"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 21 marzo 2014

René Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo - Cap. II - La scorza e il nocciolo (El-Qishr wa’l-Lobb)

René Guénon
Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo

Cap. II - La scorza e il nocciolo (El-Qishr wa’l-Lobb)[1]


È questo il titolo di uno dei numerosi trattati di Seyyidî Mohyiddîn ibn Arabî, che esprime in forma simbolica i rapporti fra l’essoterismo e l’esoterismo, paragonati rispettivamente all’involucro di un frutto e alla sua parte più interna, la polpa o il nocciolo.[2]
L’involucro o la scorza (el-qishr) è la sharîah, cioè la legge religiosa esteriore, che si rivolge a tutti ed è fatta per essere seguita da tutti, come indica del resto il senso di «strada maestra» collegato alla radice della parola. Il nocciolo (el-lobb) è invece la haqîqah, cioè la verità o la realtà essenziale che, contrariamente alla sharîah, non è alla portata di tutti, ma è riservata a coloro che sanno scoprirla sotto le apparenze e raggiungerla attraverso le forme esteriori che la ricoprono, allo stesso tempo proteggendola e dissimulandola.[3] Con altro simbolismo, sharîah e haqîqah sono anche dette rispettivamente il «corpo» (el-jism) e il «midollo» (el-mukhkh)[4], il cui rapporto è esattamente lo stesso che intercorre fra la scorza e il nocciolo; e senza dubbio si potrebbero trovare ancora altri simboli equivalenti.
Ciò di cui si tratta, qualunque sia la designazione usata, è sempre l’«esteriore» (ez-zâhir) e l’«interiore» (el-bâtin), vale a dire ciò che appare e ciò che è nascosto, tali, d’altronde, per la loro stessa natura, e non per effetto di questa o quella convenzione o di precauzioni prese artificiosamente, per non dire arbitrariamente, dai detentori della dottrina tradizionale. L’«esteriore» e l’«interiore» sono rappresentati dalla circonferenza e dal suo centro, che possono essere collegati allo spaccato del frutto cui fa riferimento il simbolismo citato in precedenza, e al tempo stesso ci riportano all’immagine della «ruota delle cose», comune a tutte le tradizioni. Infatti, se si considerano i due termini in questione in senso universale, senza cioè limitarsi all’uso che più generalmente ne viene fatto in una forma tradizionale particolare, possiamo dire che la sharîah, la «strada maestra» percorsa da tutti gli esseri, altro non è se non ciò che la tradizione estremo-orientale chiama la «corrente delle forme», mentre la haqîqah, la verità una e immutabile, risiede nell’«invariabile mezzo».[5] Per passare dall’una all’altra, dunque dalla circonferenza al centro, occorre seguire uno dei raggi: si tratta della tarîqah, cioè del «sentiero», la via stretta che viene percorsa soltanto da pochi.[6] Vi è del resto una moltitudine di turuq, che sono tutti i raggi della circonferenza presi in senso centripeto, dato che si tratta di partire dalla molteplicità del manifestato per arrivare all’unità del principio: ogni tarîqah, muovendo da un punto dato della circonferenza, è particolarmente adatta agli esseri che si trovano in quel punto; ma tutte, quale che sia il loro punto di partenza, tendono similmente verso un punto unico,[7] tutte confluiscono al centro riconducendo così gli esseri che le seguono all’essenziale semplicità dello «stato primordiale».

Gli esseri infatti, trovandosi attualmente nella molteplicità, sono costretti a partire da lì per una qualsiasi realizzazione; ma tale molteplicità è nello stesso tempo, per la maggior parte di loro, l’ostacolo che li arresta e li trattiene: le apparenze diverse e mutevoli impediscono loro di scorgere la realtà vera come, se così si può dire, la scorza impedisce di vedere l’interno del frutto; e questo non può essere raggiunto se non da coloro che sono capaci di penetrare attraverso l’involucro, capaci cioè di scorgere il Principio attraverso la manifestazione, e anzi di scorgere quello soltanto in tutte le cose, giacché la manifestazione stessa nella sua interezza allora non è più che un insieme di espressioni simboliche. L’applicazione di ciò all’essoterismo e all’esoterismo intesi nella loro accezione corrente, cioè in quanto aspetti di una dottrina tradizionale, è facile: anche in questo caso, le forme esteriori nascondono agli occhi del volgo la verità profonda, mentre al contrario la fanno apparire all’élite, per la quale ciò che per gli altri è un ostacolo o una limitazione diventa così un punto d’appoggio e un mezzo di realizzazione. Occorre capire che questa differenza deriva direttamente e necessariamente dalla natura stessa degli esseri, dalle possibilità e dalle attitudini che ciascuno ha in se stesso, cosicché la parte essoterica della dottrina svolge in questo modo sempre esattamente la funzione che deve svolgere per ciascuno, offrendo a coloro che non possono spingersi più in là tutto ciò che essi sono in grado di ricevere nel loro stato attuale, e fornendo al tempo stesso, a coloro che la oltrepassano i «supporti» che, pur senza mai essere strettamente necessari, in quanto contingenti, possono tuttavia grandemente aiutarli ad avanzare nel cammino interiore, e senza i quali le difficoltà sarebbero tali, in certi casi, da equivalere di fatto a una vera impossibilità.

