Carmela Crescenti
Islâm
interiore e dottrina in Ibn ‘Arabî
Volendo
parlare di islâm e di Ibn Arabî, non si può far altro che introdurre
all’ambiente e alla dottrina sufi in cui Ibn Arabi si inserisce a pieno titolo.
Diremo quindi, semplificando, che “sufismo” traduce
quasi impropriamente e come calco, la parola “tasawwuf”
che può voler indicare la “pratica della purezza” o la “frequentazione
dell’abito di lana” (sûf) di cui
tipici rappresentanti erano i compagni del Profeta, denominati Ahl al-Suffa, ossia “Genti della
tettoia” dalla costruzione di legno e paglia che serviva loro da riparo nella
cinta della casa del Profeta, presso cui questi compagni vivevano, in assoluta
povertà, come ospiti, per usufruire in via diretta dell’insegnamento del Profeta.
Essi furono un primissimo gruppo di “poveri in Spirito” o “indigenti” di fronte
a Dio (fuqarâ’ o dervisci) bisognosi di Lui più d’ogni altra cosa.
Questa povertà spirituale all’epoca del Profeta era
comunque già praticata anche da altri, meno bisognosi materialmente, come ad
esempio Abu Bakr, che spese tutto il suo patrimonio per la causa dell’islâm e
che, insieme ad Alî, cugino e genero del Profeta, costituisce il secondo anello
di molte delle catene di uomini spirituali che con la loro successione, anche
storica, garantiscono il tramandarsi regolare dell’influenza spirituale
profetica, ossia islamica; influenza spirituale traducibile in arabo con baraka che, dall’interno dei cuori degli
uomini spirituali si trasmette da maestro a discepolo ed è ancora oggi ciò che
si scambia nei patti iniziatici di affiliazione ad una Via (tariqa) per vivificare
spiritualmente i cuori, le intelligenze e gli atti di coloro che sono adatti a
recepirla.
Ibn Arabî (560/1165 – 638/1240),
letteralmente “Figlio di Arabi”, era discendente da una nobile famiglia araba,
che contava tra i suoi avi un famoso poeta della jahiliyya[1],
Hatim al-Ta’î conosciuto per la sua generosità e la fama di gentiluomo, secondo
gli ideali di allora. Ibn Arabî per parte di madre era berbero, come pure
berberi furono molti suoi maestri e sufi con cui ebbe familiarità fin da
giovanissimo, alcuni di loro furono suoi parenti che vissero e morirono in fama
di santità.
Infatti il tasawwuf come presenza di uomini
riconosciuti in qualità di santi era molto rappresentato alla sua epoca e nella
sua regione di nascita e di vita, come lui stesso attesta nella sua opera Rûh al Quds (Lo Spirito di Santità)[2]
e in altri suoi scritti.
In particolare due scuole di pensiero vi si erano
diffuse: una nota come la scuola di Almeria che ebbe come rappresentanti
principale Muhammad Ibn al-Arif, autore di un trattato di sufismo
intitolato: Mahâsin
al-majâlis[3] ed un’altra non conosciuta come “scuola”
ma piuttosto come “vivaio” di uomini spiritualmente dotati i cui componenti
erano per la maggior parte risedenti in Marocco; tra essi di spicco fu Abu
Madyan che ebbe legami sottili e spirituali con Ibn Arabî, pur non avendolo mai incontrato sul
piano fisico corporeo. Altro maestro spirituale della stessa “catena”
iniziatica o tipologia di influenza
spirituale fu Abu-l-Abbas al-’Uryabî, berbero illetterato, che fu il primo
maestro spirituale “terreno” di Ibn Arabi e che aveva, a detta dello stesso Ibn
Arabî, la perfezione dello stato di servitù totale rispetto a Dio (ubudiyya).
