La crisi del mondo moderno
Cap. 6 - Il caos sociale
Non è nostra intenzione, in questo studio, occuparci in modo particolare del punto di vista sociale; esso ci interessa solo indirettamente, perché non è altro che un’applicazione assai lontana dei principi fondamentali, ragion per cui non è certo in questo dominio che, in ogni caso, potrebbe aver inizio un raddrizzamento del mondo moderno.
In effetti, tale raddrizzamento, se fosse intrapreso così alla rovescia, vale a dire partendo dalle conseguenze piuttosto che dai principi, mancherebbe necessariamente di una base seria e sarebbe del tutto illusorio; non ne potrebbe derivare alcunché di stabile e ci sarebbe da rifare tutto incessantemente, poiché si sarebbe trascurato di intendersi innanzi tutto sulle verità essenziali. È questo il motivo per il quale non ci è possibile accordare alle contingenze politiche, perfino dando a questo termine il suo significato più ampio, un valore diverso di quello di semplici segni esteriori della mentalità di un’epoca; ma, sotto questo aspetto, non possiamo passare del tutto sotto silenzio le manifestazioni del disordine moderno nel dominio sociale propriamente detto.
Come dicevamo prima, nello
stato attuale del mondo occidentale, nessuno si trova più nel posto che gli
compete normalmente in ragione della propria natura; è questo che si intende
quando si dice che le caste non esistono più, poiché la casta, intesa secondo
il suo vero significato tradizionale, non è altro che la stessa natura
individuale con l’insieme delle speciali attitudini che essa comporta e che
predispongono ciascun uomo a compiere tale o tal altra funzione determinata.
Dal momento che l’accesso ad una qualunque funzione non è più sottomesso ad
alcuna regola legittima, ne deriva inevitabilmente che ciascuno sarà indotto a
fare una qualsiasi cosa, e spesso la cosa per la quale è meno qualificato; il
ruolo da lui svolto nella società verrà determinato, non dal caso, che in
realtà non esiste[1], ma da ciò che può dare
l’illusione del caso, vale a dire dal groviglio di ogni sorta di circostanze
accidentali; mentre quello che vi interverrà di meno sarà proprio il solo
fattore che dovrebbe contare in un caso del genere, e cioè le differenze di
natura che esistono fra gli uomini.
La causa di tutto questo
disordine sta nella negazione di queste stesse differenze, che comporta la
negazione di ogni gerarchia sociale; e questa negazione, inizialmente, era
forse appena cosciente e più pratica che teorica, dal momento che in realtà la
confusione delle caste ha preceduto la loro completa soppressione, o, in altri
termini, dal momento che ci si è confusi sulla natura degli individui prima
ancora di giungere a non tenerla in alcun conto; ma, in seguito, tale negazione
è stata eretta dai moderni in pseudo-principio, col nome di «uguaglianza».
Sarebbe troppo facile dimostrare che l’uguaglianza non esiste affatto per la
semplice ragione che non potrebbero esserci due esseri che, ad un tempo,
fossero realmente distinti e completamente simili fra loro sotto tutti gli
aspetti; e sarebbe altrettanto facile trarre tutte le conseguenze assurde che
derivano da quest’idea chimerica, in nome della quale si pretende di imporre
dovunque una completa uniformità: per esempio somministrando a tutti un
identico insegnamento, come se tutti fossero ugualmente atti a comprendere le
stesse cose, e come se per fargliele comprendere fosse possibile usare con
tutti indistintamente gli stessi metodi. D’altronde, ci si può chiedere se non
si tratti di «apprendere» piuttosto che di «comprendere» veramente, vale a dire
se, nella concezione tutta verbale e «libresca» dell’insegnamento attuale, non
si sia sostituita la memoria all’intelligenza, concezione che peraltro ha solo
in vista l’accumulo di nozioni rudimentali ed eteroclite ed in cui la qualità è
interamente sacrificata alla quantità; cosa questa che si verifica dappertutto
nel mondo moderno, per delle ragioni che spiegheremo completamente in seguito:
insomma si tratta della dispersione nella molteplicità. E a questo proposito ci
sarebbero molte cose da dire circa i misfatti dell’«istruzione obbligatoria»;
ma non è questo il luogo per insistervi ulteriormente, e, per non uscire dai
limiti che ci siamo posti in questo studio, ci dobbiamo accontentare di
segnalare di sfuggita questa speciale conseguenza delle teorie «egualitarie»
come uno degli elementi del disordine che oggi sono così numerosi che non è
possibile pensare di enumerarli tutti senza ometterne qualcuno.
