La crisi del mondo moderno
Cap. 5 - L’individualismo
Ciò che noi intendiamo per «individualismo» è la negazione di ogni principio superiore all’individualità, e, di conseguenza, la riduzione della civiltà, in tutti i domini, ai soli elementi puramente umani; in fondo, si tratta dunque della stessa cosa che, al tempo del Rinascimento, venne designata col nome di «umanesimo», come abbiamo detto in precedenza, e anche di ciò che caratterizza propriamente quello che noi continuiamo a chiamare il «punto di vista profano».
Si tratta, insomma, di una sola e medesima cosa designata con dei nomi diversi, ed abbiamo detto anche che questo spirito «profano» si confonde con lo spirito antitradizionale, nel quale si riassumono tutte le tendenze specificamente moderne.
Indubbiamente, tale spirito non è completamente nuovo: già in altre epoche vi sono state delle manifestazioni più o meno accentuate di esso, ma sempre limitate e viste come aberranti, e mai che si siano estese a tutto l’insieme di una civiltà come è accaduto in Occidente nel corso di questi ultimi secoli. Ciò che non s’era mai visto fino ad oggi, è una civiltà edificata interamente su qualcosa di puramente negativo, su ciò che si potrebbe chiamare un’assenza di principio; ed è esattamente questo che conferisce al mondo moderno il suo carattere anormale, ciò che ne fa una sorta di mostruosità, spiegabile solamente se la si considera come corrispondente alla fine di un periodo ciclico, secondo quanto abbiamo detto all’inizio. Dunque, è proprio l’individualismo, come lo abbiamo appena descritto, la causa determinante dell’attuale decadenza dell’Occidente, per il fatto stesso che è, in qualche modo, l’agente che muove lo sviluppo esclusivo delle possibilità più infime dell’umanità, quelle la cui espansione non richiede l’intervento di alcun elemento sopra-umano e che possono svilupparsi completamente solo in assenza di un tale elemento, poiché si trovano all’estremo opposto di ogni spiritualità e di ogni vera intellettualità.
L’individualismo
implica, innanzi tutto, la negazione dell’intuizione intellettuale, in quanto
questa è essenzialmente una facoltà sopra-individuale, e la negazione
dell’ordine di conoscenza che è il dominio proprio di questa intuizione, e cioè
della metafisica intesa nel suo vero significato. È questo il motivo per cui
tutto ciò che i filosofi moderni designano col nome di metafisica, quando
ammettono che vi sia qualcosa da chiamare con questo nome, non ha assolutamente
niente in comune con la metafisica vera: si tratta invece di costruzioni
razionali o di ipotesi immaginarie, dunque di concezioni tutte individuali, la
maggior parte delle quali peraltro si riferisce semplicemente al dominio
«fisico», cioè a dire alla natura. Perfino quando si incontra qualche questione
che potrebbe essere collegata effettivamente all’ordine metafisico, il modo con
cui essa viene considerata e trattata la riduce sempre a della
«pseudo-metafisica» e, del resto, ne rende impossibile ogni reale e valida
soluzione; sembra anche che, per i filosofi, la maggiore preoccupazione sia
porre dei «problemi» , foss’anche artificiali ed illusori, piuttosto che risolverli,
il che costituisce uno degli aspetti del bisogno disordinato della ricerca per
la ricerca, vale a dire dell’agitazione più vana nell’ordine mentale,
esattamente come nell’ordine corporeo. Per costoro, si tratta anche di legare
il loro nome ad un «sistema», e cioè ad un insieme di teorie strettamente
limitate e circoscritte, che stia bene a loro stessi e che non sia altro che
opera loro; da qui il desiderio di essere originali ad ogni costo, anche a
costo di sacrificarvi la verità; per la reputazione di un filosofo è meglio
inventare un nuovo errore che ripetere una verità già espressa da altri.
Peraltro, questa forma di individualismo, a cui si devono tanti «sistemi»
contraddittori, quando addirittura non lo sono in se stessi, si riscontra anche
presso gli scienziati e gli artisti moderni; ma forse è nei filosofi che si può
distinguere più chiaramente l’anarchia intellettuale che ne è l’inevitabile
conseguenza.
