egitto o di altri
antropofaghi, siano essi bianchi o neri.
L’elevata cerebralità del ragionamento
visuale fa si che, nonostante l’identità della tradizione, l’esoterismo e l’exoterismo
vivano su piani completamente differenti. Non avendo dei punti in contatto,
ogni conflitto è impossibile, eccetto il caso della profanazione dei misteri, e
in tal caso sono sempre i dottori della legge ad aver ragione. Martiri non sono
gli esoteristi che si sono sfracellati al suolo lasciandosi precipitare
dall’alto delle loro torri d’avorio. Ma non dobbiamo giudicarli né in bene né
in male. Solo Allâh conosce le cose dell’altro mondo e ciò che si cela nelle
profondità dell’anima umana. Mi riferisco al ben noto martirio di Ibn Hallâg,
il quale fu condannato a morte come eretico a Baghdad[3] Il suo
supplizio è ritenuto giusto o ingiusto secondo le diverse opinioni teologiche.
La verità è che egli fu condannato giustamente, non come eretico, ma come profanatore
e fomentatore di disordini. Tra i suoi giudici vi erano degli iniziati, e le
stesse persone che trovano giusta la sua condanna ne venerano la memoria. Egli
parlava un linguaggio estraneo agli exoteristi, che ne furono turbati e lo
fecero suppliziare. Ma le disavventure sociali non provano nulla, fossero anche
tragiche.
L’imposta tradizionale più pesante nell’Islâm
non è la decima, bensì la democrazia e il rispetto di certi diritti dell’ignoranza.
Non so se nello stile di Muyiddîn sia più da ammirare l’audacia o il tatto.
Illuminato sin dalla sua giovinezza, il grande Maestro ebbe il presentimento
della delicatezza della sua missione ed accettò incarichi di segretario presso
i principi dell’Islâm occidentale solo per riguardo di certe suscettibilità.
Cionondimeno, egli è il più musulmano di
tutti i Musulmani, ed è senza dubbio la meditazione dello spirito maomettano e
del Corano che risvegliò in lui la mentalità esoterica dalla quale scaturirono
tutte le scienze sacre. È tuttavia falso dire che egli è ortodosso in quanto
Maestro esoterico. È in quanto dottore della legge che egli era ortodosso. Ed è
anche falso dire che la perfezione exoterica conduce fatalmente
all’illuminazione.
Si può praticare la religione per tutta
una lunga vita senza nulla intravedere dell’esoterismo, mentre Umar Ibn Fârid
si elevò sulla più alta vetta della spiritualità in conseguenza di un amore
violento. Detto ciò, bisogna concludere che i rapporti tra la Via esteriore e
la Via interiore sono piuttosto minimi[4].
Insisto sul fatto che non si possono
paragonare. I più perfetti di tutti gli esoteristi, i Malamatiyah, considerano preoccupazioni
vane le discussioni dogmatiche, ritenendole degne dei semplici quietisti, e
cercano l’illuminazione nel pragmatismo. È d’altronde regola quasi generale
che, quando si sia varcata la soglia del Santuario, non si pensi più con le
parole o i modi del linguaggio corrente. Le intelligenze solo auditive imparare
a ragionare servendosi di figure geometriche o punti luminosi. È dunque assurdo
parlare dell’ortodossia o dell’eterodossia dei grandi Maestri della metafisica
arabo-islâmica, perché qualsiasi confronto tra le loro opinioni e quelle dei
dottori della Via esteriore è del tutto impossibile[5].
Ma donde vengono le rassomiglianze che
abbiamo sin qui costatato tra l’Islâm esoterico e il Taoismo? Escludo a priori
una filiazione storica, poiché nessun serio documento potrebbe provarla. Penso
piuttosto che le due scuole si rassomiglino perché esse sono pervenute alle
stesse profondità della coscienza umana. Esse hanno visto la stessa cosa ed è
necessario disporre di facoltà analoghe per avere la stessa visione. Non nego l’unità
della «Tradizione primordiale», né la genealogia spirituale degli iniziati,
voglio solo dire che certi anelli della catena possono trovarsi in un piano
extra-temporale, e, di conseguenza, sfuggire all’investigazione degli storici.
Noi
e l’epoca - Abul-Hassan
Es-Shâdhili ci mette in guardia contro coloro che ci vogliono invitare al disordine,
poiché si segue la «Via interiore» per realizzare la pace e non l’agitazione.
Muhyiddîn Ibn Arabi considera fanatici e fuorviati coloro che vi esortano ad
essere come loro, a fare come loro in tutto e che non rispettano la legittima
libertà della persona. Tutto viene da Dio, la miscredenza dell’infedele, cosi
come la fede del credente. Lo zelo, fatta eccezione quello avente per scopo il
bene pubblico, non è che un gesto sconsiderato commesso da persone che hanno
una concezione piuttosto grossolana della potenza di Dio. Vi è dell’empietà nell’intervenire,
senza un motivo legittimo - di preferenza esteriore - nell’evoluzione
spirituale degli uomini[6].
