René Guénon
Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo
Cap. III - Et-Tawhîd[1]
La dottrina dell’Unità, cioè l’affermazione che il Principio
di ogni esistenza è essenzialmente Uno, è un punto fondamentale comune a tutte
le tradizioni ortodosse, e anzi possiamo dire che è proprio su questo punto che
la loro identità di fondo appare con la massima chiarezza, manifestandosi fin
nell’espressione stessa.
Infatti, quando si tratta dell’Unità, ogni diversità scompare, ed è solo scendendo verso il molteplice che le differenze di forma appaiono, poiché i modi di espressione sono allora essi stessi molteplici come ciò cui si riferiscono, e suscettibili di variare indefinitamente per adattarsi alle circostanze di tempo e di luogo. Ma «la dottrina dell’Unità è unica» (secondo la formula araba: et-tawhîd wâhid), cioè è ovunque e sempre la stessa, invariabile come il Principio, indipendente dalla molteplicità e dal cambiamento che possono influenzare solo le applicazioni di ordine contingente.
Infatti, quando si tratta dell’Unità, ogni diversità scompare, ed è solo scendendo verso il molteplice che le differenze di forma appaiono, poiché i modi di espressione sono allora essi stessi molteplici come ciò cui si riferiscono, e suscettibili di variare indefinitamente per adattarsi alle circostanze di tempo e di luogo. Ma «la dottrina dell’Unità è unica» (secondo la formula araba: et-tawhîd wâhid), cioè è ovunque e sempre la stessa, invariabile come il Principio, indipendente dalla molteplicità e dal cambiamento che possono influenzare solo le applicazioni di ordine contingente.
Possiamo anche dire che, contrariamente all’opinione
corrente, non vi è mai stata in alcun luogo una dottrina che fosse realmente
«politeista», cioè che ammettesse una pluralità di principi assoluta e
irriducibile. Un tale «pluralismo» è possibile solo come deviazione risultante
dall’ignoranza e dall’incomprensione delle masse, dalla loro tendenza ad
appigliarsi esclusivamente alla molteplicità del manifestato: da ciò
l’«idolatria» in tutte le sue forme, generata dalla confusione del simbolo in
se stesso con ciò che è chiamato a significare, e la personificazione degli
attributi divini considerati come altrettanti esseri indipendenti, il che poi
costituisce la sola possibile origine di un «politeismo» di fatto. Questa
tendenza va del resto accentuandosi man mano che si avanza nello sviluppo di un
ciclo di manifestazione – in quanto tale sviluppo è esso stesso una discesa
nella molteplicità – e in conseguenza dell’oscuramento spirituale che
inevitabilmente l’accompagna. Per questo motivo le forme tradizionali più
recenti si trovano obbligate a enunciare, nel modo più evidente all’esterno,
l’affermazione dell’Unità; e, di fatto, da nessuna parte come nell’Islam questa
affermazione riceve espressione così esplicita e così insistita, al punto che
sembra quasi, per dir così, assorbire in sé ogni altra affermazione.
Su questo punto, la sola differenza fra le varie dottrine
tradizionali è quella accennata sopra: l’affermazione dell’Unità è ovunque la
stessa, ma in origine questa non richiedeva neppure di essere formulata
esplicitamente per apparire come la più chiara di tutte le verità, poiché gli
uomini erano allora troppo vicini al Principio per disconoscerla o perderla di
vista. Adesso, al contrario, possiamo dire che la maggior parte degli uomini,
interamente impegnati nella molteplicità, smarrita la conoscenza intuitiva
delle verità di ordine superiore, arriva solo con fatica alla comprensione
dell’Unità; e perciò diviene a poco a poco necessario, nel corso della storia
dell’umanità terrestre, formulare tale affermazione dell’Unità più volte e con
sempre maggior chiarezza, potremmo dire con sempre maggior vigore.