Naturalmente, quando ci
troviamo in presenza di un’idea come quella di «uguaglianza» o come quella di
«progresso», oppure degli altri «dogmi laici» che quasi tutti i nostri
contemporanei accettano ciecamente, e la maggior parte dei quali hanno
incominciato ad essere formulati chiaramente nel corso del XVIII secolo, non ci
è possibile ammettere che tali idee siano nate spontaneamente. In definitiva,
esse sono delle vere «suggestioni», nel senso più ristretto del termine, e fra
l’altro potevano produrre il loro effetto solo in un ambiente già predisposto a
riceverle; esse non hanno creato di tutto punto la condizione di spirito che
caratterizza l’epoca moderna, ma hanno largamente contribuito a mantenerla e a
svilupparla fino ad un grado che sicuramente non si sarebbe raggiunto senza di
esse. Se queste suggestioni dovessero svanire, la mentalità generale sarebbe
assai prossima ad un cambiamento di direzione; è per questo che sono così
accuratamente ben tenute da tutti coloro che hanno qualche interesse a
mantenere il disordine, se non addirittura ad aggravarlo ancora; ed è sempre
per questo che, in un tempo in cui si pretende di mettere tutto in discussione,
esse sono le sole cose che non si permette mai vengano discusse. D’altronde, è
difficile determinare con esattezza il grado di sincerità di coloro che si
fanno propagatori di simili idee, ed è difficile sapere in che misura certi
uomini finiscano col lasciarsi sedurre dalle proprie menzogne e col lasciarsi
suggestionare mentre vorrebbero suggestionare gli altri; accade perfino che, in
una propaganda del genere, coloro che svolgono il ruolo degli ingenui siano spesso
gli strumenti migliori, perché vi apportano una convinzione che altri avrebbero
difficoltà a simulare, convinzione che, al tempo stesso, è facilmente
contagiosa; ma, dietro tutto questo, almeno inizialmente, occorreva la presenza
di un’azione molto più cosciente, una direzione che non poteva essere
esercitata che da uomini che sapevano perfettamente ciò che facevano nel
diffondere in tal modo tali idee.
Noi abbiamo parlato di
«idee», ma è solo molto impropriamente che questa parola può essere usata in
questo caso, poiché è del tutto evidente che non si tratta minimamente di idee
pure e neanche di qualcosa che appartenga, poco o tanto, all’ordine
intellettuale; esse sono, se si vuole, delle false idee, ma sarebbe ancora
meglio chiamarle «pseudo-idee», destinate principalmente a provocare delle
reazioni sentimentali, il che è effettivamente il mezzo più efficace e più
semplice per agire sulle masse. D’altronde, da questo punto di vista, la parola
ha un’importanza maggiore della nozione che è destinata a rappresentare, e la
maggior parte degli «idoli» moderni sono solo veramente delle parole, poiché in
questo caso si produce quel singolare fenomeno conosciuto col nome di
«verbalismo», ove la sonorità delle parole basta a dare l’illusione del
pensiero; l’influenza che gli oratori esercitano sulle folle è particolarmente
caratteristica a riguardo, e non c’è bisogno di studiarli da vicino per
rendersi conto che si tratta proprio di un processo di suggestione del tutto
simile a quello degli ipnotizzatori.
Ma, senza dilungarci oltre,
ritorniamo alle conseguenze derivate dalla negazione di ogni vera gerarchia, e
notiamo che, allo stato attuale delle cose, non un solo uomo svolge la sua
propria funzione, se non eccezionalmente e come per accidente, quando invece è
il contrario che dovrebbe avvenire; ma si arriva perfino al punto che lo stesso
uomo sia chiamato ad esercitare successivamente delle funzioni del tutto
diverse, come se egli potesse cambiare attitudine a volontà. Questo può
sembrare paradossale in un’epoca di «specializzazione» ad oltranza, e tuttavia
è così, soprattutto nell’ambito politico; se la competenza degli «specialisti»
è spesso illusoria, e in ogni caso limitata ad un campo molto ristretto, la
credenza in questa competenza è tuttavia un fatto, e ci si può chiedere com’è
possibile che tale credenza non svolga più alcun ruolo quando si tratta della
carriera degli uomini politici, ove la più completa incompetenza raramente è un
ostacolo. Ciò nonostante, se si riflette un po’, ci si accorge facilmente che
non v’è niente di cui stupirsi, e che questo in definitiva non è che un
risultato molto naturale della concezione «democratica», in virtù della quale
il potere viene dal basso e si appoggia essenzialmente sulla maggioranza, il
che ha, necessariamente, per corollario l’esclusione di ogni vera competenza,
dal momento che la competenza è sempre una superiorità, quantomeno relativa, e
può essere solo appannaggio di una minoranza.
