"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 10 marzo 2014

René Guénon, La crisi del mondo moderno. Cap. 7 - Una civiltà materiale

René Guénon
La crisi del mondo moderno

Cap. 7 - Una civiltà materiale

Da tutto ciò che precede, ci sembra risulti già chiaramente che gli Orientali hanno pienamente ragione allorché rimproverano alla civiltà occidentale moderna di essere solo una civiltà materiale: è proprio in questo senso che essa si è esclusivamente sviluppata e, da qualunque punto di vista la si consideri, ci si trova sempre in presenza di conseguenze più o meno dirette di tale materializzazione.
Tuttavia, è necessario completare quanto abbiamo detto in proposito, e spiegare innanzi tutto i diversi significati con cui può essere assunto un termine come quello di «materialismo», poiché, anche se noi lo impieghiamo per caratterizzare il mondo contemporaneo, vi saranno di quelli che, non credendosi affatto dei «materialisti» pur pretendendo di essere molto «moderni», non mancheranno di protestare e di convincersi che si tratta di una vera calunnia; una messa a punto, dunque, si impone, al fine di dissipare a priori tutti gli equivoci che potrebbero sorgere in proposito.
È assai significativo che il termine stesso di «materialismo» dati solo dal XVIII secolo; esso venne inventato dal filosofo Berkeley, che se ne servi per designare le teorie che ammettono l’esistenza reale della materia; è appena il caso di dire che non si tratta certo di questo, dato che tale esistenza non è minimamente in causa. Un po’ più tardi, lo stesso termine assunse un significato più ristretto, quello che da allora ha conservato: esso indica una concezione in base alla quale non esiste nient’altro che la materia e ciò che da essa deriva; ed è il caso di notare la novità di una tale concezione, cioè il fatto che essa è essenzialmente un prodotto dello spirito moderno e che corrisponde, dunque, ad almeno una parte delle tendenze proprie di esso[1]. Ma è soprattutto in un’altra accezione, molto più ampia e tuttavia molto chiara, che noi intendiamo parlare di «materialismo»: tale termine infatti rappresenta tutta una condizione di spirito che, di per sé, è indipendente da ogni teoria filosofica, mentre la concezione prima esposta non rappresenta che una sola delle sue tante manifestazioni. Questa condizione di spirito è quella che consiste nel dare, più o meno coscientemente, la preponderanza alle cose di ordine materiale ed alle preoccupazioni ad esse connesse, sia che queste ultime conservino ancora una certa apparenza speculativa oppure che siano puramente pratiche; e non si può contestare seriamente che in realtà è proprio questa la mentalità dell’immensa maggioranza dei nostri contemporanei.
Tutta le scienza profana che si è sviluppata nel corso degli ultimi secoli non è altro che lo studio del mondo sensibile, in cui essa è esclusivamente rinchiusa ed i cui metodi non sono applicabili che a questo solo dominio; ora, questi metodi sono proclamati «scientifici» ad esclusione di tutti gli altri, il che equivale col negare ogni scienza che non si riferisca alle cose materiali. Tuttavia, fra coloro che la pensano così, e perfino fra coloro che si sono dedicati in modo particolare alle scienze in questione, ve ne sono molti che rifiuterebbero di dichiararsi «materialisti» e di aderire alla teoria filosofica che porta questo nome; ve ne sono perfino di quelli che fanno volentieri professione di fede religiosa e la cui sincerità non può essere messa in dubbio; ma la loro attitudine «scientifica» non differisce sensibilmente da quella dei materialisti dichiarati. Si è spesso discusso, dal punto di vista religioso, se la scienza moderna dovesse essere denunciata come atea o come materialista, e in genere la questione è stata posta malamente; è certo che questa scienza non fa espressamente professione di ateismo o di materialismo e che si limita ad ignorare certe cose per partito preso, senza pronunciarsi nei loro confronti con una negazione formale, come fanno questi o quei filosofi; ne consegue che, per quanto la riguarda, si può solo parlare di un materialismo di fatto, di ciò che noi chiamiamo volentieri materialismo pratico; ma in tal modo il male è forse ancora più grave, poiché è più profondo e più esteso. Un’attitudine filosofica può essere qualcosa di molto superficiale, perfino tra i filosofi «di professione»; per di più, vi sarebbero di quelli che indietreggerebbero di fronte alla negazione, ma che invece si adattano di fronte alla completa indifferenza; ed è questa la cosa più temibile, poiché, per negare un qualcosa occorre sempre pensarci, per poco che sia, mentre invece in questo caso si finisce col non pensare più in alcuna maniera. Quando si vede una scienza esclusivamente materiale che si presenta come la sola scienza possibile, quando gli uomini sono abituati ad ammettere come fosse una verità indiscutibile che non può esserci della conoscenza valida al di fuori di quest’ultima, quando tutta l’educazione data a questi uomini tende ad inculcare loro la superstizione di questa scienza, cosa questa che costituisce propriamente lo «scientismo»: com’è possibile che tali uomini non siano praticamente dei materialisti, e cioè che tutte le loro preoccupazioni non siano volte verso la materia?