In una civiltà
tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà
di un’idea, e, in ogni caso, se lo facesse, per ciò stesso la priverebbe di
ogni credito e di ogni autorità, poiché la ridurrebbe a nient’altro che ad una
sorta di fantasia senza alcuna portata reale: se un’idea è vera, essa
appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla, se
invece è falsa non è certo il caso di gloriarsi per averla inventata. Un’idea
vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito
umano, essa esiste indipendentemente da noi e a noi spetta solo conoscerla; al
di fuori di una tale conoscenza non v’è che l’errore; ma, in fondo, davvero i
moderni si preoccupano della verità e sanno ancora cos’è? Anche qui, le parole
hanno perduto il loro significato, poiché certuni, come i «pragmatisti»
contemporanei, giungono al punto di dare abusivamente il nome di «verità» a ciò
che è molto semplicemente l’utilità pratica, vale a dire a qualcosa che è
completamente estranea all’ordine intellettuale; si tratta del logico risultato
della deviazione moderna: della negazione stessa della verità e perfino
dell’intelligenza, di cui essa è l’oggetto proprio. Ma non anticipiamo altro, e
su questo punto ci limiteremo a far notare ancora che il genere di
individualismo in questione è la fonte dell’illusione relativa al ruolo dei
«grandi uomini» o cosiddetti tali; il «genio», inteso nel senso «profano», è
ben poca cosa in realtà ed egli non potrebbe supplire in alcun modo alla
mancanza della vera conoscenza.
Dal momento che
abbiamo parlato di filosofia, segnaliamo ancora, senza addentrarci nei
particolari, alcune conseguenze dell’individualismo in tale dominio: a causa
della negazione dell’intuizione intellettuale, la prima di tutte consistette
nel porre la ragione al di sopra di tutto, nel fare di questa facoltà,
puramente umana e relativa, la parte superiore dell’intelligenza, o addirittura
nel ridurvi interamente quest’ultima; è in questo che consiste il
«razionalismo», il cui vero fondatore fu Cartesio. D’altronde, questa
limitazione dell’intelligenza non fu che una prima tappa; la stessa ragione non
doveva tardare ad essere abbassata sempre più ad un ruolo soprattutto pratico,
via via che le applicazioni prendevano la mano alle scienze che ancora potevano
avere un certo carattere speculativo; e già lo stesso Cartesio, in fondo, era
molto più preoccupato di queste applicazioni pratiche che della scienza pura.
Ma non è tutto: l’individualismo porta inevitabilmente con sé il «naturalismo»,
poiché tutto ciò che è al di là della natura è, per ciò stesso, fuori dalla
portata dell’individuo come tale; dunque, «naturalismo» o negazione della
metafisica non sono altro che una sola e medesima cosa, e una volta
disconosciuta l’intuizione intellettuale non v’è più alcuna possibile
metafisica; ma, mentre alcuni si ostinavano tuttavia a costruire una qualunque
«pseudo-metafisica», altri riconoscevano più francamente questa impossibilità:
ed ecco allora il «relativismo» in tutte le sue forme, si tratti del
«criticismo» di Kant o del «positivismo» di Comte; d’altronde, dal momento che
la ragione è essa stessa interamente relativa e può applicarsi validamente solo
ad un dominio parimenti relativo, è esatto dire che il «relativismo» è il solo
risultato logico del «razionalismo». Del resto, quest’ultimo doveva giungere,
per questo stesso motivo, fino alla distruzione di se stesso: «natura» e
«divenire», come abbiamo detto precedentemente, in realtà sono sinonimi;
dunque, un «naturalismo» coerente con se stesso non può essere che una di
quelle «filosofie del divenire» di cui abbiamo già parlato ed il cui tipo
specificamente moderno è l’«evoluzionismo»; ed è proprio questo che doveva
infine rivoltarsi contro il «razionalismo», rimproverando alla ragione di non
potersi applicare adeguatamente a ciò che è solo cambiamento e pura molteplicità,
e di non poter contenere nei suoi concetti l’indefinita complessità delle cose
sensibili. Tale fu infatti la posizione assunta da quella forma
dell’«evoluzionismo» che è l’«intuizionismo» bergsoniano, il quale, ben inteso,
non è meno individualista ed antimetafisico del «razionalismo» e, pur
criticando giustamente quest’ultimo, cade ancora più in basso facendo appello
ad una facoltà propriamente infra-razionale, ad una intuizione sensibile assai
mal definita peraltro e più o meno confusa con l’immaginazione, l’istinto ed il
sentimento. La cosa più significativa è che in questo caso non è neanche più
questione di «verità», ma solo di realtà, ridotta esclusivamente al solo ordine
sensibile e concepita come qualcosa di essenzialmente mobile ed instabile; e
con siffatte teorie l’intelligenza è veramente ridotta alla sua parte più
bassa, mentre la stessa ragione viene ammessa solo in quanto si applica a
plasmare la materia per degli usi industriali. Dopo di che restava da fare un
solo passo: negare totalmente l’intelligenza e la conoscenza e sostituire
l’«utilità» alla « verità» ; ed ecco allora il «pragmatismo», al quale abbiamo
accennato prima: con esso non siamo neanche più nell’umano puro e semplice,
come col «razionalismo», ma siamo veramente nell’infra-umano, con quell’appello
al «subcosciente» che segna l’inversione totale di ogni normale gerarchia.
