La crisi del mondo moderno
Cap. 7 - Una civiltà
materiale
Da tutto ciò che precede, ci sembra risulti già chiaramente che gli Orientali hanno pienamente ragione allorché rimproverano alla civiltà occidentale moderna di essere solo una civiltà materiale: è proprio in questo senso che essa si è esclusivamente sviluppata e, da qualunque punto di vista la si consideri, ci si trova sempre in presenza di conseguenze più o meno dirette di tale materializzazione.
Tuttavia, è necessario completare quanto abbiamo detto in proposito, e spiegare innanzi tutto i diversi significati con cui può essere assunto un termine come quello di «materialismo», poiché, anche se noi lo impieghiamo per caratterizzare il mondo contemporaneo, vi saranno di quelli che, non credendosi affatto dei «materialisti» pur pretendendo di essere molto «moderni», non mancheranno di protestare e di convincersi che si tratta di una vera calunnia; una messa a punto, dunque, si impone, al fine di dissipare a priori tutti gli equivoci che potrebbero sorgere in proposito.
È assai
significativo che il termine stesso di «materialismo» dati solo dal XVIII
secolo; esso venne inventato dal filosofo Berkeley, che se ne servi per
designare le teorie che ammettono l’esistenza reale della materia; è appena il
caso di dire che non si tratta certo di questo, dato che tale esistenza non è
minimamente in causa. Un po’ più tardi, lo stesso termine assunse un
significato più ristretto, quello che da allora ha conservato: esso indica una
concezione in base alla quale non esiste nient’altro che la materia e ciò che
da essa deriva; ed è il caso di notare la novità di una tale concezione, cioè
il fatto che essa è essenzialmente un prodotto dello spirito moderno e che
corrisponde, dunque, ad almeno una parte delle tendenze proprie di esso[1].
Ma è soprattutto in un’altra accezione, molto più ampia e tuttavia molto
chiara, che noi intendiamo parlare di «materialismo»: tale termine infatti
rappresenta tutta una condizione di spirito che, di per sé, è indipendente da
ogni teoria filosofica, mentre la concezione prima esposta non rappresenta che
una sola delle sue tante manifestazioni. Questa condizione di spirito è quella
che consiste nel dare, più o meno coscientemente, la preponderanza alle cose di
ordine materiale ed alle preoccupazioni ad esse connesse, sia che queste ultime
conservino ancora una certa apparenza speculativa oppure che siano puramente
pratiche; e non si può contestare seriamente che in realtà è proprio questa la
mentalità dell’immensa maggioranza dei nostri contemporanei.
Tutta le scienza
profana che si è sviluppata nel corso degli ultimi secoli non è altro che lo
studio del mondo sensibile, in cui essa è esclusivamente rinchiusa ed i cui
metodi non sono applicabili che a questo solo dominio; ora, questi metodi sono
proclamati «scientifici» ad esclusione di tutti gli altri, il che equivale col
negare ogni scienza che non si riferisca alle cose materiali. Tuttavia, fra
coloro che la pensano così, e perfino fra coloro che si sono dedicati in modo
particolare alle scienze in questione, ve ne sono molti che rifiuterebbero di
dichiararsi «materialisti» e di aderire alla teoria filosofica che porta questo
nome; ve ne sono perfino di quelli che fanno volentieri professione di fede
religiosa e la cui sincerità non può essere messa in dubbio; ma la loro
attitudine «scientifica» non differisce sensibilmente da quella dei
materialisti dichiarati. Si è spesso discusso, dal punto di vista religioso, se
la scienza moderna dovesse essere denunciata come atea o come materialista, e
in genere la questione è stata posta malamente; è certo che questa scienza non
fa espressamente professione di ateismo o di materialismo e che si limita ad
ignorare certe cose per partito preso, senza pronunciarsi nei loro confronti
con una negazione formale, come fanno questi o quei filosofi; ne consegue che,
per quanto la riguarda, si può solo parlare di un materialismo di fatto, di ciò
che noi chiamiamo volentieri materialismo pratico; ma in tal modo il male è
forse ancora più grave, poiché è più profondo e più esteso. Un’attitudine
filosofica può essere qualcosa di molto superficiale, perfino tra i filosofi
«di professione»; per di più, vi sarebbero di quelli che indietreggerebbero di
fronte alla negazione, ma che invece si adattano di fronte alla completa
indifferenza; ed è questa la cosa più temibile, poiché, per negare un qualcosa
occorre sempre pensarci, per poco che sia, mentre invece in questo caso si
finisce col non pensare più in alcuna maniera. Quando si vede una scienza
esclusivamente materiale che si presenta come la sola scienza possibile, quando
gli uomini sono abituati ad ammettere come fosse una verità indiscutibile che
non può esserci della conoscenza valida al di fuori di quest’ultima, quando
tutta l’educazione data a questi uomini tende ad inculcare loro la
superstizione di questa scienza, cosa questa che costituisce propriamente lo
«scientismo»: com’è possibile che tali uomini non siano praticamente dei
materialisti, e cioè che tutte le loro preoccupazioni non siano volte verso la
materia?