Questo della “ubudiyya”
è uno dei concetti chiave dell’islâm interiore quale ce lo presenta il maestro,
perchè la totale sottomissione a Dio (islâm)
non si realizza se non nella condizione di costante consapevolezza dell’esser
“servi” in quanto esseri condizionati dal Principio. L’uomo, in quanto tale è
sempre servo rispetto al suo Signore, ma se ne diviene pienamente consapevole,
“attuando” tale sua condizione, arriverà a riflettere gli attributi divini e
ciò di cui Dio stesso lo avrà provvisto, per render attuale la Sua Divina Volontà
sulla terra. Non si tratta di una semplice condizione di passività ascetica, ma
di comprensione attiva e consapevole della condizione di dipendenza della
creatura dal Principio da cui deriva. Come s’è detto tale condizione c’è
sempre, dovunque e per ogni cosa, ma proprio ciò che contraddistingue l’uomo è il
deposito affidatogli nei confronti di tutti gli altri esseri, cioè la
possibilità di esser ricettacolo dell’insegnamento divino e
dell’attualizzazione del divino sulla terra. E’ ciò che differenzia l’uomo
dalle altre creature, ove perfino gli angeli non hanno avuto altra scelta che
quella indicata dalla scienza trasmessa loro da Dio, così come le cose create
non hanno altra scelta che quella racchiusa nell’ambito della loro ricettività
delle qualità divine con cui Dio le realizza.
Vi sono qui tre importanti filoni di richiamo
specifico alla dottrina tradizionale così come è espressa in Ibn ‘Arabî:
la derivazione coranica e tradizionale
dell’approccio alla conoscenza spirituale,
la questione dei Nomi Divini
la visione dell’uomo secondo l’espressione Ibn
Arabiana della dottrina.
La prima questione è legata alla concezione
epistemologica della conoscenza e Ibn ‘Arabî stesso dà indicazioni precise su
come affrontare lo studio della sua stessa opera.
Dice Ibn Arabî:
“Di tanto in tanto mi accade di avere la necessità di porre al vero
inizio di questo libro [le Futûhât] un capitolo riguardante gli statuti della
fede (aqâ’id)[4]
supportati da argomenti definitivi e prove salienti, ma poi ho realizzato che
ciò distrarrebbe la persona che è preparata adeguatamente e rivolta a crescere,
che è ricettiva dei “soffi fragranti della bontà” attraverso i segreti
dell’essere. Perchè se la persona adeguatamente preparata persiste nel dhikr e nel ritiro in isolamento
(khalwa) riempiendo il luogo
[del cuore] di meditazione e sedendo come un povero indigente che non possiede
nulla, presso l’uscio del suo Signore - allora Dio si occuperà di lui e gli
concederà qualcosa della Sua Conoscenza, di quei segreti divini e intendimenti
superiori che ha concesso al Suo Servo al-Khidr[5].
Infatti Egli ha detto: «E s’imbatterono in uno dei nostri servi, cui avevamo
dato Misericordia da parte nostra e cui insegnammo della Nostra Propria
Scienza» (Cor. 18:65) e ha detto «Sii dunque timorato di Dio e Dio ti insegnerà»
(Cor. 2:282) e «Se sarai dedito a Dio (taqwa)
Egli ti darà un criterio (furqân) ed
una luce nella quale camminerai» (Cor. 57:28)[6]
Alla luce di queste parole è dunque ben evidente
come l’insegnamento di Ibn ‘Arabi sia rivolto a persone che abbiano già
acquisito un certo grado di fede, superiore a quello del semplice conformismo (taqlîd), basato sui dogmi aqâ’id e le indicazioni etiche di tipo
esclusivamente religioso. Esse sono considerate preliminari alla crescita
spirituale, come compare nel seguito del discorso ove il maestro fa parlare dei
famosissimi sufi a lui precedenti.