Ecco, per grandi linee, la strada che doveva seguire, e che ha effettivamente
seguito, la filosofia «profana» in balia di se stessa, quella filosofia che ha
preteso limitare ogni conoscenza entro i limiti del proprio orizzonte; fintanto
che esisteva una conoscenza superiore non era possibile che accadesse nulla di
simile, poiché la filosofia era tenuta almeno a rispettare ciò che ignorava e
che non poteva negare; ma quando questa conoscenza superiore spari, la sua
negazione, corrispondente ad uno stato di fatto, venne ben presto elevata a
teoria, ed è da lì che ha preso le mosse tutta la filosofia moderna.
Ma abbiamo parlato
fin troppo della filosofia, alla quale non è il caso di attribuire
un’importanza eccessiva, quale che sia il posto che essa sembra occupare nel
mondo moderno; dal punto di vista in cui ci poniamo, essa è soprattutto
interessante per il fatto che, in una forma la più chiaramente definita possibile,
esprime le tendenze di questo o quel momento, molto più di quanto le crei
veramente; e se è possibile dire che essa le dirige, fino ad un certo punto,
ciò è vero solo in maniera secondaria e in un secondo momento.
È certo che tutta
la filosofia moderna ha origine con Cartesio, ma l’influenza che questi
esercitò all’inizio sulla sua epoca e in seguito su quelle successive,
influenza che non si è limitata alla sola filosofia, non sarebbe stata
possibile se le sue stesse concezioni non avessero corrisposto a delle tendenze
preesistenti, le quali in definitiva erano quelle della generalità dei suoi
contemporanei; lo spirito moderno si è riconosciuto nel cartesianesimo e, per
suo tramite, ha preso coscienza di sé in maniera più chiara di quanto fosse accaduto
fino ad allora. D’altronde, in qualsivoglia dominio, un movimento così
apparente come è stato il cartesianesimo in relazione alla filosofia è sempre
una risultante piuttosto che un vero punto di partenza; non si tratta di
qualcosa di spontaneo, ma del prodotto di tutto un lavoro latente e diffuso; se
un uomo come Cartesio è particolarmente rappresentativo della deviazione
moderna, se si può dire che da un certo punto di vista egli la incarna in
qualche modo, certo è che egli non è il solo né il primo responsabile, ed
occorrerebbe riandare molto più indietro nel tempo per trovare le radici di una
tale deviazione. Del pari, il Rinascimento e la Riforma, considerate molto
spesso come le prime grandi manifestazioni dello spirito moderno, portarono a
compimento la rottura con la tradizione molto più di quanto la provocarono; per
noi, l’inizio di tale rottura risale al XIV secolo, ed è a questa data, e non uno
o due secoli dopo, che in realtà occorre far cominciare i tempi moderni.
Su questa rottura
con la tradizione dobbiamo ancora soffermarci, poiché è da essa che è nato il
mondo moderno, i cui caratteri specifici potrebbero essere riassunti in uno
solo: l’opposizione allo spirito tradizionale; e la negazione della tradizione
è sempre individualismo. Del resto, ciò è in perfetto accordo con quanto
precede, poiché, come abbiamo già spiegato, a principio di ogni civiltà
tradizionale si trovano l’intuizione intellettuale e la dottrina metafisica
pura; e nel momento in cui si nega il principio, si negano anche tutte le sue
conseguenze, almeno implicitamente, mentre tutto l’insieme di ciò che merita
veramente il nome di tradizione, per ciò stesso si ritrova distrutto. Da questo
punto di vista, abbiamo già detto cos’è accaduto per le scienze, quindi non ci
ripeteremo, e considereremo adesso un altro aspetto della questione, in cui le
manifestazioni dello spirito antitradizionale sono forse ancora più
immediatamente visibili, dal momento che si tratta di cambiamenti che hanno
interessato direttamente la stessa massa occidentale. In effetti, le «scienze
tradizionali» del Medio Evo erano riservate ad un’élite più o meno ristretta,
ed alcune di esse erano perfino appannaggio esclusivo di scuole molto chiuse,
tanto da costituire un «esoterismo» nel senso più ristretto del termine; ma,
per altro verso, nella tradizione vi era qualcosa di comune a tutti
indistintamente, ed è di questa parte esteriore che intendiamo parlare adesso.
