Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo
Cap. IV - El-Faqr[1]
L’essere contingente può venire definito come quello che non
possiede in se stesso la propria ragione sufficiente; un tale essere, di
conseguenza, non è nulla per se stesso, e nulla di ciò che egli è gli
appartiene in proprio.
Tale è il caso dell’essere umano in quanto individuo, come pure di tutti gli esseri manifestati, in qualsivoglia stato, perché, quale che sia la diversità fra i gradi dell’Esistenza universale, essa è pur sempre nulla rispetto al Principio.
Questi esseri, umani e non, sono dunque, in tutto ciò che sono, completamente dipendenti dal Principio, «al di fuori del quale non vi è nulla, assolutamente nulla che esista»;[2] è nella consapevolezza di questa dipendenza che consiste propriamente ciò che varie tradizioni designano come «povertà spirituale». Allo stesso tempo, per l’essere giunto a tale consapevolezza, questa ha per conseguenza immediata il distacco da tutte le cose manifestate, perché ormai egli sa che anche tali cose non sono nulla, che la loro importanza è rigorosamente nulla rispetto alla Realtà assoluta. Questo distacco, nel caso dell’essere umano, implica essenzialmente e prima di tutto l’indifferenza riguardo ai frutti dell’azione, quale è insegnata in special modo nella Bhagavad-Gîtâ, indifferenza per il cui tramite l’essere sfugge alla concatenazione indefinita delle conseguenze di questa azione: è l’«azione senza desiderio» (nishkâma karma), mentre l’«azione con desiderio» (sakâma karma) è l’azione compiuta in vista dei suoi frutti.Per quella via l’essere esce dunque dalla molteplicità, e sfugge, secondo le espressioni usate dalla dottrina taoista, alle vicissitudini della «corrente delle forme», all’alternanza degli stati di «vita» e di «morte», di «condensazione» e di «dissipazione»,[3] passando dalla circonferenza della «ruota cosmica» al suo centro, che è descritto a sua volta come «il vuoto [il non-manifestato] che unisce i raggi e ne fa una ruota».[4]
«Chi è giunto al massimo del vuoto» dice ancora Lao-tseu «sarà saldamente stabilito nella quiete... Ritornare alla propria radice [cioè al Principio che è origine prima e insieme fine ultimo di tutti gli esseri] vuol dire entrare nello stato di quiete».[5] «La pace nel vuoto» dice Lie-tseu «è uno stato indefinibile; non la si riceve né la si dona; si arriva a stabilirvisi».[6] Questa «pace nel vuoto» è la «grande pace» (es-Sakînah) dell’esoterismo musulmano,[7] che è allo stesso tempo la «presenza divina» al centro dell’essere presupposta dall’unione con il Principio, la quale solo in quel centro può effettivamente operarsi. «A colui che ha dimora nel non-manifesto, tutti gli esseri si manifestano... Unito al Principio, attraverso esso egli è in armonia con tutti gli esseri. Unito al Principio, egli conosce ogni cosa attraverso le ragioni generali superiori, e di conseguenza non si serve più dei suoi diversi sensi per conoscere in particolare e nei dettagli. La vera ragione delle cose è invisibile, inafferrabile, indefinibile, indeterminabile. Solo lo spirito ristabilito nello stato di semplicità perfetta può afferrarla nello stato di contemplazione profonda».[8]
Tale è il caso dell’essere umano in quanto individuo, come pure di tutti gli esseri manifestati, in qualsivoglia stato, perché, quale che sia la diversità fra i gradi dell’Esistenza universale, essa è pur sempre nulla rispetto al Principio.