Per i moderni,
niente sembra esistere al di fuori di ciò che si vede e si tocca, o quanto
meno, anche se essi ammettono teoricamente che possa esistere qualcos’altro, si
affrettano poi a dichiararlo, non solo sconosciuto, ma «inconoscibile», il che
li dispensa dall’occuparsene. Tuttavia, vi sono anche di quelli che cercano di
farsi un’idea di un «altro mondo», ma dal momento che per far questo ricorrono
all’immaginazione, essi se lo configurano sul modello del mondo terrestre e vi
trasferiscono tutte le condizioni d’esistenza proprie di quest’ultimo, ivi
compresi lo spazio ed il tempo e perfino una sorta di «corporeità»; noi abbiamo
presentato altrove degli esempi particolarmente sorprendenti di questo genere
di rappresentazioni grossolanamente materializzate, quando abbiamo parlato
delle concezioni degli spiritisti; ma, se questi erano dei casi estremi, in cui
un tale carattere è esagerato fino alla caricatura, sarebbe un errore credere
che lo spiritismo e le sette con esso più o meno apparentate abbiano il
monopolio di questo genere di cose. Del resto, in maniera più generale,
l’intervento dell’immaginazione nei domini in cui essa non può apportare
alcunché, e che dovrebbero esserle interdetti, è un fatto che dimostra molto
chiaramente l’incapacità degli Occidentali moderni ad elevarsi al di sopra del
sensibile; molti non riescono ad operare alcuna differenza fra «concepire» ed
«immaginare», ed alcuni filosofi, come Kant, arrivano perfino a dichiarare
«inconcepibile» o «impensabile» tutto ciò che non è suscettibile di
rappresentazione. Di modo che, tutto ciò che si chiama «spiritualismo» o
«idealismo» è, molto spesso, nient’altro che una sorta di materialismo
trasposto; e ciò è vero non solo per quello che noi abbiamo chiamato
«neo-spiritualismo», ma anche per lo stesso spiritualismo filosofico,
nonostante esso si consideri come l’opposto del materialismo. A dire il vero,
spiritualismo e materialismo, intesi nel senso filosofico, non possono
comprendersi l’uno senza l’altro: essi sono semplicemente le due metà del
dualismo cartesiano, la cui separazione radicale è stata trasformata in
antagonismo; e da allora, tutta la filosofia oscilla fra questi due termini
senza essere in grado di superarli. Lo spiritualismo, a dispetto del suo nome,
non ha niente in comune con la spiritualità; la sua disputa con il materialismo
non può che lasciare perfettamente indifferenti coloro che si pongono da un
punto di vista superiore e che si accorgono che questi contrari sono, in fondo,
prossimi ad essere dei semplici equivalenti, e la cui pretesa opposizione, su
molti punti, si riduce ad essere una volgare disputa sulle parole.
I moderni, in
generale, non concepiscono altra scienza che quella delle cose che si misurano,
si contano e si pesano, e cioè insomma delle cose materiali, poiché sono le
sole a cui si possa applicare il punto di vista quantitativo; mentre la pretesa
di ridurre la qualità alla quantità è del tutto caratteristica della scienza
moderna. In questa ottica, si è giunti a credere che non vi possono essere
delle scienze propriamente dette laddove non è possibile introdurre la misura,
e che le leggi scientifiche sono solo quelle che esprimono delle relazioni
quantitative; il «meccanicismo» di Cartesio ha segnato l’inizio di questa
tendenza, che si è poi accentuata nonostante lo scacco della fisica cartesiana,
ed infatti tale tendenza non è legata ad una determinata teoria, bensì ad una
concezione generale della conoscenza scientifica. Ed oggi si vede applicata la
misura fin nel dominio psicologico, che tuttavia le sfugge per la sua stessa
natura, finendo col non comprendere più che la possibilità della misura si
fonda solo su una proprietà inerente alla materia, proprietà che è quella della
sua divisibilità indefinita, a meno che non si pensi che essa si estenda a
tutto ciò che esiste, giungendo così a materializzare ogni cosa. È la materia,
lo abbiamo già detto, il principio di divisione e della pura molteplicità; ed
allora, la predominanza attribuita al punto di vista della quantità, che come
abbiamo già visto si ritrova fin nel dominio sociale, è esattamente del
materialismo inteso nel senso da noi prima indicato, quantunque essa non sia
necessariamente legata al materialismo filosofico, che ha peraltro preceduto
nello sviluppo delle tendenze dello spirito moderno.
Non insisteremo
ulteriormente su ciò che vi è di illegittimo nel voler ridurre la qualità alla
quantità, né su quanto vi è di insufficiente in tutti i tentativi di
spiegazione che più o meno si riallacciano alla tipologia «meccanicista»; non è
questo che ci proponiamo, e noteremo semplicemente che, nello stesso ordine
sensibile, una scienza di questo genere ha pochissimi rapporti con la realtà,
la cui parte più considerevole ad essa sfugge necessariamente.