Se consideriamo lo stato attuale delle cose, vediamo che
questa affermazione è in certo qual modo meno evidente in talune forme
tradizionali, e che talvolta ne costituisce persino quasi l’aspetto esoterico,
prendendo questo termine nella sua accezione più vasta; in altre tradizioni
invece essa si manifesta chiaramente a tutti, tanto che si finisce per non
vedere nient’altro, sebbene certo anche lì esistano molte altre cose, le quali
però al suo confronto non sono che secondarie. Quest’ultimo è appunto il caso
dell’Islam, anche essoterico; qui l’esoterismo si limita a spiegare e
sviluppare tutto ciò che in questa affermazione è racchiuso e le conseguenze
che ne derivano, e, se lo fa in termini spesso identici a quelli che
incontriamo in altre tradizioni, quali il Vêdânta
e il Taoismo, non vi è motivo di sorprendersi, né di vedere in ciò il risultato
di prestiti storicamente discutibili; le cose stanno così semplicemente perché
la verità è una e perché, in quest’ordine principiale, come dicevamo
all’inizio, l’Unità si manifesta necessariamente fin nell’espressione stessa.
D’altra parte va osservato, sempre considerando lo stato
attuale delle cose, che i popoli occidentali, e più particolarmente i popoli
nordici, sono quelli che sembrano incontrare maggiori difficoltà nel
comprendere la dottrina dell’Unità, e allo stesso tempo sono coinvolti più di
tutti gli altri nel cambiamento e nella molteplicità. Le due cose procedono
evidentemente di pari passo, e forse ciò dipende, almeno in parte, dalle
condizioni di esistenza di questi popoli: questione di temperamento, ma anche
questione di clima, l’uno essendo del resto funzione dell’altro, almeno fino a
un certo punto. Infatti nei paesi nordici, dove la luce solare è debole e
spesso velata, tutte le cose appaiono allo sguardo, se così si può dire, con
valore uguale, e in modo tale da affermare solo e semplicemente la propria esistenza
individuale senza nulla lasciar intravedere al di là; così, già nell’esperienza
ordinaria è dato scorgere veramente solo la molteplicità. Del tutto diverso è
il caso di quei paesi in cui il sole, con la sua intensa irradiazione, assorbe
per così dire in sé tutte le cose, facendole scomparire al suo cospetto come la
molteplicità scompare di fronte all’Unità, non perché quella cessi di esistere
secondo la sua modalità inerente, ma perché tale esistenza è rigorosamente
nulla rispetto al Principio. Così, l’Unità diviene in certo qual modo
percepibile: quel sole abbagliante è l’immagine dell’occhio folgorante di Shiva, che riduce in cenere ogni
manifestazione. Il sole si impone qui a simbolo per eccellenza del Principio
Uno (Allâh Ahad), che è l’Essere necessario,
Colui che solo è sufficiente a Se stesso nella Sua assoluta pienezza (Allâh es-Samad) e dal quale dipendono
interamente l’esistenza e la sussistenza di tutte le cose che al di fuori di
Lui non sarebbero che il nulla.
Il «monoteismo», se ci è consentito usare questo termine per
tradurre et-tawhîd, quantunque ne
restringa un po’ il significato facendo pensare quasi inevitabilmente a un
punto di vista esclusivamente religioso, il «monoteismo», dicevamo, ha dunque
un carattere essenzialmente «solare». In nessun luogo esso è più «percepibile»
che nel deserto, dove la diversità delle cose è ridotta al minimo, e dove, al
tempo stesso, i miraggi fanno apparire tutto quel che ha di illusorio il mondo
manifestato. Là, l’irradiazione del sole produce le cose e di volta in volta le
distrugge; o piuttosto – poiché è inesatto dire che le distrugge – le trasforma
e le riassorbe dopo averle manifestate. Non si potrebbe trovare un’immagine
migliore dell’Unità che si dispiega esteriormente nella molteplicità senza cessare
di essere se stessa e senza esserne modificata, e che poi riconduce a sé,
sempre secondo le apparenze, quella molteplicità che, in effetti, dall’Unità
non è mai uscita, poiché nulla può esservi al di fuori del Principio, nulla vi
si può aggiungere e nulla sottrarre, essendo Quello l’indivisibile totalità
dell’Esistenza unica. Nell’intensa luce dei paesi d’Oriente basta vedere per
comprendere queste cose, per coglierne in modo immediato la verità profonda; e
soprattutto pare impossibile non comprenderle così nel deserto, dove il sole
traccia i Nomi divini in lettere di fuoco nel cielo.
Jebel Seyyidnâ Mûsâ, 23 shawwâI 1348 H.
Mesr, Seyyidnâ el-Huseyn, 10 moharram 1349 H.
(anniversario della
battaglia di Kerbela)
[1] «Le
Voile d’Isis», luglio 1930, pp. 512-16.
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