Questi esseri, umani e non, sono dunque, in tutto ciò che sono, completamente dipendenti dal Principio, «al di fuori del quale non vi è nulla, assolutamente nulla che esista»;[2] è nella consapevolezza di questa dipendenza che consiste propriamente ciò che varie tradizioni designano come «povertà spirituale». Allo stesso tempo, per l’essere giunto a tale consapevolezza, questa ha per conseguenza immediata il distacco da tutte le cose manifestate, perché ormai egli sa che anche tali cose non sono nulla, che la loro importanza è rigorosamente nulla rispetto alla Realtà assoluta. Questo distacco, nel caso dell’essere umano, implica essenzialmente e prima di tutto l’indifferenza riguardo ai frutti dell’azione, quale è insegnata in special modo nella Bhagavad-Gîtâ, indifferenza per il cui tramite l’essere sfugge alla concatenazione indefinita delle conseguenze di questa azione: è l’«azione senza desiderio» (nishkâma karma), mentre l’«azione con desiderio» (sakâma karma) è l’azione compiuta in vista dei suoi frutti.Per quella via l’essere esce dunque dalla molteplicità, e sfugge, secondo le espressioni usate dalla dottrina taoista, alle vicissitudini della «corrente delle forme», all’alternanza degli stati di «vita» e di «morte», di «condensazione» e di «dissipazione»,[3] passando dalla circonferenza della «ruota cosmica» al suo centro, che è descritto a sua volta come «il vuoto [il non-manifestato] che unisce i raggi e ne fa una ruota».[4]
«Chi è giunto al massimo del vuoto» dice ancora Lao-tseu «sarà saldamente stabilito nella quiete... Ritornare alla propria radice [cioè al Principio che è origine prima e insieme fine ultimo di tutti gli esseri] vuol dire entrare nello stato di quiete».[5] «La pace nel vuoto» dice Lie-tseu «è uno stato indefinibile; non la si riceve né la si dona; si arriva a stabilirvisi».[6] Questa «pace nel vuoto» è la «grande pace» (es-Sakînah) dell’esoterismo musulmano,[7] che è allo stesso tempo la «presenza divina» al centro dell’essere presupposta dall’unione con il Principio, la quale solo in quel centro può effettivamente operarsi. «A colui che ha dimora nel non-manifesto, tutti gli esseri si manifestano... Unito al Principio, attraverso esso egli è in armonia con tutti gli esseri. Unito al Principio, egli conosce ogni cosa attraverso le ragioni generali superiori, e di conseguenza non si serve più dei suoi diversi sensi per conoscere in particolare e nei dettagli. La vera ragione delle cose è invisibile, inafferrabile, indefinibile, indeterminabile. Solo lo spirito ristabilito nello stato di semplicità perfetta può afferrarla nello stato di contemplazione profonda».[8]
La «semplicità», espressione dell’unificazione di tutte le
potenze dell’essere, caratterizza il ritorno allo «stato primordiale»; e si
misura qui tutta la distanza che separa la conoscenza trascendente del saggio
dal sapere ordinario e «profano». Questa «semplicità» è anche designata altrove
come lo stato di «infanzia» (in sanscrito bâlya),
inteso naturalmente in senso spirituale, che, nella dottrina indù, è
considerato come condizione preliminare all’acquisizione del sapere per
eccellenza. Ciò ricorda le analoghe parole contenute nel Vangelo: «Chi non
accoglie il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà».[9] «Hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli avveduti, e le hai rivelate ai
semplici e ai piccini».[10]
«Semplicità» e «piccolezza» sono qui, in fondo, equivalenti