Esteriormente, la tradizione occidentale aveva allora una forma specificamente
religiosa, rappresentata dal Cattolicesimo, ed è dunque al dominio religioso
che dobbiamo guardare per considerare la rivolta contro lo spirito
tradizionale, rivolta che, quando assunse una forma definita, venne chiamata
Protestantesimo; ed è facile rendersi conto che si trattò proprio di una
manifestazione dell’individualismo, al punto tale che si potrebbe dire che non
era nient’altro che lo stesso individualismo considerato nella sua applicazione
alla religione. Ciò che caratterizza il Protestantesimo, come ciò che caratterizza
il mondo moderno, non è che una negazione, quella negazione dei principi che è
l’essenza stessa dell’individualismo; ed anche in questo caso ci si trova al
cospetto di uno degli esempi più evidenti dello stato di anarchia e di
dissoluzione che ne è la conseguenza.
Chi dice
individualismo dice necessariamente rifiuto di ammettere un’autorità superiore
all’individuo, ed anche una facoltà di conoscenza superiore alla ragione
individuale: le due cose sono inseparabili. Di conseguenza, lo spirito moderno
doveva rifiutare ogni autorità spirituale, nel vero senso della parola, e cioè
ogni autorità che ha la sua fonte nell’ordine sopra-umano; e al tempo stesso
doveva rigettare ogni organizzazione tradizionale, la quale si basa
essenzialmente su tale autorità, quale che fosse peraltro la forma da essa
rivestita, forma che naturalmente differisce a seconda delle diverse civiltà.
Ed in effetti fu questo che accadde: all’autorità dell’organizzazione
qualificata per interpretare legittimamente la tradizione religiosa
dell’Occidente, il Protestantesimo pretese sostituire ciò che chiamò il «libero
esame», vale a dire un’interpretazione lasciata all’arbitrio di chiunque,
perfino degli ignoranti e degli incompetenti, e fondata unicamente
sull’esercizio della ragione umana. Si ebbe quindi, nel dominio religioso,
l’equivalente di ciò che doveva essere il «razionalismo» nell’ambito
filosofico: una porta aperta a tutte le discussioni, a tutte le divergenze, a
tutte le deviazioni; e il risultato fu quello che doveva essere: la dispersione
in una moltitudine sempre crescente di sette, di cui ciascuna rappresentava
solo l’opinione particolare di alcuni individui. E dal momento che in simili
condizioni non era possibile intendersi sulla dottrina, ecco che questa passò
ben presto in secondo piano, e fu l’aspetto secondario della religione che
venne ad occupare il primo posto: ci riferiamo alla morale; da qui la
degenerazione in «moralismo», così evidente nel Protestantesimo attuale. Si è
trattato di un fenomeno parallelo a quello che abbiamo segnalato nei confronti
della filosofia: la dissoluzione dottrinale, la sparizione degli elementi
intellettuali della religione; fattori che dovevano condurre ad una conseguenza
inevitabile: partendo dal «razionalismo» si doveva cadere nel «sentimentalismo»,
ed è nei paesi anglosassoni che si possono trovare gli esempi più eclatanti.
Insomma, non si trattò più di religione, foss’anche sminuita e deformata, ma
semplicemente di «religiosità», vale a dire di vaghe aspirazioni sentimentali
che non si giustificano con alcuna conoscenza reale; ed a quest’ultimo stadio
corrispondono teorie come quelle di William James, il quale si spinge fino a
vedere nel «subcosciente» il mezzo con cui l’uomo può entrare in comunicazione
col divino. Qui, gli ultimi prodotti della decadenza religiosa si fondono con
quelli della decadenza filosofica: l’«esperienza religiosa» si aggrega al
«pragmatismo», in nome del quale l’idea di un Dio limitato si caldeggia come
più vantaggiosa rispetto a quella di un Dio infinito, in quanto che si possono
provare per lui dei sentimenti paragonabili a quelli che si provano nei
confronti di un uomo superiore; al tempo stesso, con l’appello al
«subcosciente», si finisce col riunirsi allo spiritismo ed a tutte le
«pseudo-religioni» caratteristiche della nostra epoca, che abbiamo preso in
esame in altri nostri lavori[1].