Per i moderni, niente sembra esistere al di fuori di ciò che si vede e si tocca, o quanto meno, anche se essi ammettono teoricamente che possa esistere qualcos’altro, si affrettano poi a dichiararlo, non solo sconosciuto, ma «inconoscibile», il che li dispensa dall’occuparsene. Tuttavia, vi sono anche di quelli che cercano di farsi un’idea di un «altro mondo», ma dal momento che per far questo ricorrono all’immaginazione, essi se lo configurano sul modello del mondo terrestre e vi trasferiscono tutte le condizioni d’esistenza proprie di quest’ultimo, ivi compresi lo spazio ed il tempo e perfino una sorta di «corporeità»; noi abbiamo presentato altrove degli esempi particolarmente sorprendenti di questo genere di rappresentazioni grossolanamente materializzate, quando abbiamo parlato delle concezioni degli spiritisti; ma, se questi erano dei casi estremi, in cui un tale carattere è esagerato fino alla caricatura, sarebbe un errore credere che lo spiritismo e le sette con esso più o meno apparentate abbiano il monopolio di questo genere di cose. Del resto, in maniera più generale, l’intervento dell’immaginazione nei domini in cui essa non può apportare alcunché, e che dovrebbero esserle interdetti, è un fatto che dimostra molto chiaramente l’incapacità degli Occidentali moderni ad elevarsi al di sopra del sensibile; molti non riescono ad operare alcuna differenza fra «concepire» ed «immaginare», ed alcuni filosofi, come Kant, arrivano perfino a dichiarare «inconcepibile» o «impensabile» tutto ciò che non è suscettibile di rappresentazione. Di modo che, tutto ciò che si chiama «spiritualismo» o «idealismo» è, molto spesso, nient’altro che una sorta di materialismo trasposto; e ciò è vero non solo per quello che noi abbiamo chiamato «neo-spiritualismo», ma anche per lo stesso spiritualismo filosofico, nonostante esso si consideri come l’opposto del materialismo. A dire il vero, spiritualismo e materialismo, intesi nel senso filosofico, non possono comprendersi l’uno senza l’altro: essi sono semplicemente le due metà del dualismo cartesiano, la cui separazione radicale è stata trasformata in antagonismo; e da allora, tutta la filosofia oscilla fra questi due termini senza essere in grado di superarli. Lo spiritualismo, a dispetto del suo nome, non ha niente in comune con la spiritualità; la sua disputa con il materialismo non può che lasciare perfettamente indifferenti coloro che si pongono da un punto di vista superiore e che si accorgono che questi contrari sono, in fondo, prossimi ad essere dei semplici equivalenti, e la cui pretesa opposizione, su molti punti, si riduce ad essere una volgare disputa sulle parole.
I moderni, in generale, non concepiscono altra scienza che quella delle cose che si misurano, si contano e si pesano, e cioè insomma delle cose materiali, poiché sono le sole a cui si possa applicare il punto di vista quantitativo; mentre la pretesa di ridurre la qualità alla quantità è del tutto caratteristica della scienza moderna. In questa ottica, si è giunti a credere che non vi possono essere delle scienze propriamente dette laddove non è possibile introdurre la misura, e che le leggi scientifiche sono solo quelle che esprimono delle relazioni quantitative; il «meccanicismo» di Cartesio ha segnato l’inizio di questa tendenza, che si è poi accentuata nonostante lo scacco della fisica cartesiana, ed infatti tale tendenza non è legata ad una determinata teoria, bensì ad una concezione generale della conoscenza scientifica. Ed oggi si vede applicata la misura fin nel dominio psicologico, che tuttavia le sfugge per la sua stessa natura, finendo col non comprendere più che la possibilità della misura si fonda solo su una proprietà inerente alla materia, proprietà che è quella della sua divisibilità indefinita, a meno che non si pensi che essa si estenda a tutto ciò che esiste, giungendo così a materializzare ogni cosa. È la materia, lo abbiamo già detto, il principio di divisione e della pura molteplicità; ed allora, la predominanza attribuita al punto di vista della quantità, che come abbiamo già visto si ritrova fin nel dominio sociale, è esattamente del materialismo inteso nel senso da noi prima indicato, quantunque essa non sia necessariamente legata al materialismo filosofico, che ha peraltro preceduto nello sviluppo delle tendenze dello spirito moderno.