“Qualcuno disse a Junaid: “Come hai raggiunto ciò
che hai raggiunto? Ed egli rispose - Con lo star seduto su questo tappeto per
30 anni”. Abu Yazid al-Bistami disse:
“Tutti voi ricavate la vostra conoscenza come una persona morta che la riceve
da un altro morto, mentre noi ricaviamo la nostra conoscenza dal Vivente che
non muore”[7]
Prosegue poi Ibn Arabî: “Così la persona con
intenzione spirituale (himma)
concentrata durante i suoi ritiri in Dio, può realizzare mediante Lui - che sia
glorificato ed esaltato - le conoscenze che sono nascoste ai teologi (mutakallimûn) sulla faccia della terra e
a chiunque faccia affidamento sulla speculazione (nazar)
e sulle prove (razionali dalîl) in
mancanza di questo stato individuale. Perchè questa conoscenza è al di là
dell’investigazione intellettuale. Infatti ci sono tre livelli di conoscenza:
A) Conoscenza attraverso l’intelletto (‘ilm al-’aql) ed è qualsiasi conoscenza
ottieni sia immediatamente, sia come risultato di investigazione riguardante i
segni, purchè scopri gli aspetti probanti di tali segni[8]
S’inganna rivolgendosi a
questo genere di conoscenza chi ne è vincolato e tipicizzato perchè dice
riguardo a questo tipo di conoscenza che qualcosa ne è pura affabulazione e quindi qualcosa di non valido.
B) Il secondo livello di conoscenza è
la conoscenza degli stati (ahwâl)
L’unica via a ciò è quella dell’esperienza, non può esser definita
intellettuale, né v’è alcuna prova concettuale che possa stabilire che sta
conoscendo. Questo tipo di conoscenza include il sapere che il miele è dolce o
che l’aloe è amaro, il piacere della relazione, dell’amore, dell’estasi, della
brama passionale ed altro. E’ impossibile avere questo genere di conoscenza
senza diretta esperienza e partecipazione: Così quel che è nominato “errante”
rispetto a questo genere di conoscenza non lo è veramente e quelli che hanno
immediata esperienza non sono veramente in errore... (Futûhât I 139)
C) Il terzo livello di conoscenza è quello
dei segreti (asrâr) ed avviene
attraverso lo stadio dell’intelletto (‘aql)
ma è conoscenza per insufflazione dello Spirito Santo nel cuore ed è peculiare
ai Profeti e ai Santi.
La conoscenza ispirata è di due tipi. Uno è percepito
tramite l’intelletto, così come il primo tipo di conoscenza, tranne il fatto
che la persona che conosce in questo modo non deve acquisire la sua conoscenza
mediante inchiesta. Inoltre il livello di questa conoscenza è al di sopra di
essi.
Il secondo tipo è di due varietà: la
prima connessa con il secondo livello (quello degli stati spirituali) tranne
per il fatto che questo stato del conoscitore è più elevato. L’altra varietà è
a seconda dell’informazione spirituale. Ora le cose conosciute in questo modo
possono essere sia vere che false, ma la persona che ne è informata conferma la
verità della loro sorgente ed infallibilità con riguardo a ciò che è
comunicato, così come l’esser informato da Dio oppure l’esser informato del
Paradiso e di tutto quel che vi si trova.” (Futûhât I 140)
Vediamo dunque in questa lunga
citazione come la conoscenza secondo Ibn Arabî avvenga per gradi, secondo
livelli di profondità interiore e come non possa essere considerata avulsa da
una pratica rituale preliminare, atta a purificare le facoltà di ricezione,
esemplata dal simbolo del cuore.
E’ ben esplicita inoltre, la diretta derivazione
coranica e tradizionale di Ibn Arabî e del suo insegnamento ed è fondamentale
considerare come egli stesso consideri costantemente tali fonti e non soltanto
come riferimento alla parola divina trasmessa, bensì come sorgente viva di
continua conoscenza: ciò è mostrato anche laddove parla dell’eventualità, non
fortuita naturalmente, di ottenere tra i doni spirituali, quello di ricevere
come rivelazione personale i versetti coranici o gli ahâdith, comprensivi a volte di spiegazioni o riferimenti specifici
a contingenze dall’apparenza occasionale. Questo modo di ottenere una conferma
della rivelazione è ovviamente frutto del legame spirituale di chi ottiene tali
tipi di doni con la fonte di riferimento ed è appannaggio dei più elevati tra i
santi, anche se non è escluso che qualche occasionale comunicazione di questo
tipo possa avvenire per un musulmano pio, senza collegamento spirituale iniziatico.