Per altro verso, la morale protestante, eliminando sempre più la base
dottrinale, finisce col degenerare in ciò che si chiama la «morale laica», la
quale conta fra i suoi sostenitori i rappresentanti di tutte le varietà del
«Protestantesimo liberale», nonché tutti gli avversari dichiarati di ogni idea
religiosa; in fondo, negli uni e negli altri prevalgono le stesse tendenze, la
sola differenza è che non tutti si spingono lontano alla stessa maniera nello
sviluppo logico di tutto ciò che vi si trova implicato.
Ora, dal momento
che la religione è propriamente una forma della tradizione, ne consegue
effettivamente che lo spirito antitradizionale non può essere che
antireligioso: esso incomincia con lo snaturare la religione e, non appena può,
finisce col sopprimerla del tutto. Il Protestantesimo presenta un fattore di
illogicità, costituito dal fatto che pur sforzandosi di «umanizzare» la
religione, ne lascia ancora sussistere, malgrado tutto e almeno in teoria, un
elemento sopra-umano: che è la rivelazione; esso non osa spingere la negazione
fino in fondo, ma mettendo questa rivelazione in balia di tutte le discussioni
che sono la conseguenza di interpretazioni puramente umane, di fatto la riduce
ben presto a non essere più niente; e quando si vede della gente che, pur
continuando a dichiararsi «cristiana», non ammette neanche più la divinità del
Cristo, è permesso pensare che costoro, forse senza rendersene conto, sono
molto più vicini alla negazione totale che al vero Cristianesimo. D’altronde,
simili contraddizioni non devono stupire più di tanto, poiché esse, in tutti
gli ambiti, sono uno dei sintomi della nostra epoca di disordine e di
confusione, esattamente come la divisione incessante del Protestantesimo è solo
una delle numerose manifestazioni di quella dispersione nella molteplicità che,
come abbiamo detto, si ritrova ovunque nella vita e nella scienza moderne.
D’altra parte, è naturale che, con lo spirito di negazione che lo anima, il
Protestantesimo abbia dato vita a quella «critica» dissolvente che, in mano ai
pretesi «storici delle religioni», è divenuta un’arma per combattere ogni
religione; ed è altrettanto naturale che, col pretendere di non riconoscere
altra autorità che quella dei Libri sacri, abbia contribuito in larga parte
alla distruzione di questa stessa autorità, vale a dire di quel minimo di
tradizione che esso ancora conservava; la rivolta contro lo spirito
tradizionale, una volta cominciata, non poteva fermarsi a metà strada.
A questo punto si
potrebbe fare un’obiezione: non è possibile che, pur separandosi
dall’organizzazione cattolica, il Protestantesimo, per il fatto stesso di
ammettere i Libri sacri, abbia conservato la dottrina tradizionale in essi
contenuta? Ma è l’introduzione del «libero esame» che contrasta in modo
assoluto con una tale ipotesi, dal momento che esso dà spazio a tutte le
fantasie individuali; d’altronde, la conservazione della dottrina presuppone un
insegnamento tradizionale organizzato, tramite il quale si mantiene
l’interpretazione ortodossa, e di fatto un tale insegnamento, nel mondo
occidentale, si identificava col Cattolicesimo. Senza dubbio, è possibile che
in altre civiltà possano esserci delle organizzazioni dalle forme molto diverse
da quest’ultima e che svolgono la funzione corrispondente; ma è della civiltà
occidentale, con le sue particolari condizioni, che stiamo parlando. Non è
possibile, dunque, far valere, per esempio, il fatto che in India non esiste
alcuna istituzione paragonabile al Papato: il caso è del tutto differente,
innanzi tutto perché non si ha a che fare con una tradizione a forma religiosa
nel senso occidentale del termine, di modo che i mezzi con i quali essa si
conserva e si trasmette non possono essere gli stessi; secondo poi, visto che
lo spirito indù è ben diverso dallo spirito europeo, nel primo caso la
tradizione potrebbe avere di per sé una potenza che non avrebbe nel secondo
caso senza l’appoggio di una organizzazione molto più strettamente definita
nella sua costituzione esteriore. Noi abbiamo già detto che la tradizione
occidentale, dal Cristianesimo in poi, dovette necessariamente rivestire una
forma religiosa; ora, sarebbe troppo lungo spiegarne qui tutte le ragioni,
poiché esse potrebbero essere pienamente comprese solo facendo appello a delle
considerazioni assai complesse; certo è che si tratta di uno stato di fatto che
non ci si può rifiutare di tenere in conto[2],
ed allora occorre anche ammettere tutte le conseguenze che ne derivano in
relazione all’organizzazione più adatta per una simile forma tradizionale.