Non insisteremo ulteriormente su ciò che vi è di illegittimo nel voler ridurre la qualità alla quantità, né su quanto vi è di insufficiente in tutti i tentativi di spiegazione che più o meno si riallacciano alla tipologia «meccanicista»; non è questo che ci proponiamo, e noteremo semplicemente che, nello stesso ordine sensibile, una scienza di questo genere ha pochissimi rapporti con la realtà, la cui parte più considerevole ad essa sfugge necessariamente.
A proposito di «realtà» siamo indotti a menzionare un altro fatto, che rischia di passare inosservato agli occhi di molti, ma che è assai degno di nota come segno della condizione di spirito di cui parliamo: ed è che questo termine, nell’uso corrente, è esclusivamente riservato alla sola realtà sensibile. Ora, dal momento che il linguaggio è l’espressione della mentalità di un popolo e di un’epoca, se ne deve concludere che, per coloro che si esprimono così, tutto ciò che non cade sotto i propri sensi è «irreale», vale a dire illusorio o perfino del tutto inesistente; è possibile che essi non ne siano chiaramente coscienti, ma ciò non toglie che questa convinzione negativa è pur sempre la loro, ed anche quando affermassero il contrario si può star certi, benché essi stessi non se ne rendano conto, che una tale affermazione corrisponderebbe per loro solo a qualcosa di molto più esteriore, se non addirittura ad una pura espressione verbale. Se si fosse tentati di credere che noi esageriamo, si dovrebbe solo cercare di vedere, per esempio, a cosa si riducono le pretese convinzioni religiose di molta gente: alcune nozioni apprese a memoria, in maniera tutta scolastica e meccanica, che non hanno per niente assimilato, sulle quali non hanno neanche riflettuto un po’, ma che conservano nella loro memoria e che ripetono per l’occasione in quanto facenti parte di un certo formalismo, di un’attitudine convenzionale che è tutto quello che essi possono comprendere col nome di religione. Abbiamo già parlato di questa «minimizzazione» della religione, di cui il «verbalismo» in questione rappresenta uno degli ultimi gradi; e questo spiega il fatto che dei sedicenti «credenti», in quanto a materialismo pratico, non sono secondi in niente ai «non credenti»; e ritorneremo ancora su questo punto; ma per adesso dobbiamo completare le considerazioni relative al carattere materialista della scienza moderna, poiché si tratta di una questione che necessita di essere considerata sotto diversi aspetti.
Ci serve ricordare ancora, quantunque lo avessimo già indicato, che le scienze moderne non hanno il carattere di una conoscenza disinteressata, e perfino in coloro stessi che credono al loro valore speculativo, quest’ultimo è solo una maschera sotto cui si nascondono delle preoccupazioni del tutto pratiche, ma che consente di conservare l’illusione di una falsa intellettualità. Lo stesso Cartesio, nel costituire la sua fisica, pensava soprattutto a farne un meccanismo, una medicina ed una morale; e con la diffusione dell’empirismo anglosassone si giunse a ben altro ancora; del resto, agli occhi del grande pubblico, ciò che costituisce il prestigio della scienza è dato quasi unicamente dai risultati pratici che essa permette di realizzare, poiché anche qui si tratta di cose che si possono vedere e toccare. Dicevamo che il «pragmatismo» rappresenta lo sbocco di tutta la filosofia moderna ed il suo ultimo grado di abbassamento; ma vi è anche, e da molto più tempo, al di fuori della filosofia, un «pragmatismo» diffuso e non sistematico che sta al primo come il materialismo pratico sta al materialismo teorico, e che si confonde con ciò che il volgo chiama il «buon senso». Questo utilitarismo quasi istintivo è, peraltro, inseparabile dalla tendenza materialista: il «buon senso» consiste nel non oltrepassare l’orizzonte terreno, al pari del non occuparsi di tutto ciò che non ha un interesse pratico immediato; è soprattutto per tale «buon senso» che il mondo sensibile è il solo mondo «reale» e che non vi è conoscenza che non venga dai sensi; ed è anche per esso che questa stessa conoscenza ristretta non vale che nella misura in cui permette di soddisfare dei bisogni materiali, e talvolta anche un certo sentimentalismo; poiché il sentimento è in realtà del tutto prossimo alla materia, e questo va detto chiaramente anche a costo di scioccare il «moralismo» contemporaneo. In tutto ciò, non resta alcun posto per l’intelligenza, se non in quanto essa acconsenta a servire per la realizzazione dei fini pratici, a non essere più che un semplice strumento sottomesso alle esigenze della parte inferiore e corporea dell’individuo umano, o, secondo una singolare espressione di Bergson, «un utensile per fare degli utensili». Ciò che costituisce il «pragmatismo» in tutte le sue forme è la totale indifferenza nei confronti della verità.
