Monoteismo Vedico*
Un solo Fuoco viene acceso in molti luoghi,
un solo Sole è presente per uno ed in tutto,
una sola Aurora illumina questo tutto: quello che è Uno solo diventa questo tutto.
Rig-Veda VIII.58.2
Nella maggiore parte dei casi, l'erudizione moderna postula che nella metafisica indù il concetto di Principio Unico sia solo uno sviluppo posteriore in cui i diversi dei diventano, per così dire, poteri o aspetti operativi o attributi personificati.
Però, già Yâska[1] insegna che è proprio per la gran divisibilità del principio il motivo per cui gli sono applicati molti nomi, uno dopo l’altro: “Gli altri dei diventano (bhavanti) parti secondarie dello Spirito Unico … il loro divenire è una nascita l’uno da un altro, sono di una natura comunicata; nascono nella funzione[2] (karma); lo Spirito è la loro origine … lo Spirito (Âtman) è il tutto di quello che un Dio è” (Nirukta VII.4). Analogamente nella Brâd Devatâ I.70-74 vien detto: “è per l’immensità dello Spirito che lo chiamiamo con tanta diversità di nomi[3], a seconda dell’assegnazione delle sue sfere” I nomi sono innumerevoli solo in quanto sono «differenziazioni», «presenze»[4]. I grandi saggi[5] (kavayah), nei loro inni[6] (mantrēśu) dicono che le divinità hanno una fonte comune; si chiamano con differenti nomi secondo gli ambiti in cui sono stabiliti[7]. Alcuni dicono che partecipano di quello, o che tale è la loro derivazione; ma per quel che riguarda la Trinità dei sovrani del mondo, si capisce bene che la totalità della loro partecipazione (bhaktih) è nello Spirito (Âtman)[8].
Però, già Yâska[1] insegna che è proprio per la gran divisibilità del principio il motivo per cui gli sono applicati molti nomi, uno dopo l’altro: “Gli altri dei diventano (bhavanti) parti secondarie dello Spirito Unico … il loro divenire è una nascita l’uno da un altro, sono di una natura comunicata; nascono nella funzione[2] (karma); lo Spirito è la loro origine … lo Spirito (Âtman) è il tutto di quello che un Dio è” (Nirukta VII.4). Analogamente nella Brâd Devatâ I.70-74 vien detto: “è per l’immensità dello Spirito che lo chiamiamo con tanta diversità di nomi[3], a seconda dell’assegnazione delle sue sfere” I nomi sono innumerevoli solo in quanto sono «differenziazioni», «presenze»[4]. I grandi saggi[5] (kavayah), nei loro inni[6] (mantrēśu) dicono che le divinità hanno una fonte comune; si chiamano con differenti nomi secondo gli ambiti in cui sono stabiliti[7]. Alcuni dicono che partecipano di quello, o che tale è la loro derivazione; ma per quel che riguarda la Trinità dei sovrani del mondo, si capisce bene che la totalità della loro partecipazione (bhaktih) è nello Spirito (Âtman)[8].
I passaggi precedenti illustrano il metodo normale della teologia in ogni esame de divinis nominibus, quando il riconoscimento delle diverse operazioni di un principio unico dà origine all’apparenza superficiale di un politeismo. Anche nel cristianesimo, per esempio, si dice: “noi non diciamo l'unico Dio, perché la divinità è comune a vari” (Summa Theologica I.31.2C); più ancora, “Creare esseri appartiene a Dio secondo il Suo proprio essere, cioè, la Sua essenza, che è comune alle tre Persone. Di qui che creare non è peculiare ad un’unica Persona, bensì comune a tutta la Trinità”, Summa Theologica I.45.6C e bisogna capire bene che “Benché i nomi di Dio abbiano un unico riferimento comune, tuttavia, poiché il riferimento si fa sotto molti e differenti aspetti, questi nomi non sono sinonimici… I molteplici aspetti di questi nomi non sono vuoti e vani, perché corrisponde a tutti loro un'unica realtà rappresentata da ognuno di loro in una maniera diversa ed imperfetta”, Summa Theologica I.13.a ad 21[9]. Sâyana nel Śatapatha Brâhmana (I.6.1.20) dice: “Prajâpati è inesplicito poiché Egli è essenzialmente tutti gli dei per questo che di Lui non si può dire che «È questo o quello» ma solo che «Egli è»”.