della «povertà», di cui si parla tanto spesso anche nel Vangelo e che viene
generalmente assai mal compresa: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è
il Regno dei Cieli».[11]
Questa «povertà» (in arabo el-faqr)
conduce, secondo l’esoterismo musulmano, a el-fanâ,
cioè all’«estinzione» dell’«io»;[12] per
mezzo di questa «estinzione», si perviene alla «stazione divina» (el-maqâm el-ilâhî), che è il punto
centrale dove tutte le distinzioni inerenti ai punti di vista esteriori sono
superate, dove tutte le opposizioni sono cancellate e risolte in un equilibrio
perfetto. «Nello stato primordiale, queste opposizioni non esistevano. Sono
tutte derivate dalla diversificazione degli esseri [inerente alla
manifestazione e come quella contingente], e dai loro contatti causati dalla
girazione universale [cioè dalla rotazione della “ruota cosmica” intorno al suo
asse]. Esse di colpo cessano d’influenzare l’essere che ha ridotto il suo io
distinto e il suo movimento particolare a quasi nulla».[13]
Questa riduzione dell’«io distinto», il quale infine scompare riassorbendosi in
un punto unico, coincide con el-fanâ,
come pure con il «vuoto» di cui dicevamo sopra; è del resto evidente che, in
base al simbolismo della ruota, il «movimento» di un essere è tanto più ridotto
quanto più tale essere si va avvicinando al punto centrale. «Questo essere non
entra più in conflitto con alcun altro essere, poiché risiede nell’infinito, è
scomparso nell’indefinito.[14] Egli
è giunto e si tiene nel punto di partenza delle trasformazioni, punto neutro
dove non si pongono conflitti. Concentrando la sua natura, alimentando il suo
spirito vitale, raccogliendo insieme tutte le sue potenze, egli si è unito al
principio di tutte le genesi. Essendo la sua natura integra [totalizzata in
modo sintetico nell’unità principiale] e il suo spirito vitale intatto, nessun
essere può scalfirlo».[15]
La «semplicità» di cui si parlava sopra corrisponde
all’unità «senza dimensioni» del punto primordiale, al quale fa capo il
movimento di ritorno verso l’origine. «L’uomo assolutamente semplice soggioga
con la sua semplicità tutti gli esseri... al punto che nulla gli si oppone
nelle sei regioni dello spazio, nulla gli è ostile, il fuoco e l’acqua non gli
recano danno».[16] Egli infatti si mantiene
al centro, da cui originano come raggi le sei direzioni, e verso cui, nel
movimento di ritorno, esse vengono a neutralizzarsi a due a due, di modo che,
in quel punto unico, la loro triplice opposizione cessa interamente, e niente
di ciò che ne risulta o di ciò che vi trova luogo può attentare all’essere
dimorante nell’unità immutabile. Poiché egli non si oppone a nulla, nulla può a
sua volta opporsi a lui, infatti l’opposizione è necessariamente un rapporto
reciproco, che esige la presenza di due termini e che, di conseguenza, è
incompatibile con l’unità principiale; e l’ostilità, che è soltanto una
conseguenza o una manifestazione esteriore dell’opposizione, non può sussistere
nei confronti di un essere che sia al di fuori e al di là di ogni opposizione.
Il fuoco e l’acqua, che sono il modello dei contrari nel «mondo elementare»,
non possono recargli danno, poiché, a dire il vero, essi per lui non esistono
nemmeno più come coppia di opposti, essendo rientrati – equilibrandosi e
neutralizzandosi reciprocamente attraverso la riunificazione delle loro qualità
in apparenza contrarie, ma in realtà complementari – nell’indifferenziazione
dell’etere primordiale.