In queste condizioni, l’industria non è più solamente un’applicazione della scienza, applicazione da cui dovrebbe essere, di per sé, totalmente indipendente, ma è divenuta come la sua ragion d’essere e la sua giustificazione; di modo che, anche qui, i rapporti normali si trovano invertiti. Ciò a cui il mondo moderno ha dedicato tutte le sue forze, persino quando ha preteso di fare della scienza alla sua maniera, è in realtà nient’altro che lo sviluppo dell’industria e del «macchinismo»; e nel voler dominare la materia in tal modo e nel volerla piegare a proprio uso, gli uomini sono solo riusciti a diventarne gli schiavi, come dicevamo all’inizio: non solo hanno limitato le loro ambizioni intellettuali, se è ancora permesso servirsi di questa parola in un caso del genere, coll’inventare e col costruire delle macchine, ma sono giunti fino a diventare veramente essi stessi delle macchine. In effetti, la «specializzazione», così osannata da certi sociologi col nome di «divisione del lavoro», non si è imposta solo agli scienziati, ma anche ai tecnici e perfino agli operai, e per questi ultimi ogni lavoro intelligente è divenuto impossibile; ben diversamente dagli artigiani d’un tempo, essi non sono più che i servitori delle macchine, fanno, per così dire, un corpo solo con esse; devono ripetere incessantemente, in maniera del tutto meccanica, certi precisi movimenti, sempre gli stessi e sempre effettuati allo stesso modo, al fine di evitare la minima perdita di tempo; così almeno pretendono i metodi americani, che sono considerati come il grado più alto del «progresso». In effetti, si tratta unicamente di produrre il più possibile; ci si cura poco della qualità ed è solo la quantità che importa; ed eccoci ancora una volta di fronte alla constatazione che abbiamo già fatto in relazione ad altri ambiti: la civiltà moderna è veramente ciò che si può chiamare una civiltà quantitativa, e questo è un altro modo per dire che è una civiltà materiale.
Se ci si vuole convincere ancora meglio di questa verità, basta solo guardare al ruolo immenso che svolgono oggigiorno, nell’esistenza dei popoli ed in quella degli individui, gli elementi di ordine economico: industria, commercio, finanze; sembra che non vi sia altro che conti; il che si accorda con il fatto già segnalato che la sola distinzione sociale rimasta è quella fondata sulla ricchezza materiale. Sembra che il potere finanziario domini tutta la politica e che la concorrenza commerciale eserciti un’influenza preponderante sulle relazioni fra i popoli; forse si tratta solo di un’apparenza e queste cose non sono tanto delle vere cause quanto dei semplici mezzi d’azione; ma la scelta di tali mezzi indica bene il carattere dell’epoca alla quale essi si addicono. D’altronde, i nostri contemporanei sono persuasi che le circostanze economiche sono quasi gli unici fattori degli avvenimenti storici, ed immaginano perfino che è sempre stato così; ed in questa convinzione ci si è spinti fino ad inventare una teoria che pretende di spiegare tutto esclusivamente con l’economia, teoria che ha ricevuto il significativo appellativo di «materialismo storico». Anche qui è possibile notare l’effetto di una di quelle suggestioni di cui abbiamo parlato prima, suggestioni che agiscono tanto meglio per quanto più corrispondono alle tendenze della mentalità generale; e l’effetto di questa suggestione è che i mezzi economici finiscono per determinare realmente quasi tutto ciò che si produce nel dominio sociale. Senza dubbio, la massa è sempre stata guidata, in una maniera o in un’altra, e si potrebbe dire che il suo ruolo storico consiste soprattutto nel lasciarsi guidare, poiché essa non rappresenta che un elemento passivo, una «materia» in senso aristotelico; ma oggigiorno, per guidarla, basta disporre di mezzi puramente materiali, questa volta nel senso ordinario del termine; il che dimostra bene il grado di abbassamento della nostra epoca; e, al tempo stesso, si fa credere a questa stessa massa che non è guidata, che essa agisce spontaneamente e si governa da sé, ed il fatto che essa lo creda permette di comprendere fino a che punto possa arrivare la sua intelligenza.
Visto che stiamo parlando di fattori economici, ne approfittiamo per segnalare una illusione molto diffusa in proposito, che consiste nell’immaginare che le relazioni stabilite sul piano degli scambi commerciali, possano servire per un avvicinamento ed un’intesa fra i popoli, mentre invece esse sortiscono realmente l’effetto contrario. La materia, lo abbiamo già detto più volte, è essenzialmente molteplicità e divisione, dunque fonte di lotte e di conflitti; di modo che, si tratti di popoli o di individui, il dominio economico non è, e non può essere, che quello delle rivalità d’interessi. In particolare, l’Occidente non può contare sull’industria né sulla scienza moderna, da cui la prima è inseparabile, per trovare un terreno d’intesa con l’Oriente; se gli Orientali finiscono con l’accettare questa industria come una necessità fastidiosa e peraltro transitoria, poiché per essi questa non potrebbe essere niente di più, ciò è da loro considerato come un’arma che permette di resistere all’invasione occidentale e di salvaguardare la propria esistenza; è importante che si sappia con esattezza che non può essere diversamente da così: gli Orientali che si rassegnano a prendere in considerazione una concorrenza economica con l’Occidente, malgrado la ripugnanza che provano per questo genere di attività, possono farlo con una sola intenzione, quella di sbarazzarsi di una dominazione straniera che si basa solo sulla forza bruta, sulla potenza materiale che proprio l’industria mette a sua disposizione; la violenza chiama la violenza, ma si dovrà riconoscere che non sono stati certo gli Orientali che hanno cercato la lotta su questo terreno.