A questo punto, alcune
spiegazioni non saranno inutili per evidenziare, da una parte, i sofismi che si
nascondono sotto l’idea «democratica», e dall’altra, i legami che collegano
questa stessa idea a tutto l’insieme della mentalità moderna; peraltro, dato il
punto di vista in cui ci poniamo, è quasi superfluo sottolineare che queste
osservazioni saranno formulate al di fuori di tutte le questioni di partito e
di tutte le contese politiche, alle quali non intendiamo mischiarci né da
vicino né da lontano. Noi consideriamo queste cose in maniera assolutamente
disinteressata, come potremmo fare per qualsiasi altro argomento di studio,
cercando solo di renderci conto, il più chiaramente possibile, di ciò che vi è
in fondo a tutto questo, condizione questa che, del resto, è quella necessaria
e sufficiente perché si dissipino tutte le illusioni che i nostri contemporanei
si fanno sull’argomento. Anche in questo caso si tratta veramente di
«suggestione», come dicevamo a proposito di idee un po’ diverse, ma nondimeno
connesse; e quando si sa che cos’è una suggestione, quando si è compreso come
essa agisce, con ciò stesso la si neutralizza; contro cose del genere, un esame
un po’ approfondito e puramente «obiettivo», come si dice oggigiorno nel gergo
speciale improntato ai filosofi tedeschi, risulta essere ben altrimenti
efficace che tutte le declamazioni sentimentali e tutte le polemiche di parte,
le quali non provano alcunché e sono solo l’espressione di semplici differenze
individuali.
L’argomento più decisivo
contro la «democrazia» si riassume in poche parole: il superiore non può derivare
dall’inferiore, perché il «più» non può provenire dal «meno»; ciò è di un
rigore matematico assoluto, contro il quale non v’è nulla che possa prevalere.
È importante notare che si tratta precisamente della stessa argomentazione che,
applicata ad un altro ordine, vale anche contro il «materialismo»; e non v’è
niente di fortuito in questa concordanza, dato che le due cose sono più
strettamente solidali di quanto possa apparire in un primo momento. È fin
troppo evidente che il popolo non può conferire un potere che non possiede; il
vero potere può venire solo dall’alto, ed è per questo, lo diciamo di sfuggita,
che esso non può essere legittimo che tramite la sanzione di qualcosa di
superiore all’ordine sociale, vale a dire di un’autorità spirituale; diversamente
non si può avere che una contraffazione del potere, uno stato di fatto che è
ingiustificabile per mancanza di principio, e dove non può esserci che
disordine e confusione. Questo capovolgimento di ogni gerarchia ha inizio nel
momento in cui il potere temporale vuole rendersi indipendente dall’autorità
spirituale, per poi subordinarla a sé pretendendo di usarla per dei fini
politici; si tratta di una prima usurpazione che apre la via a tutte le altre;
e si potrebbe anche dimostrare che, per esempio, la regalità francese, a
partire il XIV secolo, ha lavorato inconsciamente alla preparazione della
Rivoluzione, che doveva poi rovesciarla; forse un giorno avremo occasione di
sviluppare come merita questo punto di vista, che per il momento ci limitiamo
ad indicare in maniera molto sommaria[2].