A proposito di
«realtà» siamo indotti a menzionare un altro fatto, che rischia di passare
inosservato agli occhi di molti, ma che è assai degno di nota come segno della
condizione di spirito di cui parliamo: ed è che questo termine, nell’uso
corrente, è esclusivamente riservato alla sola realtà sensibile. Ora, dal
momento che il linguaggio è l’espressione della mentalità di un popolo e di
un’epoca, se ne deve concludere che, per coloro che si esprimono così, tutto
ciò che non cade sotto i propri sensi è «irreale», vale a dire illusorio o
perfino del tutto inesistente; è possibile che essi non ne siano chiaramente
coscienti, ma ciò non toglie che questa convinzione negativa è pur sempre la
loro, ed anche quando affermassero il contrario si può star certi, benché essi
stessi non se ne rendano conto, che una tale affermazione corrisponderebbe per
loro solo a qualcosa di molto più esteriore, se non addirittura ad una pura
espressione verbale. Se si fosse tentati di credere che noi esageriamo, si
dovrebbe solo cercare di vedere, per esempio, a cosa si riducono le pretese
convinzioni religiose di molta gente: alcune nozioni apprese a memoria, in
maniera tutta scolastica e meccanica, che non hanno per niente assimilato,
sulle quali non hanno neanche riflettuto un po’, ma che conservano nella loro
memoria e che ripetono per l’occasione in quanto facenti parte di un certo
formalismo, di un’attitudine convenzionale che è tutto quello che essi possono
comprendere col nome di religione. Abbiamo già parlato di questa «minimizzazione»
della religione, di cui il «verbalismo» in questione rappresenta uno degli
ultimi gradi; e questo spiega il fatto che dei sedicenti «credenti», in quanto
a materialismo pratico, non sono secondi in niente ai «non credenti»; e
ritorneremo ancora su questo punto; ma per adesso dobbiamo completare le
considerazioni relative al carattere materialista della scienza moderna, poiché
si tratta di una questione che necessita di essere considerata sotto diversi
aspetti.
Ci serve ricordare
ancora, quantunque lo avessimo già indicato, che le scienze moderne non hanno
il carattere di una conoscenza disinteressata, e perfino in coloro stessi che
credono al loro valore speculativo, quest’ultimo è solo una maschera sotto cui
si nascondono delle preoccupazioni del tutto pratiche, ma che consente di
conservare l’illusione di una falsa intellettualità. Lo stesso Cartesio, nel
costituire la sua fisica, pensava soprattutto a farne un meccanismo, una
medicina ed una morale; e con la diffusione dell’empirismo anglosassone si
giunse a ben altro ancora; del resto, agli occhi del grande pubblico, ciò che
costituisce il prestigio della scienza è dato quasi unicamente dai risultati
pratici che essa permette di realizzare, poiché anche qui si tratta di cose che
si possono vedere e toccare. Dicevamo che il «pragmatismo» rappresenta lo
sbocco di tutta la filosofia moderna ed il suo ultimo grado di abbassamento; ma
vi è anche, e da molto più tempo, al di fuori della filosofia, un «pragmatismo»
diffuso e non sistematico che sta al primo come il materialismo pratico sta al
materialismo teorico, e che si confonde con ciò che il volgo chiama il «buon
senso». Questo utilitarismo quasi istintivo è, peraltro, inseparabile dalla
tendenza materialista: il «buon senso» consiste nel non oltrepassare
l’orizzonte terreno, al pari del non occuparsi di tutto ciò che non ha un
interesse pratico immediato; è soprattutto per tale «buon senso» che il mondo
sensibile è il solo mondo «reale» e che non vi è conoscenza che non venga dai
sensi; ed è anche per esso che questa stessa conoscenza ristretta non vale che
nella misura in cui permette di soddisfare dei bisogni materiali, e talvolta
anche un certo sentimentalismo; poiché il sentimento è in realtà del tutto
prossimo alla materia, e questo va detto chiaramente anche a costo di scioccare
il «moralismo» contemporaneo. In tutto ciò, non resta alcun posto per
l’intelligenza, se non in quanto essa acconsenta a servire per la realizzazione
dei fini pratici, a non essere più che un semplice strumento sottomesso alle
esigenze della parte inferiore e corporea dell’individuo umano, o, secondo una
singolare espressione di Bergson, «un utensile per fare degli utensili». Ciò
che costituisce il «pragmatismo» in tutte le sue forme è la totale indifferenza
nei confronti della verità.