Del resto, al di fuori della questione dei rapporti fra Oriente ed Occidente, è facile constatare che una delle conseguenze più notevoli dello sviluppo industriale è il perfezionamento incessante dei congegni di guerra e l’aumento del loro potere distruttivo in proporzioni formidabili. Dovrebbe bastare solo questo per ridurre a niente le fantasticherie «pacifiste» di certi ammiratori del «progresso» moderno; ma i sognatori e gli «idealisti» sono incorreggibili e la loro ingenuità sembra non conoscere limiti. L’«umanitarismo» che va tanto di moda non merita sicuramente di essere preso sul serio; ma è strano che si parli tanto della fine delle guerre in un’epoca in cui esse hanno arrecato devastazioni senza precedenti, non solo a causa della moltiplicazione dei mezzi di distruzione, ma anche perché, invece di svolgersi fra eserciti poco numerosi e composti unicamente da soldati di mestiere, mettono tutti gli individui indistintamente gli uni contro gli altri, ivi compresi i meno qualificati per assolvere ad una simile funzione. Ed ancora si tratta di un esempio lampante della confusione moderna, mentre è veramente prodigioso, per chi voglia rifletterci su, che si sia giunti a considerare come del tutto naturale una «leva di massa» o una «mobilitazione generale», e che abbia potuto imporsi su tutti, salvo poche eccezioni, l’idea di una «nazione in armi». Anche qui è possibile vedere un effetto della credenza nella sola forza del numero: è conforme al carattere quantitativo della civiltà moderna mettere in movimento delle masse enormi di combattenti; al tempo stesso, anche l’«egualitarismo» vi trova il suo tornaconto, esattamente come nelle istituzioni dell’«istruzione obbligatoria» e del «suffragio universale». Aggiungiamo anche che queste guerre generalizzate sono state rese possibili da un altro fenomeno specificamente moderno, che è la costituzione delle «nazionalità», conseguenza della distruzione del regime feudale, da una parte, e della rottura simultanea dell’unità superiore della «Cristianità» del Medio Evo, dall’altra; e, senza soffermarci troppo su delle considerazioni che ci condurrebbero troppo lontano, notiamo anche, come circostanza aggravante, la misconoscenza di una autorità spirituale superiore, la sola che potesse esercitare normalmente un efficace arbitrato, in quanto che essa è, per la sua stessa natura, al di sopra di tutti i conflitti di ordine politico. La negazione dell’autorità spirituale è anch’essa del materialismo pratico; e coloro stessi che pretendono di riconoscere una tale autorità in linea di principio, le negano di fatto ogni influenza reale ed ogni potere d’intervento nel dominio sociale, esattamente allo stesso modo con cui stabiliscono una paratia stagna fra la religione e le preoccupazioni ordinarie della loro esistenza; che si tratti della vita pubblica o della vita privata, è sempre la stessa condizione di spirito che si afferma in entrambi i casi.
Pur ammettendo che lo sviluppo materiale comporti qualche vantaggio, peraltro da un punto di vista molto relativo, allorché si considerano delle conseguenze come quelle che abbiamo appena segnalato, ci si può chiedere se tali vantaggi non siano ampiamente superati dagli inconvenienti. Non ci riferiamo a tutto ciò che è stato sacrificato a questo sviluppo esclusivo, e che valeva incomparabilmente di più, non parliamo delle conoscenze superiori dimenticate, dell’intellettualità distrutta, della spiritualità scomparsa, ma consideriamo semplicemente la civiltà moderna com’essa è, e diciamo che se si mettessero a confronto i vantaggi e gli inconvenienti che essa ha prodotto, il risultato rischierebbe fortemente di essere negativo. Le invenzioni che attualmente vanno moltiplicandosi con una rapidità sempre crescente, sono tanto più pericolose per quanto mettono in giuoco delle forze la cui vera natura è interamente sconosciuta da coloro stessi che le utilizzano; e questa ignoranza è la miglior prova della nullità della scienza moderna in relazione al suo valore esplicativo, quindi in quanto conoscenza perfino limitata al solo dominio fisico; al tempo stesso, il fatto che le applicazioni pratiche non sono minimamente intralciate da detta ignoranza, dimostra che questa scienza è ben orientata unicamente in un senso interessato e che il solo scopo reale di tutte le sue ricerche è l’industria. Ora, dal momento che il pericolo delle invenzioni, perfino di quelle che non sono espressamente destinate a svolgere un ruolo funesto per l’umanità e che causano ugualmente tante catastrofi, senza parlare degli scompensi insospettati che provocano nell’ambiente terrestre, che tale pericolo, dicevamo, andrà indubbiamente aumentando secondo proporzioni difficili da determinare, è lecito pensare, senza troppa inverosimiglianza e come abbiamo accennato prima, che è forse a causa loro che il mondo moderno finirà col distruggersi da sé, se non sarà in grado di fermarsi finché è ancora in tempo.