Così anche Ermete Trismegisto: “Possiamo dire che è corretto attribuirgli il nome di «Dio» o quello di Artefice o quello di Padre? No, i tre nomi sono Suoi ed Egli è giustamente chiamato «Dio» in ragione del Suo potere, «Artefice» in ragione dell’opera che fa e «Padre» in ragione della Sua bontà” [Lib. XIV.4]. Plotino, allo stesso modo, scrive nelle Enneadi: “La vita delle stelle dotate di anima è identica, poiché sono unite all'Anima del Tutto, in modo che il loro movimento spaziale stesso ha il suo centro nella loro identità e si risolve in un movimento che non è spaziale ma vitale», Enn. IV.4.8. È ben conosciuto che queste concezioni dell'identità del Primo Principio con tutti i suoi poteri sono continui nei Brâhmana e nell'Atharva Veda. Ad esempio si può trovare, nel Ŝatapatha Brâhmana X.5.2.16: «in quanto a questo dicono, “Allora la Morte è uno o molti?”. Uno deve rispondere, «Uno e molti». Dunque, mentre Egli è Quello, la Persona nel Sole, Egli è anche uno; e nello stesso tempo Egli è molteplicemente distribuito nei Suoi figli ed Egli è molti», passo che deve essere letto insieme al verso 20: «Come uno Lo cerca, così egli diventa»[10] ed Atharva Veda Samhitâ VIII.9.26, “Un unico Toro, un unico Profeta, un'unica Casa, un'unica Ordinanza, un unico Yakşa nel Suo terreno, un'unica Stazione che non si svuota mai”; ed nell’Atharva Veda Samhitâ I.12.1, Agni è descritto come “Un'energia il cui progressione è tripla, (ekam ojas tredhâ vicakrame)”.
La critica passa molto spesso sopra al fatto che questo punto di vista sia sostenuto esplicitamente e ripetu-tamente nel Rig-Veda da non lasciare posto ad alcun equivoco. Un esame completo della formulazione vedica del problema dell'uno e dei molti richiederebbe un esteso studio sull'esemplarismo[11] vedico, ma vogliamo richiamare l'attenzione sull'espressione viŝvam âkam, "molteplicità integrale", del Rig-Veda Samhitâ III.54.8. Tutto quello che ci si propone ora è di riunire alcuni dei più notevoli tra i testi vedici in cui si afferma categoricamente l'identità dell'uno e molti ed aggiungere che anche se nessuna di queste affermazioni esplicite fosse disponibile, la legge che esprimono potrebbe comunque essere indipendentemente dedotta da un'analisi delle funzioni attribuite ai differenti poteri, perché benché queste funzioni siano caratteristiche di divinità particolari, non sono mai interamente peculiari di nessuna di loro[12]. Passaggi molto familiari, spesso rifiutati perché «tardivi», includono (Rig-Veda Samhitâ I.164.46): “I sacerdoti chiamano in molti modi differenti (bahudhî vadanti) Quello che è solo Uno; lo chiamano Agni, Yama, Mîtrâhvarunâ, lo chiamano Indra, Mitra, Varuna, Agni, o dicono che è «l’aquila celeste Garutmân» o (Rig-Veda Samhitâ X.114.5): «I cantori in estasi (viprâû kavaya) concepiscono in molti modi l'aquila che è Uno»; e in X.90.11, dove, dopo che i Primi Sacrificatori hanno diviso il Primo Essere, si fa questa domanda alla maniera brahmōdaya, “Quanti multipli gli pensarono?”[13]. È questa la fine (artham) che Agni teme mentre si trattiene nell’oscurità: che lo si mandi ad abitare in molte sedi, per fortuna nella realtà, nonostante Egli proceda, rimane interiore. Nello stesso modo si esprime Mastro Eckhart, “il Figlio rimane dentro come essenza e procede come persona … la natura divina si manifesta in una relazione di «alterità», altro ma non un altro, perché questa distinzione è razionale, non reale. «Ai Cantori Egli si manifestò come il Sole degli uomini»”[14]. Come in Plotino, V.8.9, “Il sole è l'unico Dio … quale posto può essere nominato che Egli non raggiunga?”