Al riguardo occorre notare che per la maggior parte degli uomini, i quali inevitabilmente possono solo attenersi alla legge esteriore, questa assume il carattere più di una guida che di un limite: è sempre un legame, ma un legame che impedisce loro di sviarsi o di perdersi; senza quella legge che li assoggetta a percorrere un determinato cammino, non solo essi non si avvicinerebbero di più al centro, ma rischierebbero di allontanarsene indefinitamente, laddove il movimento circolare li mantiene perlomeno a una distanza costante.[8] Per quella via, coloro che non possono contemplare direttamente la luce ne ricevono almeno un riflesso e una partecipazione; ed essi restano così in qualche modo collegati al Principio, pur non essendone né potendone essere realmente consapevoli. Infatti la circonferenza non può esistere senza il centro, dal quale in realtà essa procede per intero, e, sebbene gli esseri legati alla circonferenza non vedano né il centro né i raggi, nondimeno ciascuno di loro si trova inevitabilmente all’estremità di un raggio la cui estremità opposta è il centro medesimo. Ma qui la scorza si frappone e nasconde tutto ciò che si trova all’interno, mentre colui che l’avrà penetrata, prendendo così coscienza del raggio che corrisponde alla propria posizione sulla circonferenza, sarà affrancato dalla rotazione indefinita di questa e avrà solo da seguire quel raggio per procedere verso il centro; quel raggio è la tarîqah attraverso la quale, partito dalla sharîah, egli perverrà alla haqîqah. Del resto occorre precisare che, una volta penetrato l’involucro, ci si viene a trovare nell’ambito dell’esoterismo, poiché tale penetrazione è, quanto alla posizione dell’essere rispetto all’involucro, una specie di ribaltamento che costituisce il trapasso dall’esteriore all’interiore; in un certo senso, la designazione di esoterismo conviene anzi più propriamente alla tarîqah, poiché, a dire il vero, la haqîqah è al di là della distinzione fra essoterismo ed esoterismo, la quale implica confronto e correlazione: il centro appare sì come il punto più interno, ma, una volta approdativi, non ha più senso parlare di esteriore e di interiore, dato che allora ogni distinzione contingente scompare risolvendosi nell’unità principiale. Perciò Allâh, come è «il Primo e l’Ultimo» (el-Awwal wa’l-Âkhir),[9] così è anche «l’Esteriore e l’Interiore» (ez-Zâhir wa’l-Bâtin),[10] dato che nulla di ciò che è può essere fuori di Lui, e in Lui soltanto è contenuta ogni realtà, poiché Lui stesso è la Realtà assoluta, la Verità totale: Huwa el-Haqq. 

Mesr, 8 ramadân 1349 H.



[1] «Le Voile d’Isis», marzo 1931, pp. 145-50. 
[2] Facciamo notare per inciso che il simbolo del frutto è in rapporto con l’«Uovo del Mondo» e anche con il cuore. 
[3] Si potrà notare che il ruolo delle forme esteriori corrisponde al duplice significato del termine «rivelazione», dato che esse manifestano e velano al tempo stesso l’essenziale della dottrina, la verità una, come del resto inevitabilmente fa la parola riguardo al pensiero che esprime; e ciò che a questo proposito è vero della parola, lo è anche di ogni altra espressione formale. 
[4] Ci si sovverrà qui della substantifique moelle [«sostantifica midolla»] di Rabelais, che allude anche a un significato interiore e recondito. 
[5] Occorre osservare, a proposito della tradizione estremo-orientale, che in essa troviamo gli equivalenti precisi di questi due termini non come due aspetti, essoterico ed esoterico, di una stessa dottrina, bensì come due insegnamenti separati, almeno a partire dall’epoca di Confucio e di Lao-tseu: si può infatti affermare, con il massimo rigore, che il Confucianesimo corrisponde alla sharîah e il Taoismo alla haqîqah. 
[6] Le parole sharîah e tarîqah contengono entrambe l’idea di «cammino», dunque di movimento (e va notato il simbolismo del movimento circolare per la prima e del movimento rettilineo per la seconda); in entrambi i casi vi sono infatti cambiamento e molteplicità, poiché la prima deve adattarsi alle diverse condizioni esteriori, la seconda alle diverse nature individuali; solo l’essere che ha effettivamente raggiunto la haqîqah partecipa per ciò stesso della sua unità e della sua immutabilità. 
[7] Questa convergenza è adombrata in quella della qiblah (orientamento rituale) di tutti i luoghi verso la Kabah, che è la «casa di Dio» (Beyt Allâh), e la cui forma è quella di un cubo (immagine di stabilità) che occupa il centro di una circonferenza che a sua volta è la sezione terrestre (umana) della sfera dell’Esistenza universale. 
[8] Aggiungiamo che questa legge deve essere normalmente considerata come un’applicazione o una specificazione umana di quella stessa legge cosmica che similmente collega tutta la manifestazione al Principio, come abbiamo altrove spiegato a proposito del significato della «Legge di Manu» nella dottrina indù. 
[9] Vale a dire, come nel simbolo dell’alpha e dell’omega, il Principio e la Fine. 
[10] Si potrebbe anche tradurre con l’«Evidente» (rispetto alla manifestazione) e il «Celato» (in Se stesso), ciò che corrisponde inoltre ai due punti di vista della sharîah (di ordine sociale e religioso) e della haqîqah (di ordine puramente intellettuale e metafisico), sebbene quest’ultima possa anche essere detta al di là di tutti i punti di vista, in quanto li comprende tutti sinteticamente in se stessa.

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