Ma, per quanto riguarda le invenzioni moderne, non basta esprimere le riserve che scaturiscono inevitabilmente dal loro essere pericolose, è necessario spingersi oltre: i pretesi «benefici» di ciò che si è ritenuto di chiamare «progresso», appellativo che in effetti si potrebbe condividere se si avesse cura di specificare bene che si tratta solo di un progresso tutto materiale, tali «benefici» così tanto vantati, non sono in gran parte illusori? Gli uomini della nostra epoca pretendono di accrescere con ciò il loro «benessere»; noi pensiamo, per quanto ci riguarda, che lo scopo che essi si propongono in tal modo, anche nel caso si raggiungesse realmente, non merita che vi si dedichino così tanti sforzi; per di più ci sembra alquanto contestabile che tale scopo possa essere raggiunto. In primo luogo, occorrerebbe tener conto del fatto che non tutti gli uomini hanno gli stessi gusti né gli stessi bisogni, che ve ne sono ancora, malgrado tutto, di quelli che vorrebbero sfuggire all’agitazione moderna, alla follia della velocità, e che non possono farlo più; si oserebbe forse sostenere che l’imporre loro ciò che è contrario alla loro stessa natura equivalga sempre ad un «beneficio»? Si dirà che, al giorno d’oggi, questi uomini sono poco numerosi e per questo ci si riterrà autorizzati a considerarli una quantità trascurabile; e qui, come nel dominio politico, la maggioranza si arroga il diritto di schiacciare le minoranze, le quali, ai suoi occhi, hanno evidentemente il torto di esistere, poiché questa esistenza stessa si scontra con la mania «egualitaria» dell’uniformità. Ma, se si considera l’insieme dell’umanità, invece di limitarsi al solo mondo occidentale, la questione cambia aspetto: la tanto decantata maggioranza non diviene allora una minoranza? Ma ecco che, in questo caso, non si fa valere più lo stesso argomento e, per una strana contraddizione, è in nome della loro «superiorità» che gli «egualitari» vogliono imporre la loro civiltà al resto del mondo e che vanno a portare il disordine in seno a delle genti che non han chiesto loro niente; e siccome questa «superiorità» esiste solo dal punto di vista materiale, è del tutto naturale che essa si imponga con dei mezzi fra i più brutali. Non ci si illuda, peraltro: se la massa ammette in buona fede tali pretesti di «civilizzazione», vi sono di quelli per i quali si tratta solo di una semplice ipocrisia «moralista», di una maschera per coprire desideri di conquista ed interessi economici; che epoca singolare quella in cui tanti uomini si lasciano convincere che si possa fare la felicità di un popolo asservendolo, togliendogli ciò che ha di più prezioso, e cioè la propria civiltà, obbligandolo ad adottare dei costumi e delle istituzioni concepite per un’altra razza, costringendolo ai lavori più penosi per fargli acquisire delle cose che per lui sono perfettamente inutili! Eppure è così: l’Occidente moderno non può tollerare che degli uomini preferiscano lavorare meno e si accontentino di poco per vivere; dal momento che conta solo la quantità e visto che ciò che non cade sotto i sensi viene considerato come inesistente, si ammette che colui che non si agita e che non produce materialmente non può essere che un «perdigiorno»; non volendo tenere in conto gli apprezzamenti espressi comunemente nei confronti dei popoli orientali, basta vedere come vengono giudicati gli ordini contemplativi, perfino in seno agli ambienti sedicenti religiosi. In un tal mondo, non v’è più posto alcuno per l’intelligenza né per tutto quello che è puramente interiore, poiché si tratta di cose che non si vedono né si toccano, che non si contano né si pesano; vi è posto solo per l’azione esteriore sotto tutte le sue forme, ivi comprese le più sprovviste di ogni significato. In tal modo, non v’è da stupirsi che la mania anglosassone per lo «sport» guadagni terreno ogni giorno: l’ideale di questo mondo è l’«animale umano» che ha sviluppato al massimo la sua forza muscolare; i suoi eroi sono gli atleti, fossero anche dei bruti; sono costoro che suscitano l’entusiasmo popolare, è per i loro successi che si appassionano le folle; un mondo in cui si vedono cose del genere è veramente caduto ben in basso e sembra molto prossimo alla fine.