. Inoltre, sono altrettanto esplicite le affermazioni che si raccolgono in altri libri. In merito, si dice spesso che Egli ha due forme differenti, secondo il Suo essere di Giorno o di notte, e che questo è «come Egli vuole», (Rig-Veda Samhitâ III.48.4, VII.101.3; cf. X.168.4 e Atharva-Veda Samhitâ VI.72.1). A volte questo concetto è e-spresso in termini come «Ora Egli è sterile, ora genera» Rig-Veda Samhitâ VII.103.3, questa ultima espressione, è la stessa del termine sùh nel Rig-Veda Samhitâ (I.146.5) ed equivale a dire Savitŗ bhavati, «Egli diviene Savitŗ». Cf. Rig-Veda Samhitâ III.55.19 e X.10.5, dove Tvaşţŗ[15] e Savitŗ[16] si identificano per apposizione. Nel Rig-Veda Samhitâ III.20.3 e VIII.93.17, Agni ed Indra sono chiamati polinominalmente bhurîni-nâma = dai molti nomi e puru-nâma = dai numerosi nomi ed in II.1, Agni è invocato con i nomi di quasi tutti i poteri, ci sono inoltre innumerevoli passaggi in cui Indra è una designazione del Sole. Nel Rig-Veda Samhitâ VIII.11.8 è scritto che Agni «deve essere visto in molti posti, o aspetti differenti» [cf. I.79.5 e VI.10.2, Agni purvanîkah]. «benché la Sua somiglianza sia la stessa in molti posti, tuttavia, il Suo divenire è multiplo ed a Lui gli sono dati molti nomi, perché “Come Egli si mostra, così Egli è chiamato” (Rig-Veda Samhitâ V.44.6)[17], un passo del Śatapatha Brâhmana X.5.2.20, è poco più che una parafrasi. Rig-Veda Samhitâ I.146.5, coincide con innumerabili passi sparsi per tutto il Rig-Veda, dove Agni è concorde con Mitra, Varuna e Mâtariŝvân; in IV.42.3, Varuna si autoidentifica con Indra e Tvaşţŗ; analogamente in RV. 3.1-2, Agni è identificato con Mitra, Varuna e con Indra. Questo non è una questione di mera suggestione; i punti di vista particolari propri ai differenti nomi sono accuratamente espressi. [Allo stesso modo, se Agni, come Sole, è il «viso» o la «freccia», (anîkâ) degli dei, Rig-Veda Samhitâ I.115.1, VII.88.2, etc., e contemporaneamente è logicamente detto «dai molti visi» (pûrvanîkah), “questo non fa del Dio eterno qualcosa di reale, ma solo accorda quell’idea al nostro modo di pensare”, Summa Theologica III.35.5C, perché “Gli uomini, nel loro culto sacrificale, hanno imposto su Te, Agni, i molti visi”. I «visi» o «frecce» dell'Agni solare sono in realtà i suoi «raggi», quegli stessi raggi coi quali il Sole Spirituale sostiene l'essere di tutte le cose, ma con cui è occultata la Porta solare, in modo che quello che vuole entrare supplica, quindi, che i raggi siano dispersi. Espresso altrimenti, Agni è l'Albero della Vita (vanaspati) “Gli «altri fuochi« sono i tuoi rami”, Rig-Veda Samhitâ I.59.1,: “Tutti gli altri Agni germogliano da te, oh Agni”; “Tutte queste divinità sono forme di Agni”, Aitareya Brâhmana III.4[18]. In molti casi il verbo bhâ[19], «divenire», come appare nei testi Brâhmana e Nirukta già citati, è impiegato nel Rig-Veda per indicare nello stesso verso il passaggio di un nome o funzione ad un altra. Per esempio, Rig-Veda Samhitâ III.5.4, “Agni diviene (bhavati) Mitra quando è acceso, Mitra il sacerdote; e Varuna diviene Jâtavâdas”; cf. IV. 42.3, “io, Varuna, sono Indra”, e V.3.1-2, “Tu, Agni, sei Varuna e nascendo divieni (bhavasi) Mitra, quando sei acceso in te, oh Figlio della Forza, abitano gli dei Universali; sei Indra per l'adoratore mortale. Per le donzelle sei ArYaman, e come Svadhâvan porti un nome segreto» probabilmente come Trita del passo I.163.3: “Tu sei Trita per l'operazione interna, così…” Nuovamente, Rig-Veda Samhitâ III.29.11, “Come Germe di Titano eleva a Tanûnapât[20], quando nasce è Narasânsa, quando si forma nella Madre diviene Mâtariśvân, il Vento degli Spiriti nel suo corso”. Questo Spirito in realtà è l’Essenza stessa di Varuna ed il soffio di Vâc, un vento la cui forma non si vede ma che è l'Essenza (âtmâ) di tutti gli dei e che si muove come vuole (X.168.4). Ai passaggi precedenti, nei quali si considerano gli effetti diversificati di quello che è realmente un'operazione unica, si può unire quanto esposto nel Rig-Veda Samhitâ VI.47.18, “Egli è la controforma (matrice) di ogni forma, è quella forma di Lui quello che dobbiamo contemplare; Indra, per virtù dei Suoi poteri magici, procede come multiforme”, un passaggio che è in stretta corrispondenza con “la forma unica che è la forma di molte cose differenti” di Mastro Eckhart, parole che riassumono la dottrina dell'esemplarismo scolastico. E mentre in X.5.1 solo Agni è «ŗtupati» (Signore delle Epoche) in Rig-Veda Samhitâ VI.9.5, “I Molteplici Dei, con una mente comune ed una volontà comune, si muovono senza fallo nella stagione unica”, il verso citato sopra corrisponde strettamente a quanto detto nella Summa Theologica III.32, 1 ad 3, dove quello che fa una delle Persone della Trinità si dice è fatto da tutte, “poiché ci sono un'unica natura ed una unica volontà”.