Definire la «democrazia» come
il sistema in cui il popolo si governa da sé, è una vera impossibilità, una
cosa che non può avere neanche una semplice esistenza di fatto, sia nella
nostra epoca che in qualunque altra; non bisogna lasciarsi ingannare dalle
parole: è contraddittorio ammettere che gli stessi uomini possano essere, ad un
tempo, governanti e governati, poiché, per impiegare il linguaggio
aristotelico, uno stesso essere non può essere «in atto» e «in potenza» nello
stesso tempo e sotto lo stesso rapporto. Si tratta infatti di una relazione che
presuppone necessariamente la presenza di due termini: non potrebbero esserci
dei governati se non ci fossero dei governanti, foss’anche illegittimi e
senz’altro diritto al potere che quello attribuitosi da loro stessi; ma, nel
mondo moderno, la grande abilità dei dirigenti consiste nel far credere al
popolo che si governi da sé; ed il popolo si lascia convincere tanto più
facilmente per quanto più è adulato e, d’altronde, esso è incapace di
riflettere quel tanto che è necessario per accorgersi di quanto, in tutto
questo, vi è di impossibile. È per creare questa illusione che è stato
inventato il «suffragio universale», in base al quale si suppone che sia
l’opinione della maggioranza a fare le leggi, ma non ci si accorge che
l’opinione è qualcosa che può essere manovrata e modificata molto facilmente,
dato che, con l’aiuto delle suggestioni appropriate, è sempre possibile
provocare delle correnti che si muovano in una qualsiasi direzione determinata;
non ricordiamo più chi ha parlato di «fabbricare l’opinione», ma si tratta di
una espressione totalmente esatta, anche se bisogna dire, peraltro, che non
sono certo sempre i dirigenti apparenti ad avere in realtà a loro disposizione
i mezzi necessari per ottenere un tale risultato. Quest’ultima considerazione
permette certo di comprendere qual è il motivo per cui l’incompetenza dei
politici più «in vista» sembra non avere che un’importanza molto relativa; ma,
siccome non si tratta di smontare il meccanismo di ciò che si potrebbe chiamare
la «macchina di governo», ci limiteremo a segnalare che questa stessa
incompetenza offre il vantaggio di alimentare l’illusione di cui dicevamo
prima: in effetti, è solo a queste condizioni che i politici in questione
possono apparire come l’emanazione della maggioranza, essendo cioè a sua
immagine, poiché la maggioranza, qualunque sia l’oggetto su cui è chiamata ad
esprimersi, è sempre costituita da incompetenti, il cui numero è
incomparabilmente più grande di quello degli uomini che sono in grado di
pronunciarsi in piena cognizione di causa.
Questo ci porta
immediatamente a dire in che cosa è essenzialmente erronea l’idea che la
maggioranza debba fare le leggi; infatti, anche se quest’idea, per forza di
cose, è soprattutto teorica e non corrisponde ad alcuna realtà effettiva, resta
sempre da spiegare come essa abbia potuto radicarsi nello spirito moderno e
quali siano le tendenze di quest’ultimo a cui essa corrisponde e che soddisfa
almeno in apparenza. Il difetto più visibile è quello stesso che abbiamo appena
indicato: il parere della maggioranza non può essere che l’espressione
dell’incompetenza, sia che derivi dalla mancanza di intelligenza o
dall’ignoranza pura e semplice; e a questo proposito si potrebbero far
intervenire certe osservazioni di «psicologia collettiva», ricordando in
particolare il fatto assai conosciuto che, in una folla, l’insieme delle
reazioni mentali che si producono fra gli individui che la compongono, sfocia
nella formazione di una sorta di risultante che non è neanche al livello della
media, ma al livello degli elementi più bassi.