In queste
condizioni, l’industria non è più solamente un’applicazione della scienza,
applicazione da cui dovrebbe essere, di per sé, totalmente indipendente, ma è
divenuta come la sua ragion d’essere e la sua giustificazione; di modo che,
anche qui, i rapporti normali si trovano invertiti. Ciò a cui il mondo moderno
ha dedicato tutte le sue forze, persino quando ha preteso di fare della scienza
alla sua maniera, è in realtà nient’altro che lo sviluppo dell’industria e del
«macchinismo»; e nel voler dominare la materia in tal modo e nel volerla
piegare a proprio uso, gli uomini sono solo riusciti a diventarne gli schiavi,
come dicevamo all’inizio: non solo hanno limitato le loro ambizioni
intellettuali, se è ancora permesso servirsi di questa parola in un caso del
genere, coll’inventare e col costruire delle macchine, ma sono giunti fino a
diventare veramente essi stessi delle macchine. In effetti, la
«specializzazione», così osannata da certi sociologi col nome di «divisione del
lavoro», non si è imposta solo agli scienziati, ma anche ai tecnici e perfino
agli operai, e per questi ultimi ogni lavoro intelligente è divenuto
impossibile; ben diversamente dagli artigiani d’un tempo, essi non sono più che
i servitori delle macchine, fanno, per così dire, un corpo solo con esse;
devono ripetere incessantemente, in maniera del tutto meccanica, certi precisi
movimenti, sempre gli stessi e sempre effettuati allo stesso modo, al fine di
evitare la minima perdita di tempo; così almeno pretendono i metodi americani,
che sono considerati come il grado più alto del «progresso». In effetti, si
tratta unicamente di produrre il più possibile; ci si cura poco della qualità
ed è solo la quantità che importa; ed eccoci ancora una volta di fronte alla
constatazione che abbiamo già fatto in relazione ad altri ambiti: la civiltà
moderna è veramente ciò che si può chiamare una civiltà quantitativa, e questo
è un altro modo per dire che è una civiltà materiale.
Se ci si vuole
convincere ancora meglio di questa verità, basta solo guardare al ruolo immenso
che svolgono oggigiorno, nell’esistenza dei popoli ed in quella degli
individui, gli elementi di ordine economico: industria, commercio, finanze;
sembra che non vi sia altro che conti; il che si accorda con il fatto già
segnalato che la sola distinzione sociale rimasta è quella fondata sulla
ricchezza materiale. Sembra che il potere finanziario domini tutta la politica
e che la concorrenza commerciale eserciti un’influenza preponderante sulle
relazioni fra i popoli; forse si tratta solo di un’apparenza e queste cose non
sono tanto delle vere cause quanto dei semplici mezzi d’azione; ma la scelta di
tali mezzi indica bene il carattere dell’epoca alla quale essi si addicono.
D’altronde, i nostri contemporanei sono persuasi che le circostanze economiche
sono quasi gli unici fattori degli avvenimenti storici, ed immaginano perfino
che è sempre stato così; ed in questa convinzione ci si è spinti fino ad
inventare una teoria che pretende di spiegare tutto esclusivamente con
l’economia, teoria che ha ricevuto il significativo appellativo di
«materialismo storico». Anche qui è possibile notare l’effetto di una di quelle
suggestioni di cui abbiamo parlato prima, suggestioni che agiscono tanto meglio
per quanto più corrispondono alle tendenze della mentalità generale; e
l’effetto di questa suggestione è che i mezzi economici finiscono per
determinare realmente quasi tutto ciò che si produce nel dominio sociale. Senza
dubbio, la massa è sempre stata guidata, in una maniera o in un’altra, e si
potrebbe dire che il suo ruolo storico consiste soprattutto nel lasciarsi
guidare, poiché essa non rappresenta che un elemento passivo, una «materia» in
senso aristotelico; ma oggigiorno, per guidarla, basta disporre di mezzi
puramente materiali, questa volta nel senso ordinario del termine; il che
dimostra bene il grado di abbassamento della nostra epoca; e, al tempo stesso,
si fa credere a questa stessa massa che non è guidata, che essa agisce
spontaneamente e si governa da sé, ed il fatto che essa lo creda permette di
comprendere fino a che punto possa arrivare la sua intelligenza.
Visto che stiamo
parlando di fattori economici, ne approfittiamo per segnalare una illusione
molto diffusa in proposito, che consiste nell’immaginare che le relazioni
stabilite sul piano degli scambi commerciali, possano servire per un
avvicinamento ed un’intesa fra i popoli, mentre invece esse sortiscono
realmente l’effetto contrario. La materia, lo abbiamo già detto più volte, è
essenzialmente molteplicità e divisione, dunque fonte di lotte e di conflitti;
di modo che, si tratti di popoli o di individui, il dominio economico non è, e
non può essere, che quello delle rivalità d’interessi. In particolare,
l’Occidente non può contare sull’industria né sulla scienza moderna, da cui la
prima è inseparabile, per trovare un terreno d’intesa con l’Oriente; se gli
Orientali finiscono con l’accettare questa industria come una necessità
fastidiosa e peraltro transitoria, poiché per essi questa non potrebbe essere
niente di più, ciò è da loro considerato come un’arma che permette di resistere
all’invasione occidentale e di salvaguardare la propria esistenza; è importante
che si sappia con esattezza che non può essere diversamente da così: gli
Orientali che si rassegnano a prendere in considerazione una concorrenza
economica con l’Occidente, malgrado la ripugnanza che provano per questo genere
di attività, possono farlo con una sola intenzione, quella di sbarazzarsi di
una dominazione straniera che si basa solo sulla forza bruta, sulla potenza
materiale che proprio l’industria mette a sua disposizione; la violenza chiama
la violenza, ma si dovrà riconoscere che non sono stati certo gli Orientali che
hanno cercato la lotta su questo terreno.