Nel Śatapatha Brâhmana VIII.7.3.10: “Il Sole incorda questi mondi nel suo Spirito come su di un filo”, Bhagavad Gîtâ VII.7, “Tutto questo è incordato in «Me«”, e X.20, “Io sono lo Spirito che ha sede nel cuore di tutti gli esseri”, ripete meramente il pensiero di Rig-Veda Samhitâ I.115.1, “Il Sole è lo Spirito (Âtman) di tutto quello che è in movimento o in riposo”. Nel Rig-Veda Samhitâ X.121.2, Hiranyagarbha (Agni) Prajapati, è chiamato il «datore» dello Spirito (âtmadâ), ed è in questo senso che Agni, in I.149.3, è «di centuplice Essenza» (śatâtmâ). Nel Rig-Veda Samhitâ X.51.7 si invoca ad Agni perché dia la sua «parte» (bhâgam) agli dei; quella è la sua funzione peculiare come sacerdote (purohita) degli dei. Quindi, è sufficientemente chiaro che il Nirukta e la Bŗhad Dēvatâ siano pienamente giustificati nel dire che gli dei partecipano (bhakta) dell'Essenza o espirazione divina; questi testi mantengono perfino la fraseologia dei mantra vedici. Il riferimento alla «partecipazione» ci conduce alla considerazione del Bhaga vedico, posteriormente Bhagavânâ. Bhaga non è un nome personale è piuttosto una designazione generica del potere attivo in uno qualsiasi dei suoi aspetti, mentre il «Libero Donatore» o il «Partecipante» che fa che la sua bhakti partecipi alle sue ricchezze. Queste ricchezze possono essere solo gli aspetti della Sua Essenza perché, certamente, noi non possiamo considerare la divinità come «proprietaria» di un qualcosa di più di quello che Esso stesso è. “Comunicandosi a sé stesso, Egli riempie completamente questi mondi”. Questo ultimo è un testo upanishadico (Maitri Upanişad VI.26), ma il concetto è vedico. In realtà, Bhaga riceve per apposizione il nome di «Dispensatore» (vibhaktŗ) Rig-Veda Samhitâ V.46.6. Bhaga è «partecipazione» o «dispensazione», come nel Rig-Veda Samhitâ II.17.7, diretto ad Indra, “Io ti imploro, oh Bhaga … valutami, tendimi, dammi quella parte (bhâgam) con cui il corpo è elevato)”, dove bhâgam = amŗtasya bhâgam, in I.164.21, cf. anche VIII.99.3, “Dipendendo da Lui, come dal Sole, i Molti (viŝve devam) hanno partecipato di quello che è di Indra”; in una lode diretto ad Agni si dice che i Molti “partecipano della tua divinità”, VII.81.2 è la preghiera all'alba: “Siamo associati nella partecipazione”. Questi passaggi sono indubbiamente sufficienti per chiarire che Bhaga e vibhaktŗ sono il dispensatore o il datore che si dà sé stesso o la sua sostanza; sambhâja il partecipante che partecipa al dono; bhâga, bhakşa, e bhakta la parte che si dà o che si riceve. Benché queste espressioni siano vediche, bhakti, l'atto della distribuzione, o di fare condividere quello che si dà, e bhakta come sinonimo di vibhaktŗ, il donatore, appaiono solo più tardi. Il problema della “origine del movimento bhakti”, che è stata tanto discussa, non sarebbe mai esistito se si fossero mantenute queste interpretazioni nelle traduzioni dei testi posteriori, specialmente quella della Bhagavad Gîtâ. Bhakta, nel Rig-Veda, può essere la parte del «tesoro» ottenuta dal sacrificatore dalla divinità, Rig-Veda Samhitâ IV.1.10, o, inversamente, la parte che il sacrificatore dà o assegna alla divinità, Rig-Veda Samhitâ I.91.1,
Specialmente Agni, in quanto sacerdote sacrificante (hotŗ), “Dà spiritualmente la loro parte dell'oblazione agli dei (bhâgam), Rig-Veda Samhitâ X.51.7 [ Ite missa est!]. In questo ultimo caso il sacrificatore o sacerdote sacrificante è il vibhaktŗ, e la sostituzione del vibhaktŗ vedico con il bhakta non introduce nessuna concezione nuova. Bhakti implica devozione, poiché ogni donazione presuppone amore ma da ciò non consegue che bhakti debba essere tradotto con «amore». È certo che la bhakti-mârga è anche la prêma-mârga, la passiva «Via» dell'Amore, che si distingue del jnâna-mârga, l'attiva «Via» della Gnosi; ma che le espressioni bhakti-mârga e prēma-mârga abbiano un riferimento comune non le fa sinonimiche, le espressioni sono «sinonimiche» solo quando si riferiscono alla stessa cosa sotto lo stesso aspetto. Non si può negare che i pitarah, in Rig-Veda Samhitâ I.91.1, erano bhakta in questo ultimo senso, o che la loro fosse una bhakti-mârga. Noi dovremmo tradurre bhakti-mârga per «Via» della Consacrazione o «Via» della Devozione piuttosto che con «Via dell'Amore». È certo, ugualmente, che «partecipazione» implica «amore», e viceversa, dato che un amore che non partecipa alla cosa amata non è assolutamente "amore" bensì piuttosto «desiderio». Tuttavia, l'Amore e la partecipazione sono concezioni che si differenziano in modo logico e ognuna delle quali gioca un suo proprio ruolo nella definizione dell'atto devozionale; quando le due espressioni si confondono in una traduzione equivoca, non solo si perdono