D’altra parte, è anche
opportuno far notare che certi filosofi moderni, volendo trasporre nell’ordine
intellettuale la teoria «democratica» che fa prevalere il parere della
maggioranza, hanno fatto, di ciò che essi chiamano il «consenso universale», un
preteso «criterio di verità»: ora, anche supponendo che possa esistere
effettivamente una questione sulla quale tutti gli uomini fossero d’accordo, un
tale accordo non proverebbe niente di per sé; inoltre, se questa unanimità
esistesse veramente, cosa che è tanto più dubbia per quanto vi sono sempre
degli uomini che non hanno alcuna opinione su una qualunque questione e che
perfino non si sono mai posti il problema, sarebbe in ogni caso impossibile
constatarla di fatto, di modo che, ciò che si invoca a favore di una opinione e
si assume come indice della sua verità si riduce ad essere solamente il
consenso della maggioranza, addirittura limitata ad un ambito necessariamente
molto ristretto nello spazio e nel tempo. In questo dominio appare ancora più
chiaramente come la teoria manchi di base, poiché qui è più facile sottrarsi
all’influenza del sentimento, il quale invece entra in giuoco quasi
inevitabilmente quando si tratta del dominio politico; ed appare anche chiaro
che è questa influenza che costituisce uno dei principali ostacoli alla
comprensione di certe cose, perfino in coloro che peraltro avrebbero una
capacità intellettuale più ampiamente sufficiente per pervenire facilmente a
questa comprensione; gli impulsi emotivi impediscono la riflessione, ed una
delle più volgari abilità dei politici consiste nel trar partito da questa
incompatibilità. Ma volendo approfondire meglio la questione, ci si può
chiedere: che cos’è esattamente questa legge della maggioranza invocata dai
governanti moderni e da cui essi pretendono di trarre la loro sola
giustificazione? È, molto semplicemente, la legge della materia e della forza
bruta, la stessa legge in virtù della quale una massa trascinata dal proprio
peso schiaccia tutto quello che incontra al suo passaggio; ed è in questo che
si trova precisamente il punto di giunzione fra la concezione «democratica» e
il «materialismo», ed è anche questo che permette che questa stessa concezione
sia strettamente legata alla mentalità attuale. Si tratta, insomma, del
completo capovolgimento dell’ordine normale, poiché viene proclamata la
supremazia della molteplicità come tale, supremazia che, di fatto, esiste solo
nel mondo materiale[3]; al contrario, nel mondo
spirituale, e più semplicemente ancora nell’ordine universale, è l’unità che
sta in cima alla gerarchia, poiché essa è il principio da cui procede ogni
molteplicità[4]; ma, allorché il principio
viene negato o è perduto di vista, non resta altro che la pura molteplicità,
che si identifica con la stessa materia. D’altra parte, l’allusione che abbiamo
appena fatto alla pesantezza, implica più di un semplice paragone, poiché la
pesantezza rappresenta effettivamente, nel dominio delle forze fisiche intese
nel senso più ordinario del termine, la tendenza discendente e compressiva, che
comporta per l’essere una limitazione sempre più stretta e, al tempo stesso, si
muove verso la molteplicità, figurata qui da una densità sempre più grande[5]; e
questa tendenza è quella stessa che segna la direzione secondo la quale si è
sviluppata l’attività umana dall’inizio dell’epoca moderna. Inoltre, è il caso
di notare che la materia, in forza del suo potere di divisione e al tempo
stesso di limitazione, è quello che la dottrina scolastica chiama il «principio
di individuazione», il che riallaccia le considerazioni esposte adesso con
quanto abbiamo detto precedentemente a proposito dell’individualismo: e si
potrebbe dire che questa di cui si tratta è anche la tendenza
«individualizzante», quella in base alla quale si effettua ciò che la
tradizione giudeo-cristiana designa come la «caduta» degli esseri che si sono
separati dall’unità originaria[6], La
molteplicità, considerata al di fuori del suo principio, e quindi in modo da
non poter più essere ricondotta all’unità, è, nell’ordine sociale, la
collettività concepita come se fosse semplicemente la somma aritmetica degli
individui che la compongono; e in effetti è così, dal momento che non è più
collegata ad alcun principio superiore agli individui; sotto quest’aspetto, la
legge della collettività è proprio quella legge della maggioranza su cui si
basa l’idea «democratica».