Del resto, al di
fuori della questione dei rapporti fra Oriente ed Occidente, è facile
constatare che una delle conseguenze più notevoli dello sviluppo industriale è
il perfezionamento incessante dei congegni di guerra e l’aumento del loro
potere distruttivo in proporzioni formidabili. Dovrebbe bastare solo questo per
ridurre a niente le fantasticherie «pacifiste» di certi ammiratori del
«progresso» moderno; ma i sognatori e gli «idealisti» sono incorreggibili e la
loro ingenuità sembra non conoscere limiti. L’«umanitarismo» che va tanto di
moda non merita sicuramente di essere preso sul serio; ma è strano che si parli
tanto della fine delle guerre in un’epoca in cui esse hanno arrecato
devastazioni senza precedenti, non solo a causa della moltiplicazione dei mezzi
di distruzione, ma anche perché, invece di svolgersi fra eserciti poco numerosi
e composti unicamente da soldati di mestiere, mettono tutti gli individui
indistintamente gli uni contro gli altri, ivi compresi i meno qualificati per
assolvere ad una simile funzione. Ed ancora si tratta di un esempio lampante
della confusione moderna, mentre è veramente prodigioso, per chi voglia
rifletterci su, che si sia giunti a considerare come del tutto naturale una
«leva di massa» o una «mobilitazione generale», e che abbia potuto imporsi su tutti,
salvo poche eccezioni, l’idea di una «nazione in armi». Anche qui è possibile
vedere un effetto della credenza nella sola forza del numero: è conforme al
carattere quantitativo della civiltà moderna mettere in movimento delle masse
enormi di combattenti; al tempo stesso, anche l’«egualitarismo» vi trova il suo
tornaconto, esattamente come nelle istituzioni dell’«istruzione obbligatoria» e
del «suffragio universale». Aggiungiamo anche che queste guerre generalizzate
sono state rese possibili da un altro fenomeno specificamente moderno, che è la
costituzione delle «nazionalità», conseguenza della distruzione del regime
feudale, da una parte, e della rottura simultanea dell’unità superiore della
«Cristianità» del Medio Evo, dall’altra; e, senza soffermarci troppo su delle
considerazioni che ci condurrebbero troppo lontano, notiamo anche, come
circostanza aggravante, la misconoscenza di una autorità spirituale superiore,
la sola che potesse esercitare normalmente un efficace arbitrato, in quanto che
essa è, per la sua stessa natura, al di sopra di tutti i conflitti di ordine
politico. La negazione dell’autorità spirituale è anch’essa del materialismo
pratico; e coloro stessi che pretendono di riconoscere una tale autorità in
linea di principio, le negano di fatto ogni influenza reale ed ogni potere
d’intervento nel dominio sociale, esattamente allo stesso modo con cui
stabiliscono una paratia stagna fra la religione e le preoccupazioni ordinarie
della loro esistenza; che si tratti della vita pubblica o della vita privata, è
sempre la stessa condizione di spirito che si afferma in entrambi i casi.
Pur ammettendo che
lo sviluppo materiale comporti qualche vantaggio, peraltro da un punto di vista
molto relativo, allorché si considerano delle conseguenze come quelle che
abbiamo appena segnalato, ci si può chiedere se tali vantaggi non siano
ampiamente superati dagli inconvenienti. Non ci riferiamo a tutto ciò che è
stato sacrificato a questo sviluppo esclusivo, e che valeva incomparabilmente
di più, non parliamo delle conoscenze superiori dimenticate,
dell’intellettualità distrutta, della spiritualità scomparsa, ma consideriamo
semplicemente la civiltà moderna com’essa è, e diciamo che se si mettessero a
confronto i vantaggi e gli inconvenienti che essa ha prodotto, il risultato
rischierebbe fortemente di essere negativo. Le invenzioni che attualmente vanno
moltiplicandosi con una rapidità sempre crescente, sono tanto più pericolose
per quanto mettono in giuoco delle forze la cui vera natura è interamente sconosciuta
da coloro stessi che le utilizzano; e questa ignoranza è la miglior prova della
nullità della scienza moderna in relazione al suo valore esplicativo, quindi in
quanto conoscenza perfino limitata al solo dominio fisico; al tempo stesso, il
fatto che le applicazioni pratiche non sono minimamente intralciate da detta
ignoranza, dimostra che questa scienza è ben orientata unicamente in un senso
interessato e che il solo scopo reale di tutte le sue ricerche è l’industria.