D’altra parte, come
dicevamo prima, è più che certo che solo nel Cattolicesimo si è mantenuto ciò
che ancora sussiste, malgrado tutto, dello spirito tradizionale in Occidente;
ed allora, ciò significa che, almeno lì, si può parlare di una conservazione
integrale della tradizione, al riparo da ogni attacco dello spirito moderno?
Sfortunatamente, non sembra che sia così, o, per essere più esatti, se il
deposito della tradizione è rimasto intatto, il che è già molto, è assai dubbio
che il suo significato profondo sia ancora compreso realmente, perfino da
un’élite poco numerosa, poiché, se fosse altrimenti, l’esistenza di
quest’ultima si manifesterebbe indubbiamente tramite un’azione o piuttosto tramite
un’influenza che in effetti non constatiamo in nessun luogo. Si tratta dunque,
più verosimilmente, di ciò che chiamiamo volentieri una conservazione allo
stato latente, in grado di permettere sempre, a coloro che ne saranno capaci,
di ritrovare il senso della tradizione, anche quando esso non fosse attualmente
conosciuto da nessuno; d’altronde, sparsi qua e là nel mondo occidentale, al di
fuori del dominio religioso, vi sono ancora molti segni o simboli provenienti
da antiche dottrine tradizionali, simboli che si sono conservati senza essere
compresi. In simili casi, per risvegliare ciò che è così immerso in una sorta
di sonno e per restaurare la comprensione perduta, è necessario un contatto con
lo spirito tradizionale pienamente vivente; e, lo ripetiamo ancora una volta, è
soprattutto per questo che l’Occidente avrà bisogno dell’aiuto dell’Oriente se
vuol riprendere coscienza della propria tradizione.
Ciò che abbiamo
appena detto si riferisce propriamente alle possibilità che, in forza del suo
principio, il Cattolicesimo porta in se stesso in maniera costante ed
inalterabile; ne consegue che in questo caso l’influenza dello spirito moderno
si limita necessariamente ad impedire, per un periodo più o meno lungo, che
certe cose vengano effettivamente comprese. Per contro, parlando dello stato
presente del Cattolicesimo, se con questo si volesse intendere il modo in cui è
considerato dalla grande maggioranza dei suoi stessi aderenti, si sarebbe ben
obbligati a constatare un’azione più positiva dello spirito moderno, sempre che
una tale espressione si possa impiegare per qualcosa che, in realtà, è
essenzialmente negativo. Sotto questo aspetto, noi ci riferiamo, non solo a dei
movimenti chiaramente definiti, come quello che è stato proprio chiamato col
nome di «modernismo» e che non era altro che un tentativo, fortunatamente
sventato, di infiltrazione dello spirito protestante all’interno della stessa
Chiesa cattolica; ma soprattutto ad una condizione di spirito molto più
generalizzata, più diffusa e più difficilmente percepibile, dunque ancora più
pericolosa, e perfino tanto più pericolosa per quanto spesso accade che non sia
affatto percepita da coloro stessi che ne sono affetti: in fondo ci si può
credere sinceramente religiosi e non esserlo. affatto, ci si può perfino
chiamare «tradizionalisti» senza avere la minima nozione del vero spirito
tradizionale, ed anche questo è uno dei sintomi del disordine mentale della
nostra epoca. La condizione di spirito alla quale alludiamo è, innanzi tutto,
quella che consiste nel «minimizzare» la religione, se così si può dire, nel
farne qualcosa che si può mettere da una parte, qualcosa a cui ci si accontenta
di assegnare un posto ben delimitato e il più ristretto passibile, qualcosa che
non ha alcuna influenza reale sul resto dell’esistenza, che è isolata da
quest’ultima come in una sorta di compartimento stagno; quanti sono oggi i
cattolici che, nella vita di tutti i giorni, hanno dei modi di pensare e
d’agire sensibilmente diversi da quelli dei loro contemporanei più «areligiosi»?