A questo punto occorre
fermarci un istante per dissipare una possibile confusione: parlando
dell’individualismo moderno, noi abbiamo considerato quasi esclusivamente le
sue manifestazioni nell’ordine intellettuale; si potrebbe allora pensare che,
per quanto attiene all’ordine sociale, le cose stiano diversamente. In effetti,
se si assumesse il termine «individualismo» secondo la sua accezione più
ristretta, si potrebbe essere tentati di opporre la collettività all’individuo
e di pensare che dei fatti come il ruolo sempre più invadente dello Stato e la
crescente complessità delle istituzioni sociali, siano indice di una tendenza
contraria all’individualismo. In realtà non è così, perché la collettività,
essendo solo la somma degli individui, non può essere opposta a questi ultimi,
al pari dello stesso Stato concepito alla maniera moderna, e cioè come semplice
rappresentanza della massa, in cui non si riflette alcun principio superiore;
ora, è precisamente nella negazione di ogni principio sopra-individuale che
consiste veramente l’individualismo come noi lo abbiamo definito. Dunque, se
nel dominio sociale vi sono dei conflitti fra tendenze diverse che appartengono
tutte allo spirito moderno, tali conflitti non interessano l’individualismo da
una parte e qualcos’altro dall’altra, ma riguardano semplicemente le molteplici
varietà di cui è suscettibile l’individualismo stesso; ed è facile rendersi
conto che, in assenza di ogni principio capace di unificare realmente la
molteplicità, conflitti come questi devono essere molto più numerosi e più
gravi nella nostra epoca di quanto non lo siano mai stati, poiché chi dice
individualismo dice necessariamente divisione, e questa divisione, con lo stato
caotico che essa genera, è la conseguenza fatale di una civiltà tutta
materiale, in quanto che è la materia stessa ad essere propriamente la radice
della divisione e della molteplicità.
Detto questo, bisogna ancora
insistere su una conseguenza immediata dell’idea «democratica», che consiste
nella negazione dell’élite intesa nella sua sola accezione legittima; non a
caso «democrazia» si oppone ad «aristocrazia», visto che quest’ultima designa
precisamente, almeno in base al suo significato etimologico, il potere
dell’élite. Quest’ultima, in qualche modo per definizione, non può essere che
la minoranza, ed il suo potere, o piuttosto la sua autorità, la quale deriva
solo dalla sua superiorità intellettuale, non ha niente in comune con la forza
numerica su cui poggia la «democrazia», la cui caratteristica essenziale è
quella di sacrificare la minoranza alla maggioranza, ed anche, per ciò stesso,
come abbiamo detto in precedenza, la qualità alla quantità, dunque l’élite alla
massa. Ne consegue che il ruolo direttivo di una vera élite e la sua stessa
esistenza, visto che essa svolge necessariamente un tale ruolo per il semplice
fatto che esiste, sono radicalmente incompatibili con la «democrazia», la quale
è intimamente legata alla concezione «egualitaria» e cioè alla negazione di
ogni gerarchia; la base stessa dell’idea «democratica» è che un individuo
qualunque ne vale un altro, in quanto sono uguali numericamente e nonostante
possano esserlo solo numericamente.
Una vera élite, lo abbiamo
già detto, non può essere che intellettuale; ed è per questo che la
«democrazia» può instaurarsi solo laddove non esiste più la vera
intellettualità, il che corrisponde perfettamente al caso del mondo moderno.
Solo che, visto che l’uguaglianza di fatto è impossibile e visto che
praticamente non si possono sopprimere tutte le differenze fra gli uomini, a
dispetto di tutti gli sforzi di livellamento, si finisce, per un curioso
sillogismo, con l’inventare delle false élite, peraltro molteplici, che
pretendono di sostituirsi alla sola élite reale; e queste false élite sono
basate sulla considerazione di superiorità qualsiasi, eminentemente relative e
contingenti, e sempre d’ordine puramente materiale. Ci se ne può accorgere
facilmente osservando che la distinzione sociale che vale di più, nel presente
stato di cose, è quella che si fonda sulla ricchezza, vale a dire su una
superiorità tutta esteriore e d’ordine esclusivamente quantitativo, la sola
insomma che sia conciliabile con la «democrazia», poiché entrambe derivano
dallo stesso punto di vista. Del resto, possiamo aggiungere che coloro stessi
che si atteggiano ad avversari di questo stato di cose, non facendo intervenire
neanche loro alcun principio di ordine superiore, sono incapaci di rimediare
efficacemente ad un tale disordine, se addirittura non rischiano di aggravarlo
ulteriormente spingendosi sempre più lontano nella stessa direzione; la lotta è
solamente fra diverse varietà della «democrazia», che accentuano più o meno la
tendenza «egualitaria», esattamente come accade, lo dicevamo prima, fra le
varietà dell’«individualismo», tutte cose queste che in realtà sono una cosa
sola.