Tuttavia, poniamoci per un istante dal punto di vista di coloro che identificano il loro ideale con il «benessere» materiale e che, a questo titolo, si compiacciono di tutti i miglioramenti che il «progresso» moderno apporta all’esistenza: sono proprio sicuri di non essere stati abbindolati? È vero che gli uomini oggi sono più felici che in altri tempi perché dispongono di mezzi di comunicazione più rapidi o di altre cose del genere, e perché hanno una vita più agitata e più complicata? A noi sembra che sia tutto il contrario: lo squilibrio non può essere la condizione per una vera felicità; d’altronde, più un uomo ha dei bisogni, più rischia di mancare di qualcosa e di conseguenza di essere infelice; la civiltà moderna mira a moltiplicare i bisogni artificiali e, come abbiamo detto in precedenza, essa crea sempre molti più bisogni di quanti ne possa soddisfare, poiché, una volta incamminati per questa via, è molto difficile fermarsi e non v’è alcuna ragione di limitarsi ad arrivare solo fino ad un certo punto. Gli uomini non potevano provare alcuna sofferenza per il fatto di essere privi di cose che non esistevano ed alle quali non avevano mai pensato; invece, adesso essi soffrono necessariamente se queste cose vengono loro a mancare, poiché si sono abituati a considerarle come necessarie, e, di fatto, per loro sono realmente divenute necessarie. Quindi si sforzano, con tutti i mezzi, di acquisire ciò che può loro procurare tutte le soddisfazioni materiali, le sole che siano in grado di apprezzare: si tratta solo di «guadagnare denaro», perché è questo che permette di ottenere quelle cose, e più se ne ha più se ne vuole avere, perché si scoprono incessantemente dei bisogni sempre nuovi; e questa passione diviene l’unico scopo di tutta la vita. Da qui la concorrenza feroce, che certi «evoluzionisti» hanno elevato alla dignità di legge scientifica col nome di «lotta per la vita», e la cui conseguenza logica è che i più forti, nel senso più strettamente materiale del termine, sono i soli ad avere diritto all’esistenza. Da qui anche l’invidia, e perfino l’odio, che provano coloro che non possiedono la ricchezza, nei confronti di quelli che la possiedono; e come potrebbe essere diversamente per degli uomini a cui sono state predicate le teorie «egualitarie»? Come potrebbero non rivoltarsi nel constatare che intorno a loro esiste la disuguaglianza nella forma che per essi è la più sensibile, perché la più grossolana? Se la civiltà moderna dovesse un giorno crollare sotto la spinta degli appetiti disordinati che essa ha generato nella massa, bisognerebbe esser proprio ciechi per non scorgervi il giusto castigo per il suo vizio fondamentale, o, per escludere ogni fraseologia morale, per non vedervi il «contraccolpo» della sua azione nel dominio stesso in cui questa si è esercitata. È detto nel Vangelo: «Chi di spada ferisce, di spada perisce»; colui che scatena le forze brute della materia perirà schiacciato da queste stesse forze, che non può più dirigere fin da quanto imprudentemente le ha messe in movimento e che non può vantarsi di trattenere indefinitamente in questa loro marcia fatale; forze della natura o forze delle masse umane, o le une e le altre insieme, poco importa, visto che sono sempre le leggi della materia ad entrare in giuoco ed a spezzare inesorabilmente colui che ha creduto di poterle dominare senza prima essersi elevato al di sopra della materia stessa. E il Vangelo dice ancora: «Ogni casa divisa contro se stessa crollerà»; anche queste parole si applicano esattamente al mondo moderno, con la sua civiltà materiale che può suscitare ovunque, per sua stessa natura, solo lotta e divisione. La conclusione che si può trarre è fin troppo facile: senza bisogno di fare appello ad altre considerazioni e senza tema di smentita, è possibile predire a questo mondo una tragica fine, a meno che non sopraggiunga a breve scadenza un cambiamento radicale che si spinga fino ad un vero e proprio capovolgimento.