Ora, dal momento che il pericolo delle invenzioni, perfino di quelle che non
sono espressamente destinate a svolgere un ruolo funesto per l’umanità e che
causano ugualmente tante catastrofi, senza parlare degli scompensi insospettati
che provocano nell’ambiente terrestre, che tale pericolo, dicevamo, andrà
indubbiamente aumentando secondo proporzioni difficili da determinare, è lecito
pensare, senza troppa inverosimiglianza e come abbiamo accennato prima, che è
forse a causa loro che il mondo moderno finirà col distruggersi da sé, se non
sarà in grado di fermarsi finché è ancora in tempo.
Ma, per quanto
riguarda le invenzioni moderne, non basta esprimere le riserve che scaturiscono
inevitabilmente dal loro essere pericolose, è necessario spingersi oltre: i
pretesi «benefici» di ciò che si è ritenuto di chiamare «progresso»,
appellativo che in effetti si potrebbe condividere se si avesse cura di
specificare bene che si tratta solo di un progresso tutto materiale, tali
«benefici» così tanto vantati, non sono in gran parte illusori? Gli uomini
della nostra epoca pretendono di accrescere con ciò il loro «benessere»; noi
pensiamo, per quanto ci riguarda, che lo scopo che essi si propongono in tal
modo, anche nel caso si raggiungesse realmente, non merita che vi si dedichino
così tanti sforzi; per di più ci sembra alquanto contestabile che tale scopo
possa essere raggiunto. In primo luogo, occorrerebbe tener conto del fatto che
non tutti gli uomini hanno gli stessi gusti né gli stessi bisogni, che ve ne
sono ancora, malgrado tutto, di quelli che vorrebbero sfuggire all’agitazione
moderna, alla follia della velocità, e che non possono farlo più; si oserebbe
forse sostenere che l’imporre loro ciò che è contrario alla loro stessa natura
equivalga sempre ad un «beneficio»? Si dirà che, al giorno d’oggi, questi
uomini sono poco numerosi e per questo ci si riterrà autorizzati a considerarli
una quantità trascurabile; e qui, come nel dominio politico, la maggioranza si
arroga il diritto di schiacciare le minoranze, le quali, ai suoi occhi, hanno evidentemente
il torto di esistere, poiché questa esistenza stessa si scontra con la mania
«egualitaria» dell’uniformità. Ma, se si considera l’insieme dell’umanità,
invece di limitarsi al solo mondo occidentale, la questione cambia aspetto: la
tanto decantata maggioranza non diviene allora una minoranza? Ma ecco che, in
questo caso, non si fa valere più lo stesso argomento e, per una strana
contraddizione, è in nome della loro «superiorità» che gli «egualitari»
vogliono imporre la loro civiltà al resto del mondo e che vanno a portare il
disordine in seno a delle genti che non han chiesto loro niente; e siccome
questa «superiorità» esiste solo dal punto di vista materiale, è del tutto
naturale che essa si imponga con dei mezzi fra i più brutali. Non ci si illuda,
peraltro: se la massa ammette in buona fede tali pretesti di «civilizzazione»,
vi sono di quelli per i quali si tratta solo di una semplice ipocrisia
«moralista», di una maschera per coprire desideri di conquista ed interessi
economici; che epoca singolare quella in cui tanti uomini si lasciano
convincere che si possa fare la felicità di un popolo asservendolo,
togliendogli ciò che ha di più prezioso, e cioè la propria civiltà,
obbligandolo ad adottare dei costumi e delle istituzioni concepite per un’altra
razza, costringendolo ai lavori più penosi per fargli acquisire delle cose che
per lui sono perfettamente inutili! Eppure è così: l’Occidente moderno non può
tollerare che degli uomini preferiscano lavorare meno e si accontentino di poco
per vivere; dal momento che conta solo la quantità e visto che ciò che non cade
sotto i sensi viene considerato come inesistente, si ammette che colui che non
si agita e che non produce materialmente non può essere che un «perdigiorno»;
non volendo tenere in conto gli apprezzamenti espressi comunemente nei
confronti dei popoli orientali, basta vedere come vengono giudicati gli ordini
contemplativi, perfino in seno agli ambienti sedicenti religiosi. In un tal
mondo, non v’è più posto alcuno per l’intelligenza né per tutto quello che è
puramente interiore, poiché si tratta di cose che non si vedono né si toccano,
che non si contano né si pesano; vi è posto solo per l’azione esteriore sotto
tutte le sue forme, ivi comprese le più sprovviste di ogni significato. In tal
modo, non v’è da stupirsi che la mania anglosassone per lo «sport» guadagni
terreno ogni giorno: l’ideale di questo mondo è l’«animale umano» che ha
sviluppato al massimo la sua forza muscolare; i suoi eroi sono gli atleti,
fossero anche dei bruti; sono costoro che suscitano l’entusiasmo popolare, è
per i loro successi che si appassionano le folle; un mondo in cui si vedono
cose del genere è veramente caduto ben in basso e sembra molto prossimo alla
fine.