Queste poche riflessioni ci
sembrano sufficienti per caratterizzare lo stato sociale del mondo
contemporaneo e per mostrare, al tempo stesso, che in questo ambito, come in
tutti gli altri, non può esistere che un solo mezzo per venir fuori dal caos:
la restaurazione dell’intellettualità e quindi la ricostituzione di un’élite,
che in Occidente, attualmente, può essere considerata come inesistente, visto
che non si può dare questo nome ad alcuni elementi isolati e senza coesione, i
quali rappresentano in qualche modo solo delle possibilità non sviluppate. In
effetti, questi elementi hanno, in genere, solo delle tendenze o delle
aspirazioni, che li inducono indubbiamente a reagire contro lo spirito moderno,
ma senza che la loro influenza possa esercitarsi in maniera effettiva; ciò che
manca loro è la vera conoscenza, i dati tradizionali, che non si possono
improvvisare, e ai quali un’intelligenza lasciata a se stessa, soprattutto in
circostanze tanto sfavorevoli sotto molti aspetti, non può supplire che in
maniera assai imperfetta e in misura assai debole. Si hanno dunque degli sforzi
dispersi e che spesso si smarriscono, mancando di principi e di direzione
dottrinale: si potrebbe dire che il mondo moderno si difende con la sua propria
dispersione, alla quale i suoi stessi avversari non riescono a sottrarsi. E
sarà così fintanto che costoro si atterranno al livello «profano», in cui lo
spirito moderno ha un evidente vantaggio, visto che quello è il suo dominio
proprio ed esclusivo; d’altronde, se costoro vi si attengono è perché tale
spirito esercita ancora su di essi, malgrado tutto, una presa molto forte. È
per questo che molte persone, pur animate da una incontestabile buona volontà,
sono incapaci di comprendere che occorre necessariamente incominciare dai
principi, e si ostinano a sperperare le loro forze in questo o in quel dominio
relativo, sociale o di altro genere, in cui non può essere compiuto nulla di
reale e di durevole viste le condizioni attuali. La vera élite, al contrario,
non dovrebbe intervenire direttamente in questi domini né dovrebbe lasciarsi
coinvolgere nell’azione esteriore; essa dirigerebbe tutto tramite un’influenza
impercettibile per il volgo, e tanto più profonda per quanto meno apparente. Se
si pensa alla potenza delle suggestioni di cui parlavamo prima, che fra l’altro
non suppongono alcuna vera intellettualità, si può concepire che cosa sarebbe,
a maggior ragione, la potenza di un’influenza che si esercitasse in maniera
ancora più nascosta in ragione della sua natura e che avesse come fonte la pura
intellettualità; potenza che, peraltro, non essendo sminuita dalla divisione
inerente alla molteplicità e dalla debolezza che comporta tutto ciò che è
menzogna o illusione, sarebbe intensificata per la concentrazione nell’unità
principiale e si identificherebbe con la forza stessa della verità.
[1] Ciò che gli uomini chiamano il caso è semplicemente la loro ignoranza delle cause; e se, dicendo che qualcosa accade per caso, si pretendesse di dire che non vi è alcuna causa, si tratterebbe di una supposizione di per sé contraddittoria.
[2] Oltre ai cenni fatti in altri suoi studi, René Guénon si è dilungato su questa questione in Autorità Spirituale e Potere Temporale (n.d.t.).
[3] È sufficiente leggere San Tommaso d’Aquino per vedere che «numerus stat ex parte materiæ».
[4] Da un ordine di realtà all’altro, l’analogia, qui come in tutti i casi simili, si applica strettamente in senso inverso.
[5] Questa tendenza è quella che la dottrina indù chiama tamas, e che assimila all’ignoranza e all’oscurità: si noterà che, secondo quanto abbiamo detto prima sull’applicazione dell’analogia, la compressione o condensazione di cui si tratta è all’opposto della concentrazione considerata nell’ordine spirituale o intellettuale, di modo che, per singolare che questo possa apparire di primo acchito, tale compressione è in realtà correlativa della divisione e della dispersione nella molteplicità. D’altronde, lo stesso vale per l’uniformità realizzata dal basso e cioè, secondo la concezione «egualitaria», al livello più infimo, la quale è all’estremo opposto dell’unità superiore e principiale.
[6] È per questo che Dante pone il soggiorno simbolico di Lucifero al centro della terra, vale a dire nel punto in cui convergono da tutte le parti le forze della pesantezza; e da questo punto di vista si tratta dell’inverso del centro di attrazione spirituale o «celeste», che è simboleggiato dal sole nella maggior parte delle dottrine tradizionali.
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