queste sfumature di significato ma contemporaneamente si nasconde l'evidenza dalla continuità del pensiero vedico col pensiero posteriore, evocando così dei problemi irreali. Vogliamo dunque esprimere il nostro plenum accordo coi punti di vista di Franklin Edgerton che concludeva che «tutto ciò che è esposto, almeno nelle Upanişad più antiche, quasi senza eccezione, non è nuovo nelle Upanişad ma è già stato enunciato, o almeno molto chiaramente prefigurato, nei testi vedici più antichi»[21], e con quelli di Maurice Bloomfield che argomentava “che mantra e Brâhmana non sono in assoluto distinzioni cronologiche; ma rappresentano due modi di attività letteraria e due modi di linguaggio letterario che sono ampiamente contemporanei … Entrambe le forme esistettero giunte, per quanto sappiamo, dai tempi più antichi; solo che la redazione delle collezioni di mantra sembrano avere preceduto, in complesso, la redazione dei Brâhmana … Gli inni del Rig-Veda, come quelli degli altri tre Veda, furono liturgici dall’inizio stesso. Questo significa che essi formano solo un frammento … i testi ed i commenti posteriori possono contenere la spiegazione corretta”[22]; anche Bloomfield, con riferimento alle parti più antiche del Rig-Veda, lo chiama "l'ultima stesura, con un lungo e intricato passato oltre a sé, di un'attività letteraria di grande ed indefinita estensione»[23]. Siamo di accordo con Alfred Jeremías, quando dice nella Prefazione a suo Altorientalische Geisteskultur (Berlino) 1929,: «Die Menschenheitsbildung ist ein einheitliches Ganzes, und in den verschiedenen Kulturen findet man die Dialekte der einen Geistessprache»; con Carl Anders Scharbau, Die Idei der Sch.pfung in der vedischen Literatur Stuttgart, 1932, “die Tiefe und Grösse der theologischen Erkenntnis da' Rigvedas Keine-swegs hinter der da' Vedanta zurücksteht”[24]; e finalmente con Sâyana quando sostiene che nessuno dei riferimenti vedici è storico. È proprio il fatto che gli incantesimi (mantra) vedici sono liturgici a rendere irrazionale sperare in una loro esposizione sistematica in una filosofia stabilita; se consideriamo i mantra in se stessi, è come se cercassimo di dedurre la filosofia scolastica partendo solo dal libro dalla Messa. Non è che questo sia impossibile, ma saremmo accusati di leggere nella Messa significati che potrebbero non essere stati presenti nella mentalità prevalente nella «Età Oscura»; saremmo accusati di cedere, come dice il Professore Keith che non può essere accusato di una tale debolezza, al «nostro desiderio naturale … di trovare la ragione dominare in un'età barbara». Tuttavia, tanto i mantra come gli inni latini sono minuziosamente elaborati, il loro sim-bolismo opera con un'esattezza matematica, Emile Mâle parla del simbolismo cristiano come di un "calcolo" e noi non possiamo supporre che i suoi autori non comprendessero le loro stesse parole; siamo noi che non comprendiamo, se insistiamo nel leggere l’algebra come se fosse aritmetica. Tutto quello che possiamo imparare della storia della letteratura è che le dottrine che si danno per scontate nei mantra non furono pubblicate, probabilmente, fino a quando un certo cambiamento linguistico non avesse già avuto luogo; possiamo trovare alcune parole nuove, ma non troveremo idee nuove. Siamo noi i difettosi se non possiamo capire che MitrâVaruna dei quali il secondo [Varuna] è il fratello immortale del «mortale» [Mitra], non sono altro che quell’apara-brahman e para-brahman che le Upanişad chiamano rispettivamente il mortale e l’immortale. La stessa cosa relativamente alle liturgie babilonesi, dove è probabilmente esistita anche una “letteratura sapienziale … non formulata per essere ripetuta nei templi”[25], come si deve accettare che esisteva il concetto di un “unico Dio… [i cui] differenti aspetti non venivano considerati come divinità separate nel pantheon sumero-accadico”[26]. Lo stesso nel caso delle liturgie vediche, dove l'apparizione di concetti di un “Uno che è altrettanto vivo e non-vivo” (Rig-Veda Samhitâ X.129.2) e di Agni come “essere e non-essere in uno” (sadasat) Rig-Veda Samhitâ X.5.7, non può definirsi sorprendente. Noi non vediamo, allora, nei Brâhmana, Upanişad, Bhagavad Gîtâ e perfino nel Buddismo, altro che una ultimo adattamento e pubblicazione di quello che si conosceva da sempre, sia che fosse insegnato ai già iniziati o fuori in quei circoli la cui esistenza è implicita per la forma brahmōdaya di molti inni; e da Brâhmini come quello che, nel Rig-Veda Samhitâ X.71.11, viene menzionato mentre espone la scienza della genesi e che possiamo credere che fosse, come Agni stesso, un «Conoscitore delle generazioni di tutte le cose» Rig-Veda Samhitâ VI.15.13; cf. IV.27.1.