Tuttavia, poniamoci
per un istante dal punto di vista di coloro che identificano il loro ideale con
il «benessere» materiale e che, a questo titolo, si compiacciono di tutti i
miglioramenti che il «progresso» moderno apporta all’esistenza: sono proprio
sicuri di non essere stati abbindolati? È vero che gli uomini oggi sono più
felici che in altri tempi perché dispongono di mezzi di comunicazione più
rapidi o di altre cose del genere, e perché hanno una vita più agitata e più
complicata? A noi sembra che sia tutto il contrario: lo squilibrio non può
essere la condizione per una vera felicità; d’altronde, più un uomo ha dei
bisogni, più rischia di mancare di qualcosa e di conseguenza di essere
infelice; la civiltà moderna mira a moltiplicare i bisogni artificiali e, come
abbiamo detto in precedenza, essa crea sempre molti più bisogni di quanti ne
possa soddisfare, poiché, una volta incamminati per questa via, è molto
difficile fermarsi e non v’è alcuna ragione di limitarsi ad arrivare solo fino
ad un certo punto. Gli uomini non potevano provare alcuna sofferenza per il
fatto di essere privi di cose che non esistevano ed alle quali non avevano mai
pensato; invece, adesso essi soffrono necessariamente se queste cose vengono
loro a mancare, poiché si sono abituati a considerarle come necessarie, e, di
fatto, per loro sono realmente divenute necessarie. Quindi si sforzano, con
tutti i mezzi, di acquisire ciò che può loro procurare tutte le soddisfazioni
materiali, le sole che siano in grado di apprezzare: si tratta solo di
«guadagnare denaro», perché è questo che permette di ottenere quelle cose, e
più se ne ha più se ne vuole avere, perché si scoprono incessantemente dei
bisogni sempre nuovi; e questa passione diviene l’unico scopo di tutta la vita.
Da qui la concorrenza feroce, che certi «evoluzionisti» hanno elevato alla
dignità di legge scientifica col nome di «lotta per la vita», e la cui
conseguenza logica è che i più forti, nel senso più strettamente materiale del
termine, sono i soli ad avere diritto all’esistenza. Da qui anche l’invidia, e
perfino l’odio, che provano coloro che non possiedono la ricchezza, nei
confronti di quelli che la possiedono; e come potrebbe essere diversamente per
degli uomini a cui sono state predicate le teorie «egualitarie»? Come
potrebbero non rivoltarsi nel constatare che intorno a loro esiste la
disuguaglianza nella forma che per essi è la più sensibile, perché la più
grossolana? Se la civiltà moderna dovesse un giorno crollare sotto la spinta
degli appetiti disordinati che essa ha generato nella massa, bisognerebbe esser
proprio ciechi per non scorgervi il giusto castigo per il suo vizio
fondamentale, o, per escludere ogni fraseologia morale, per non vedervi il
«contraccolpo» della sua azione nel dominio stesso in cui questa si è
esercitata. È detto nel Vangelo: «Chi di spada ferisce, di spada perisce»;
colui che scatena le forze brute della materia perirà schiacciato da queste
stesse forze, che non può più dirigere fin da quanto imprudentemente le ha
messe in movimento e che non può vantarsi di trattenere indefinitamente in
questa loro marcia fatale; forze della natura o forze delle masse umane, o le
une e le altre insieme, poco importa, visto che sono sempre le leggi della
materia ad entrare in giuoco ed a spezzare inesorabilmente colui che ha creduto
di poterle dominare senza prima essersi elevato al di sopra della materia
stessa. E il Vangelo dice ancora: «Ogni casa divisa contro se stessa
crollerà»; anche queste parole si applicano esattamente al mondo moderno,
con la sua civiltà materiale che può suscitare ovunque, per sua stessa natura,
solo lotta e divisione. La conclusione che si può trarre è fin troppo facile:
senza bisogno di fare appello ad altre considerazioni e senza tema di smentita,
è possibile predire a questo mondo una tragica fine, a meno che non
sopraggiunga a breve scadenza un cambiamento radicale che si spinga fino ad un
vero e proprio capovolgimento.
Sappiamo bene che
certuni ci rimproverano, parlando del materialismo della civiltà moderna come
stiamo facendo qui, di trascurare certi elementi che sembrano costituire quanto
meno un’attenuazione di questo stesso materialismo; ed in effetti, se non ce ne
fossero, è molto probabile che questa civiltà sarebbe già perita miseramente.