Il fatto è chi esiste un’ignoranza quasi completa dal punto di vista dottrinale
e perfino l’indifferenza nei confronti di tutto ciò che si riferisce alla
dottrina; per molti, la religione è semplicemente una questione di «pratica»,
di abitudine, per non dire di «routine», ci si astiene accuratamente dal
cercare di comprendervi checchessia e si arriva perfino a pensare che è inutile
comprendere o che, forse, non vi è nulla da comprendere; del resto, se si
comprendesse veramente la religione, come sarebbe possibile lasciarle un posto
così mediocre fra le proprie preoccupazioni? La dottrina si trova dunque, di
fatto, dimenticata o ridotta quasi a niente, il che si accosta singolarmente
alla concezione protestante, perché si tratta di un effetto delle medesime
tendenze moderne contrarie ad ogni intellettualità; e la cosa più deplorevole è
che l’insegnamento che in genere viene dato, invece di reagire ad una tale
condizione di spirito, la favorisce e vi si adatta fin troppo bene: si parla
sempre di morale e non si parla quasi mai di dottrina, con la scusa che non
potrebbe essere compresa; allo stato attuale la religione non è più che
«moralismo», o almeno sembra che nessuno voglia vedervi ciò che essa realmente
è, e cioè tutt’altro che un «moralismo». Tuttavia, se qualche volta si finisce
col parlare ancora di dottrina, molto spesso lo si fa per sminuirla,
discutendone con degli avversari dopo essersi portati sul loro stesso terreno
«profano», il che conduce inevitabilmente a concessioni delle più ingiustificate;
accade così, in particolare, che ci si creda obbligati a tener conto, in
maniera più o meno ampia, dei pretesi risultati della «critica» moderna, quando
invece, ponendosi da un altro punto di vista, sarebbe la cosa più facile
dimostrarne tutta l’inanità; ora, in tali condizioni, che ne è effettivamente
del vero spirito tradizionale?
Questa digressione,
a cui siamo stati condotti nell’esaminare le manifestazioni dell’individualismo
nel dominio religioso, non ci sembra sia stata inutile, poiché mostra che il
male, in questo campo, è ancora più grave e più esteso di quanto si potrebbe
credere a prima vista; d’altra parte, essa non si discosta molto dalla
questione in oggetto, e la nostra ultima considerazione vi si connette perfino
direttamente, poiché è sempre l’individualismo che introduce dappertutto lo
spirito di discussione. È molto difficile far comprendere ai nostri
contemporanei che vi sono delle cose che, per la pro stessa natura, non si
possono discutere; l’uomo moderno, invece di cercare di elevarsi alla verità,
pretende di farla discendere al suo livello ed è indubbiamente per questo che
vi sono molti che, quando si parla loro di «scienze tradizionali» o perfino di
metafisica pura, immaginano che si tratti solo di «scienza profana» e di
«filosofia». Nel dominio delle opinioni individuali è sempre possibile
discutere, poiché non si oltrepassa l’ordine razionale, e perché, non facendo
appello ad alcun principio superiore, si finisce facilmente col trovare degli
argomenti più o meno validi per sostenere il «pro» ed il «contro»; in molti
casi, si può perfino condurre la discussione indefinitamente senza pervenire ad
alcuna conclusione, ed è in tal modo che quasi tutta la filosofia moderna
finisce con l’essere costituita da equivoci e da questioni mal poste. Lungi dal
chiarire i problemi, come si suppone ordinariamente, la discussione molto
spesso non fa altro che spostarli, se non addirittura renderli ancora più
oscuri; e il risultato più abituale è che ognuno, nello sforzarsi di convincere
il proprio avversario, si rafforza più che mai nella propria opinione e vi si
rinchiude in maniera ancora più esclusiva di prima. In fondo, in tutto ciò non
si tratta di giungere alla conoscenza della verità, ma di aver ragione malgrado
tutto, o quantomeno di persuadersene quando non si possono persuadere gli
altri, il che, fra l’altro, dispiacerà ancor di più per il fatto che vi si
mischia sempre quel bisogno di «proselitismo» che è anch’esso uno degli
elementi più caratteristici dello spirito occidentale. Talvolta, l’individualismo,
nel senso più ordinario e più basso del termine, si manifesta in una maniera
ancora più apparente: non è infatti vero che si vedono continuamente delle
persone che vogliono giudicare l’opera di un uomo sulla base di ciò che essi
conoscono della sua vita privata, come se fra le due cose potesse esserci un
qualunque rapporto? E segnaliamo di sfuggita che è la stessa tendenza, unita
alla mania del particolare, che genera l’interesse che viene attribuito ai
minimi particolari dell’esistenza dei «grandi uomini», la stessa che genera
l’illusione che si possa spiegare tutto ciò che costoro hanno fatto, tramite
una sorta di analisi «psico-fisiologica»; tutto questo è molto significativo
per chi vuol rendersi conto di ciò che è veramente la mentalità contemporanea.