*Tratto da: https://www.facebook.com/notes/ananda-k-coomaraswamy/monoteismo-vedico/328384360512330
Questo articolo fu pubblicato per la prima volta sul dr. S. Krishnaswami aiyangar commemoration volume (Madras) 1936 e fu riproposto dal Journal of Indian History, xv, 1936. Qui si offre una seconda versione, con successive revisioni ed un'addenda dell'autore.
*Tratto da: https://www.facebook.com/notes/ananda-k-coomaraswamy/monoteismo-vedico/328384360512330
Questo articolo fu pubblicato per la prima volta sul dr. S. Krishnaswami aiyangar commemoration volume (Madras) 1936 e fu riproposto dal Journal of Indian History, xv, 1936. Qui si offre una seconda versione, con successive revisioni ed un'addenda dell'autore.
[1] Yaska è stato un grammatico sanscrito antecedente a Panini (che è del 4° secolo aC), si presuppone che sia stato attivo nel 5 ° o 6° secolo a C. È l'autore del Nirukta, trattato sulla tecnica dell’etimologia, categoria lessicale e semantica delle parole. Si pensa che sia stato allievo di Śâkahâyana, un vecchio e grammatico, espositore dei Veda, menzionato nel suo testo.
[2] In realtà, è Viśvakarmâ, l'Artefice di Tutte le Cose, che dà i suoi “nomi”, cioè, suo essere individuale, agli dei e quindi è chiamato devânâm nâmadhâĥ, X.82.3.
→ ogni attività è solamente il nome «di un atto di Brahma», Brhadâraņyaka Upanişad I.4.7;
→ «tutte le attività sorgono dallo Spirito». idem I.6.3;
→ «ogni azione germoglia da Brahma», Bhagavad Gîtâ III.5;
Lo stesso concetto viene esposto, con le stesse parole,anche in Mastro Eckhart, ed. Evans, II, 175.
[3] Quasi verbalmente identico con Jan Van Ruysbroeck, “è dovuto alla Sua incomprensibile nobiltà e sublimità che noi non possiamo nominarLo abilmente né esprimerLo interamente, così Gli diamo tutti questi nomi” Adornment of the Spiritual Marriage, XXV. “Perché considero impossibile che Quello che è l'artefice dell'universo in tutta la sua grandezza, il Padre o Sigore di tutte le cose, possa essere conosciuto con un unico nome; sostengo che Egli è senza nome, o piuttosto che tutti i nomi siano i Suoi nomi. Perché Egli, nella sua unità, è tutte le cose; in modo che noi dobbiamo chiamare tutte le cose con il loro nome, oppure chiamarlo con il nome di tutte le cose”, Hermes (Asclepius III.20A).
[4] “Il Vento è onnipresente” [Jaiminîya Upanişad Brâhmaņa IV.12.10]; “e così, come dice Krishna, non c'è nessun fine per le mie presenze divine” [Bhagavad Gîtâ X.40]. Sono queste “presenze” o “poteri” che vengono chiamati con molti nomi.
[5] Kavayah, reso in traduzione con saggi, formatori, cantori; sono i Ŗsi “cantori ispirati” o “cantori estatici”. I Veda fu-rono rivelati a loro, che la “ascoltarono” per trasmetterli agli uomini Gli Ŗsi non sono deva né asura ma non corrispon-dono nemmeno ad esseri umani comuni essendo alcuni di loro di discendenza divina, la loro era un'era mitica e pri-mordiale, anzi i sette Ŗsi partecipano in qualche modo alla creazione del mondo.
[6] Gli inni dei Veda, “ascoltati” dai Ŗsi all’atto della creazione del mondo e nell’epoca primordiale.
[7] Cf. PB XX.15.2-2 dove le sfere di azione di Agni, Vâyu e Âditya sono dette sue “parti” o “pezzi” (bhaktiĥ).