Dunque, non contestiamo minimamente l’esistenza di tali elementi, ma anche su
questo argomento non bisogna farsi soverchie illusioni: per un verso, fra
questi elementi non possiamo far rientrare ciò che, nel dominio filosofico, si
presenta con etichette come quelle dello «spiritualismo» e dell’«idealismo», né
tampoco possiamo farvi rientrare ciò che, nelle tendenze moderne, è solo del
«moralismo» e del «sentimentalismo»; ci siamo già spiegati a sufficienza su
queste cose e ricorderemo solamente che, secondo noi, si tratta di punti di
vista altrettanto «profani» di quello del materialismo teorico o pratico, dal
quale essi si discostano più in apparenza che in realtà; per altro verso, se
esistono ancora dei resti di vera spiritualità, essi si sono mantenuti fino ad
oggi malgrado lo spirito moderno e contro di esso. Questi resti di spiritualità,
per tutto ciò che è propriamente occidentale, è possibile trovarli solamente
nell’ordine religioso; ma noi abbiamo già detto fino a che punto oggi la
religione è sminuita e come i suoi stessi fedeli abbiano di essa una concezione
ristretta e mediocre, a tal punto che ne hanno eliminato l’intellettualità, la
quale fa tutt’uno con la vera spiritualità; in queste condizioni, se certe
possibilità permangono ancora, è solo più allo stato latente, e attualmente il
loro ruolo effettivo si riduce a ben poca cosa. Ciò non significa che non si
debba ammirare ugualmente la vitalità di una tradizione religiosa che, perfino
così riassorbita in una sorta di virtualità, persiste a dispetto di tutti gli
sforzi che sono stati tentati da diversi secoli per soffocarla ed annientarla;
e se si volesse riflettere, ci si accorgerebbe che in tale resistenza è
presente qualcosa che implica una potenza «non umana»; ma, ancora una volta,
questa tradizione non appartiene al mondo moderno, essa non è uno dei suoi
elementi costitutivi, essa è l’esatto contrario delle sue tendenze e delle sue
aspirazioni. Questo bisogna dirlo francamente, senza cercare delle vane
conciliazioni: fra lo spirito religioso, nel vero senso della parola, e lo
spirito moderno non può esserci che antagonismo; ogni compromissione può solo
indebolire il primo e tornare utile al secondo, la cui ostilità non per questo
verrebbe meno, poiché lo spirito moderno non può volere che la distruzione
completa di tutto ciò che nell’umanità riflette una realtà superiore all’umanità
stessa.
Si dice che
l’Occidente moderno sia cristiano, ma è un errore: lo spirito moderno è
anticristiano perché è essenzialmente antireligioso; ed è antireligioso perché,
ancora più in generale, è antitradizionale; è questo che ne costituisce il
carattere proprio, che ne fa ciò che esso è. Certo, qualcosa del Cristianesimo
è passato fin nella civiltà anticristiana della nostra epoca, i cui
rappresentanti più «avanzati», come si autodefiniscono nel loro linguaggio
tutto speciale, non han potuto e non possono fare a meno di subire ancora una
certa influenza cristiana, quantomeno indiretta e sia pure involontariamente e
perfino inconsciamente; ed è così perché una rottura col passato, per radicale
che sia, non potrà mai essere assolutamente completa e tale da sopprimere ogni
continuità. Andiamo perfino oltre, e diciamo che tutto ciò che può esserci
ancora di valido nel mondo moderno gli è venuto dal Cristianesimo, o quantomeno
attraverso il Cristianesimo, il quale ha condotto con sé tutta l’eredità delle
tradizioni anteriori, eredità che ha conservato vivente nei limiti consentiti
dallo stato dell’Occidente e di cui porta sempre le possibilità latenti; ma chi
mai, oggigiorno, perfino fra coloro che si dichiarano cristiani, ha ancora la
coscienza effettiva di tali possibilità? Dove sono, perfino nello stesso
Cattolicesimo, gli uomini che conoscono il senso profondo della dottrina che
professano esteriormente, gli uomini che non si accontentano di «credere», in
maniera più o meno superficiale e più col sentimento che con l’intelligenza, ma
che «sanno» realmente la verità della tradizione religiosa che considerano la
loro? Vorremmo avere la prova che ne esistano almeno alcuni, poiché, per
l’Occidente, si tratterebbe della più grande e forse della sola speranza di
salvezza; ma dobbiamo confessare che, fino ad oggi, non ne abbiamo incontrato
nessuno; bisogna forse supporre che, al pari di certi saggi dell’Oriente, essi
si tengono nascosti in qualche eremo quasi inaccessibile o bisogna rinunciare
definitivamente a quest’ultima speranza? L’Occidente è stato cristiano nel
Medio Evo, ma non lo è più; se si dice che può ancora ridiventarlo, nessuno più
di noi si augura che sia così e che avvenga ancor prima di quanto lasci pensare
tutto ciò che vediamo intorno a noi; ma non ci si illuda: ad un tal giorno il
mondo moderno cesserà d’esistere.
[1] Prima
del XVIII secolo, vi sono state delle teorie «meccaniciste», dall’atomismo
greco alla fisica cartesiana; ma non bisogna confondere «meccanicismo» con
«materialismo», nonostante certe affinità abbiano potuto creare una sorta di
solidarietà di fatto fra i due, dopo l’apparizione del «materialismo»
propriamente detto.
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