Ma ritorniamo per
un istante sul fatto di introdurre le abitudini alla discussione in ambiti ove
essa non ha niente a che fare, e diciamo chiaramente che: l’attitudine
«apologetica» è, di per sé, un’attitudine estremamente debole, perché essa è
puramente «difensiva», nel senso giuridico del termine; non a caso è designata
con un termine che deriva da «apologia», il cui significato proprio è quello di
arringa da avvocato, e in una lingua come l’inglese ha finito con l’assumere
comunemente l’accezione di «scusa»; l’importanza preponderante accordata
all’«apologetica» è, dunque, il marchio incontestabile di una regressione dello
spirito religioso. Questa debolezza si accentua ancora quando l’«apologetica»
degenera, come abbiamo detto poco fa, in discussioni che sono del tutto
«profane» in quanto al metodo ed al punto di vista, discussioni in cui la
religione è posta sullo stesso piano delle teorie filosofiche e scientifiche, o
pseudo-scientifiche, fra le più contingenti e le più ipotetiche, ed in cui si
arriva, per mostrarsi «concilianti», fino ad ammettere in una certa misura
delle concezioni che sono state inventate solo per rovinare ogni religione;
quelli che agiscono così forniscono loro stessi la prova che non hanno
assolutamente coscienza del vero carattere della dottrina di cui si credono i
rappresentanti più o meno autorizzati. Coloro che sono qualificati per parlare
in nome di una dottrina tradizionale non devono discutere con i «profani» né
devono fare della «polemica»; devono solo esporre la dottrina così com’è, per
quelli che possono comprenderla, e devono denunciare l’errore ovunque esso si
trovi, facendolo apparire tale col proiettare su di esso la luce della vera
conoscenza; il loro compito non consiste nell’ingaggiare una lotta compromettendovi
la dottrina, ma nel portare il giudizio che hanno il diritto di formulare se
effettivamente possiedono i principi che devono ispirarli infallibilmente. Il
dominio della lotta è quello dell’azione, vale a dire il dominio individuale e
temporale; il «motore immobile» produce e dirige il movimento senza esservi
coinvolto; la conoscenza illumina l’azione senza partecipare alle sue
vicissitudini; lo spirituale guida il temporale senza confondervisi; così che
ogni cosa rimane nel suo ordine, al rango che le appartiene nella gerarchia
universale; ma, nel mondo moderno, dov’è che si trova ancora la nozione di una
vera gerarchia? Niente e nessuno è più nel posto ove dovrebbe normalmente
essere; gli uomini non riconoscono più alcuna autorità effettiva nell’ordine
spirituale, né alcun potere legittimo nell’ordine temporale; i «profani» si
permettono di discutere delle cose sacre, di contestarne il carattere e peno la
stessa esistenza; è l’inferiore che giudica il superiore, l’ignorante che
impone dei limiti alla saggezza, l’errore che anticipa la verità, l’umano che
si sostituisce al divino, la terra che prevale sul cielo, l’individuo che si fa
misura di ogni cosa e pretende di dettare all’universo delle leggi tratte
interamente dalla propria ragione relativa e fallibile. «Guai a voi, guide
cieche» è detto nel Vangelo, e in effetti oggi si vedono dappertutto dei
ciechi che conducono altri ciechi, e che, se non saranno fermati in tempo,
finiranno fatalmente per condurli nell’abisso, ove gli uni periranno con gli
altri.
[1] Si vedano Il Teosofismo, Storia di una Pseudo-Religione e Errore dello Spiritismo (n.d.t.).
[2] D’altronde, secondo la parola evangelica, questo stato di fatto si manterrà fino alla «consumazione del secolo», vale a dire fino alla fine del ciclo attuale.
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