[8] Un'ontologia di questo tipo non può propriamente essere definita panteista o monista. Questo sarebbe legittimo solo se, quando si è analizzato l'essenza nei suoi multipli aspetti, non rimanesse nulla, al contrario, tutte le scritture indù, incominciando dal Rig-Veda, concordano nell'affermare che quello che resta del Sé eccede la totalità di quello che serve per riempire questi mondi, e che questa fonte rimane inalterata da tutto quello che produce o riassorbe dal principio alla fine di un eone. Il punto di vista che tutta questa sia una teofania non significa che si veda tutto del Sé; al contrario, per così dire, «solamente una parte» della sua abbondanza, basta per riempire i mondi di tempo e spazio, per lontano che possano estendersi, per molto che possano durare [Rig-Veda Samhitâ X.90.3, cf. Maitri Upanişad VI.35, Bhagavad Gîtâ X.42]. Cf. Whitby nella prefazione alla versione inglese di René Guénon, L'Uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta (Parigi) 1925: “È da sperare che questo libro dia il colpo di grazia al pregiudizio assurdo e inspiegabile che persistentemente sottovaluta la dottrina vedica in merito al suo supposto «panteismo». “Questa insistenza…”, e Lacombe, nella prefazione di René Grousset, Les Philosophies indiennes (Parigi) 1931: “È necessario concludere, a nostro giudizio che il Vedanta non è panteista, e neanche monista, soprattutto nel senso che queste parole hanno per noi. Si nomina da sé stesso advaita, non-dualista. La sua preoccupazione di assicurare la trascendenza del Brahman non meno che la sua immanenza, di mantenere l'interiorità della sua Gloria, è manifesta. Posizione irriducibile…”; e Coomaraswamy, Una Nuovo Aproximaciòn ai Veda: Una Prova di Traducciòn ed Exégesis, 1933, p. 42. Si potrebbe aggiungere che si può fare un'obiezione simile anche riguardo all’uso della parola «Monoteismo» nel titolo di questo articolo. Tad ekam nella Rg Vêda Samhitâ X.129.2, è traducibile più come «Identità Suprema» che non «Dio unico». È solo in quanto «unico Dio», con tanti aspetti quanti punti di vista dai cui essere considerato, che «Quell’Uno» diviene intelligibile; ma quello che Quell’Uno è in sé stesso lo si può solo esprimere in termini di negazione, per esempio, «senza dualità». Da Erwin Goodenough, An Introduction to Philo Judaeus (New Haven) 1940, p. 105.
[9] «Si divide in Sé stesso (Âtmanam vibhajya) per riempire questi mondi», Maitri Upanişad VI.26, etc., Egli rimane «indiviso» in queste divisioni, avibhakta vibhakteşu, Bhagavad Gîtâ XVIII.20, cf. XIII.16, “incommensurabile, cioè, in-materiale, in mezzo alla cosa misurata” (vimite’mita) Atharva Veda Samhitâ X.7.39; amâtra, Brihadâraņyaka Upanişad III.8.8, etc.,; gli dei immanenti, i Respiri, prâηâh sono «misurati» dal Fuoco, (tejo-mâtrâh Bŗhadâraηyaka Upanişad IV.4.1),) cioè, “del Fuoco sempiterno, che alle volte si accende ed in altre si spegne”, Eraclito, Fr.30. “In altre parole, in Lui non ci sono molte esistenze bensì solo un'unica esistenza, e suoi molti nomi ed attributi sono meramente i suoi modi ed aspetti” - Jâmî Law ‘ih XV.
[10] Per esempio, Aitareya Brâhmana III,4: “per quanto uno ricorre, upasâte a Lui come a chi ha di farsi un amico (Mitra-kŗttyaiva), quello è la sua forma come l'Amico (Mitra)». Nel KailâYamalai, Ŝiva è invocato come “Tu che prendi le forme immaginate dai tuoi adoratori”, vedere Ceylon National Review, Gennaio 1907, p. 285.]
[11] Esemplarismo = Concezione metafisica che assume una realtà ideale come modello del mondo sensibile. Nato da un ragionamento analogico, l'esemplarismo trova una sua prima espressione in Platone con la dottrina del demiurgo, che plasma la materia guardando i modelli eterni delle Idee; Plotino rimase sulla stessa linea, sostituendo però al demiurgo l'Anima universale. (vedere Coomaraswamy, Esemplarismo Vedico, capitolo successivo)
[12] Max Müller inventò il termine «enoteismo» per descrivere il metodo che egli immaginò come peculiare dei Veda. Il cristianesimo, quindi, sarebbe «enoteista» nel misura in cui afferma che quello pertiene ad una dalle Persone pertiene a tutte, e viceversa. Un «enoteismo» pienamente sviluppato è più caratteristico dello Stoicismo e di Filone, cf. Émile Bréhier, Les Idées philosophiques et religieuses di Philon d’Alexandrie (Parigi) 1925, pp. 112, 113: “La concezione di dei mirionimi (con mille nomi), di un dio unico alle cui differenti forme si dirigevano le preghiere degli iniziati era familiare allo stoicismo … come negli inni orfici, l'onnipotenza di ogni Dio non ostacola la sua gerarchia, e così pure qui [cioè, secondo Filone] gli esseri sono con molta frequenza classificati gerarchicamente come se si trattasse di esseri distinti.” [E Plotino V.8.9, “Egli e tutto ha un'unica esistenza, benché ognuno sia anche un aspetto distinto. È una distinzione ma è un'identità completa; non c'è tuttavia nessuna partecipazione tra una parte ed un'altra. Né ognuna di queste totalità divine è un potere frammentato … la realtà divina è un'unica onnipotenza”. Il secondo passaggio avrebbe potuto essere scritto sulla Trinità Cristiana]. Perciò, qui anche ci troviamo con quell'apparenza superficiale di politeismo con cui l'apologista di qualche altra religione di quella sotto esame risulta tanto convenien-temente ingannato, il musulmano per esempio quando chiama”politeista” la dottrina cristiana della Trinità. Cf. i Ŗşi
[13] Analogamente a Vâc, gli dei «dividono»” la Mater Magna e le fanno occupare molte stazioni, Rig-Veda Saṁhitâ X.125.3. In tutti questi passaggi è evidente come l'unità divina sia essenziale e la molteplicità concettuale.