Il delirio del pontificato è uno di quei
mostruosi peccati antidiluviani che fanno considerare le miserie conseguenti
alla caduta adamica come un beneficio, perché è grazie a loro che i peccati
cosmicamente mortali possono provocare conseguenze in un certo modo limitate.
Al posto dei cataclismi, abbiamo lo squallore della borghesia. Non ignoro
dunque che invitare i meditativi a guardare in faccia il mondo implica una
certa responsabilità. E pur non essendo mia intenzione imporre a qualcuno le
mie idee personali, devo ben dire che considero il mondo un libro di Dio come
un altro. I Suoi libri sono reciprocamente collegati e si spiegano l’uno con
l’altro; ciò che vi è d’oscuro in un brano può trovare la sua spiegazione in un
altro.
In verità, la differenza tra il mondo
esteriore e il mondo interiore è illusoria. Quel che chiamiamo «la materia» è
opaca solo nei «gradi» inferiori dell’Esistenza. Più si avanza nella Via, più
essa diventa diafana. Inoltre, pur se opaca, è sempre significativa. Cosa
sarebbe un libro senza la carta e i caratteri? Del resto, in quasi tutte le
lingue vi sono parole d'origine nobilissima per indicare il mondo e la materia.
Niente, infatti, riflette meglio la «Tradizione primordiale» che l’etimologia.
D’altronde, i nove decimi dei quietisti
sono semplicemente dei vili. Essendo il mondo più grande della loro anima,
cercano di minimizzarlo allo scopo di apparire loro i più grandi. Muhyiddîn è
con loro mollo severo e marchia a fuoco quelli che non cercano che il bello in
un piccolo mondo artificiale.
* Articolo apparso nel numero di gennaio-febbraio 1911 di La Gnose. Versione italiana in Rivista di Studi Tradizionali n° 34, traduzione di Ugo Zalino
* Articolo apparso nel numero di gennaio-febbraio 1911 di La Gnose. Versione italiana in Rivista di Studi Tradizionali n° 34, traduzione di Ugo Zalino
[1] La prova coranica più evidente al riguardo della fatalità è l’ordine che Allâh dà alla creazione d’esser tale di buona o cattiva voglia, al quale essa risponde: «Noi obbedienti veniamo». Poiché tutto obbedisce ad Allâh in un modo o nell’altro, si può dire che tutto è «Muslim», cioè abbandonato alla Sua volontà. Il Taoismo chiama questo fenomeno «l’Attività del Cielo».
[2] II termine «sentimentalità» ha vari significati, di cui ne citiamo solo tre: il parigino, il francese e l’occidentale. Quello parigino indica una specie di convenzione morale, e il suo impiego non è affatto elogiativo. Per gli altri significati, consultate il dizionario. Talvolta si confonde il sentimento con la sensibilità, la quale non è affatto la stessa cosa. La sensibilità è la base stessa della mentalità esoterica, poiché costituisce il primo passo nello sviluppo del sesto senso, per mezzo del quale si identificano l’io e il non-io. Il cammino iniziatico dipende direttamente da questa identificazione. L’aumento e l’affinamento della sensibilità è uno dei «misteri domenicali». È dalla confusione delle parole che nascono gran parte delle eresie. Questa confusione tra sentimentalità e sensibilità fa si che qualche imbroglione riesca a far deviare ogni impulso generoso dell’anima.
[3] Nell’anno 309 dell’Egira (921 dell’era cristiana), un martedì mattina del mese di Dhul-qadah, presso la porta Et-Thâk.
[4] Ho tradotto Sciâriyah con Via esteriore, Tarîqah con Via interiore, e Haqîqah con Via superiore. Quest’ultima è piuttosto lo scopo della Via che un modo di progresso spirituale.
[5] L’Esoterismo si vede o non si vede. Quando non lo si vede, i più bei discorsi e la più sottile dialettica sono incapaci di mostrarlo. Quando lo si vede le parole sono superflue. In entrambi i casi la discussione è inutile.
[6] In un’altra parte dell’articolo, Abdul Hâdi aggiunge: «Presso gli Arabi il Guru viene chiamato Murabbu-l-Murîdîn, cioè “Educatore degli aspiranti ”, o più generalmente Sheykh (Anziano). Vero Sheykh non è colui che forma l’aspirante sul modello della sua immagine personale, ma è invece colui che sviluppa il murîd (l’aspirante) secondo la volontà di Dio, egli è colui che vi restituisce a voi stessi e arricchisce il vostro proprio essere. Voi credete di camminare sulle tracce dello Sheykh, mentre in realtà seguite il vostro proprio cammino, cioè la via che vi è personale secondo la fatalità divina».