Sappiamo bene che certuni ci rimproverano, parlando del materialismo della civiltà moderna come stiamo facendo qui, di trascurare certi elementi che sembrano costituire quanto meno un’attenuazione di questo stesso materialismo; ed in effetti, se non ce ne fossero, è molto probabile che questa civiltà sarebbe già perita miseramente. Dunque, non contestiamo minimamente l’esistenza di tali elementi, ma anche su questo argomento non bisogna farsi soverchie illusioni: per un verso, fra questi elementi non possiamo far rientrare ciò che, nel dominio filosofico, si presenta con etichette come quelle dello «spiritualismo» e dell’«idealismo», né tampoco possiamo farvi rientrare ciò che, nelle tendenze moderne, è solo del «moralismo» e del «sentimentalismo»; ci siamo già spiegati a sufficienza su queste cose e ricorderemo solamente che, secondo noi, si tratta di punti di vista altrettanto «profani» di quello del materialismo teorico o pratico, dal quale essi si discostano più in apparenza che in realtà; per altro verso, se esistono ancora dei resti di vera spiritualità, essi si sono mantenuti fino ad oggi malgrado lo spirito moderno e contro di esso. Questi resti di spiritualità, per tutto ciò che è propriamente occidentale, è possibile trovarli solamente nell’ordine religioso; ma noi abbiamo già detto fino a che punto oggi la religione è sminuita e come i suoi stessi fedeli abbiano di essa una concezione ristretta e mediocre, a tal punto che ne hanno eliminato l’intellettualità, la quale fa tutt’uno con la vera spiritualità; in queste condizioni, se certe possibilità permangono ancora, è solo più allo stato latente, e attualmente il loro ruolo effettivo si riduce a ben poca cosa. Ciò non significa che non si debba ammirare ugualmente la vitalità di una tradizione religiosa che, perfino così riassorbita in una sorta di virtualità, persiste a dispetto di tutti gli sforzi che sono stati tentati da diversi secoli per soffocarla ed annientarla; e se si volesse riflettere, ci si accorgerebbe che in tale resistenza è presente qualcosa che implica una potenza «non umana»; ma, ancora una volta, questa tradizione non appartiene al mondo moderno, essa non è uno dei suoi elementi costitutivi, essa è l’esatto contrario delle sue tendenze e delle sue aspirazioni. Questo bisogna dirlo francamente, senza cercare delle vane conciliazioni: fra lo spirito religioso, nel vero senso della parola, e lo spirito moderno non può esserci che antagonismo; ogni compromissione può solo indebolire il primo e tornare utile al secondo, la cui ostilità non per questo verrebbe meno, poiché lo spirito moderno non può volere che la distruzione completa di tutto ciò che nell’umanità riflette una realtà superiore all’umanità stessa.
Si dice che l’Occidente moderno sia cristiano, ma è un errore: lo spirito moderno è anticristiano perché è essenzialmente antireligioso; ed è antireligioso perché, ancora più in generale, è antitradizionale; è questo che ne costituisce il carattere proprio, che ne fa ciò che esso è. Certo, qualcosa del Cristianesimo è passato fin nella civiltà anticristiana della nostra epoca, i cui rappresentanti più «avanzati», come si autodefiniscono nel loro linguaggio tutto speciale, non han potuto e non possono fare a meno di subire ancora una certa influenza cristiana, quantomeno indiretta e sia pure involontariamente e perfino inconsciamente; ed è così perché una rottura col passato, per radicale che sia, non potrà mai essere assolutamente completa e tale da sopprimere ogni continuità. Andiamo perfino oltre, e diciamo che tutto ciò che può esserci ancora di valido nel mondo moderno gli è venuto dal Cristianesimo, o quantomeno attraverso il Cristianesimo, il quale ha condotto con sé tutta l’eredità delle tradizioni anteriori, eredità che ha conservato vivente nei limiti consentiti dallo stato dell’Occidente e di cui porta sempre le possibilità latenti; ma chi mai, oggigiorno, perfino fra coloro che si dichiarano cristiani, ha ancora la coscienza effettiva di tali possibilità? Dove sono, perfino nello stesso Cattolicesimo, gli uomini che conoscono il senso profondo della dottrina che professano esteriormente, gli uomini che non si accontentano di «credere», in maniera più o meno superficiale e più col sentimento che con l’intelligenza, ma che «sanno» realmente la verità della tradizione religiosa che considerano la loro? Vorremmo avere la prova che ne esistano almeno alcuni, poiché, per l’Occidente, si tratterebbe della più grande e forse della sola speranza di salvezza; ma dobbiamo confessare che, fino ad oggi, non ne abbiamo incontrato nessuno; bisogna forse supporre che, al pari di certi saggi dell’Oriente, essi si tengono nascosti in qualche eremo quasi inaccessibile o bisogna rinunciare definitivamente a quest’ultima speranza? L’Occidente è stato cristiano nel Medio Evo, ma non lo è più; se si dice che può ancora ridiventarlo, nessuno più di noi si augura che sia così e che avvenga ancor prima di quanto lasci pensare tutto ciò che vediamo intorno a noi; ma non ci si illuda: ad un tal giorno il mondo moderno cesserà d’esistere.

[1] Prima del XVIII secolo, vi sono state delle teorie «meccaniciste», dall’atomismo greco alla fisica cartesiana; ma non bisogna confondere «meccanicismo» con «materialismo», nonostante certe affinità abbiano potuto creare una sorta di solidarietà di fatto fra i due, dopo l’apparizione del «materialismo» propriamente detto.

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