[14] [Rig-Veda Saṁhitâ 146.4] come in San Giovanni 1:4, «et vita erat et lux hominum». Il Sole Spirituale del Rig-Veda Samhitâ I.115.1, etc., è la “Luce delle luci, (jyotiśâm jyotis) Rig-Veda Samhitâ I.113.1, Bŗhadâranyaka Upaniśad IV.4.16, etc.,; “La brillante Luce delle luci è quella che i conoscitori dello Spirito, atmâ - vidaĥ, conoscono” (Mundaka Upaniśad II.2.10)] il «Padre» delle luci (San Giacomo I:17).
[15] Tvastar, nei Veda è il creatore per arte, appellativo a volte dato a Hiranyagharbha, Prajapathy o a Brahma, menzionato anche nei testi sui Mitanni è considerato una divinità proto-indoiraniana, come appellativo è anche riferito a Rathakâra, il costruttore del carro del sole, è una divinità solare.
[16] Savitŗ letteralmente il termine significa stimolatore, agitatore; Nella religione vedica , Savitŗ o Savita (nominativo singolare) è una divinità solare e uno dei 12 Aditya, i raggi del sole, discendenti di Aditi, la prima . Il suo nome in sanscrito vedico «girante, agitatore, vivificatore» lo connota. Savitŗ è stata celebrata in undici canti tutto il Rig-Veda e in alcune parti di molti altri, il suo nome è citato circa 170 volte in totale. Nel moderno induismo, Savitŗ non è diretta-mente adorato, tuttavia il sacro mantra Gayatri è dedicato a questo Dio.
[17] come nella Summa Theologica I.13.1 ad 3, «Pronomina vero demonstrativa dicuntur de Deo, secundum quod fa-ciunt demonstrationem ad id quod intelligitur, non ad id quod sentitur. Secundum enim quod a nobis intelligitur, secundum hoc sub demonstrationem cadit».
[18] Ad esempio, Atharva Veda Samhitâ XIII.3.13, “Questo Agni diviene Varuna di pomeriggio; l’indomani è Mitra”, etc.; Jaimin´ya Upanisad Brâhmana III.21.1-2, dove il Vento, Vâyu, soffia dai cinque quadranti - est, sud, ovest, nord e dall’alto - rispettivamente come Indra, śâna, Varuna , Soma e Prajâpati; Jaiminîya Upanişad Brâhmana IV.5.1, dove Agni, «il messaggero di Varuna», diviene Savitŗ all'alba, Indra Vaikunţha a mezzogiorno, Yama di sera; Jâtaka IV.137, “Sujampati, nel cielo conclamato; come Maghavâ, sulla terra si nomina”.
[19] √bha = divenire ma anche «essere». Infatti le forme verbali irregolari del verbo essere in latino e quindi anche in italiano, come «io fui, tu fosti, ecc...» derivano da questa radice. È normale che la labiale aspirata, Ph o Bh, nel tempo si trasaformi nella fricativa F.
[20] Il nome Tanûnapât, «Nipote di Sé stesso», formula la dottrina ben conosciuta che «Agni è acceso da Agni», Rig-Veda Samhitâ I.126, VIII.43.14, secondo la quale, nel rituale, il nuovo Gârhapatya deve essere acceso dal vecchio. Cf. Summa Theologica III.32A ad I, “la presa stessa, cioè, l'assunzione della natura umana, la presa di nascita, si attribuisce al Figlio”, cioè, è l'atto proprio del Figlio tanto quanto quello delle altre Persone.
[21] Journal of the American Orientale Society, XXXVI (1917), p. 197.
[22] Journal of the American Orientale Society, XV, 1893, p. 144.
[23] Journal of the American Orientale Society, XXIX (1908), p. 288.
[24] P. 168, nota 166.
[25] Stephen Herbert Langdon, Tammuz and Ishtar (Oxford) 1914, p. 11.
[26] Henri Frankfort, Iraq Excavations of the Orientale Institute, 1932/1933 (Chicago) 1934, I, p. 47.