Questo punto centrale, attraverso cui si stabilisce, per
l’essere umano, la comunicazione con gli stati superiori o «celesti», è anche
la «porta stretta» del simbolismo evangelico, e si può allora comprendere chi
siano i «ricchi» che non possono attraversarla: sono gli esseri che si
attaccano alla molteplicità, pertanto incapaci di elevarsi dalla conoscenza
distintiva alla conoscenza unificata. Tale attaccamento infatti è l’esatto
opposto di quel distacco di cui si diceva dianzi, come la ricchezza è l’opposto
della povertà, e incatena l’essere alla serie indefinita dei cicli di
manifestazione.[17] L’attaccamento alla
molteplicità è anche, in certo qual modo, la «tentazione» biblica che, facendo
gustare all’essere il frutto dell’«Albero della Scienza del bene e del male»,
cioè della conoscenza duale e distintiva delle cose contingenti, lo allontana
dall’unità centrale originaria impedendogli di cogliere il frutto dell’«Albero
della Vita»; ed è appunto per questo, in effetti, che l’essere è sottoposto
all’alternanza delle mutazioni cicliche, cioè alla nascita e alla morte. Il
percorso indefinito della molteplicità è rappresentato con precisione dalle
spire del serpente che si attorciglia al tronco dell’albero simboleggiante
l’«Asse del Mondo»: è il cammino degli «smarriti» (ed-dâllîn), di coloro che sono nell’«errore» nel senso etimologico
della parola, contrapposto alla «retta via» (es-sirât el-mustaqîm), che sale verticalmente seguendo lo stesso
asse, di cui si parla nella prima sura del Corano.[18]
«Povertà», «semplicità», «infanzia» sono in fondo una sola e
medesima cosa, e l’essenzialità che tutti questi termini esprimono[19] si
conclude con una «estinzione» che è, in realtà, la pienezza dell’essere, così
come il «non-agire» (wu-wei) è la
pienezza dell’attività, poiché è da questo che derivano tutte le attività
particolari: «Il Principio è sempre non-agente, eppure tutto è fatto da lui».[20] L’essere
che sia così giunto al punto centrale ha con ciò stesso realizzato la totalità
della condizione umana: è l’«uomo vero» (tch’eng-jen)
del Taoismo, e quando, partendo da questo punto per salire agli stati
superiori, egli avrà compiuto la perfetta totalizzazione delle sue possibilità,
sarà divenuto l’«uomo divino» (cheng-jen),
ossia l’«Uomo Universale» (el-Insân
el-Kâmil) dell’esoterismo musulmano. Si può dire quindi che i «ricchi» dal
punto di vista della manifestazione sono in verità i «poveri» rispetto al
Principio, e viceversa; è ciò che esprime con altrettanta chiarezza il passo
evangelico: «Gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi»;[21] e a
tale riguardo dobbiamo constatare, una volta di più, il perfetto accordo di
tutte le dottrine tradizionali, che sono soltanto le diverse espressioni della
Verità una.
Mesr, 11-12 rabî
el-awwal 1349 H.
(Mawlid en-Nabî)
[1] «Le Voile d’Isis», ottobre 1930, pp. 714-21.
[3] Aristotele, in senso simile, parla di «generazione» e di «corruzione».
[4] Tao-te-king, cap. XI.
[5] Tao-te-king, cap. XVI.
[6] Lie-tseu, cap. I.
[7] Si veda il capitolo «La Guerre et la Paix», in Le Symbolisme de la Croix, Éditions Véga, Paris, 1931 [trad. it. Il simbolismo della croce, Rusconi, Milano, 1973].
[8] Lie-tseu, cap. IV
[9] Luca, 18, 17.
[10] Matteo, 11, 25; Luca, 10, 21.
[11] Matteo, 5, 3.
[12] Questa «estinzione» non è priva di analogie, anche quanto al senso letterale del termine che la designa, con il nirvâna della dottrina indù; al di là di el-fanâ vi è ancora fanâ el-fanâ, l’«estinzione dell’estinzione», che analogamente corrisponde al parinirvâna.
[13] Tchouang-tseu, cap. XIX.
[14] La prima di queste due espressioni si riferisce alla «personalità» e la seconda all’«individualità».
[15] Tchouang-tseu, cap. XIX. L’ultima frase si riferisce ancora una volta alle condizioni dello «stato primordiale»: è ciò che la tradizione giudaico-cristiana designa come l’immortalità dell’uomo prima della «caduta», immortalità recuperata da chi, tornato al «Centro del Mondo», trae nutrimento dall’«Albero della Vita».
[16] Lie-tseu, cap. II.
[17] È il samsâra buddhista, la rotazione indefinita della «ruota della vita» da cui l’essere deve liberarsi per giungere al nirvâna.
[18] Questa «retta via» è identica al Te o «Rettitudine» di Lao-tseu, è la direzione che un essere deve seguire affinché la sua esistenza sia conforme alla «Via» (Tao) o, in altri termini, conforme al Principio.
[19] È l’«essenzialità dei metalli» nel simbolismo massonico.
[20] Tao-te-king, cap. XXXVII.
[21] Matteo, 20, 16.
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