Ottenere karamat (doni spirituali,
carismi) di tal sorta, ossia chiavi di comprensione dei versetti o trasmissione
diretta di ahâdith, sì da avvallarne
con la contemplazione la testimonianza della conoscenza spirituale, diversa da
quella puramente mnemonica del
conformismo (taqlîd) o da quella
speculativa, ma anche logica o razionale, della teologia (kalam) è conoscenza iniziatica, nominata svelamento (kashf), intuizione (tajallî), o apertura spirituale (fath).
La conoscenza per svelamento, tuttavia, non è la
finalità del tasawwuf, anche se fa parte delle
vie d’accesso a ciò che è considerata la meta più elevata, ossia una corretta
ed esperienziale conoscenza dell’Unicità di Dio (tawhid).
Corretta e diretta consapevolezza esperienziale che non è possibile ottenere se
non con mezzi spirituali specifici, che vanno dai rituali di collegamento con
una discendenza spirituale vivente (silsila),
all’insegnamento particolare di un maestro (tarbiya),
dalle prove più disparate di ascetismo (zuhd),
ad una più profonda e consapevole pratica dei riti comuni a tutti i musulmani (shari’a). La lettura dell’opera
di Ibn Arabi può avere un ruolo in tal senso, laddove è utilizzata come
supporto informativo, ma anche educativo e di guida, anche se non è una
modalità fortemente consigliata e
soprattutto non è la modalità esclusiva e principale di avvicinamento al
Principio, dell’essere che si trova “perennemente in viaggio”.
Comunque la modalità di conoscenza per svelamento è
un argomento molto trattato nell’opera di Ibn Arabî, per esempio ne dà una
formulazione estremamente minuziosa in un testo abbastanza noto sulle modalità
del viaggio “verso il Signore della Potenza”: un testo noto anche come
“Epistola della Luce”[9].
Ivi così è detto: “Se vedi l’immagine di una persona o di un’azione di qualcosa
della creazione, chiudi gli occhi: se la percezione (kashf) permane allora era nella tua immaginazione, se
svanisce o scompare la percezione conoscitiva (idrâq) si legherà al luogo in cui hai avuto la visione; ma se te ne
distogli e continui ad assorbirti nell’invocazione (dhikr), passerai dalla percezione sensibile a quella
immaginativa e le idee intelligibili (al-ma’anî
al-‘aqliyya) discenderanno su di te sotto forma di percezione sensibile.
Questa rivelazione (tanazzul) è
difficile che si verifichi perché la scienza di quel che intendo con tale
immagine non la detiene se non un profeta o chi Dio vuole di fra i “veridici”[10],
non startene quindi a preoccupare.
L’argomentazione razionale preclude la comprensione
della realtà (haqîqa) della Sua
Essenza mediante la “proprietà immutabile” (al-sifatu
al-thubutiyyatu al-nafsiyyah) secondo la quale Egli in Se Stesso è, in
quanto la ragione con la sua riflessione non può comprendere che gli Attributi
e nient’altro[11].
Le prove tradizionali, infatti, alludono
all’Essenza, ma non sono spiegazioni perchè è interdetto all’uomo di speculare
sull’Essenza, è infatti considerata impossibile la Scienza della Sua Essenza ed
è perciò precluso, secondo l’interpretazione, anche “legale” del versetto:
«Allâh vi mette in guardia contro Se Stesso» (Cor. III 28)
Le prove tradizionali sono le formulazioni inerenti
Allâh presenti nel Corano o trasmesse negli ahâdith
(detti tradizionali del Profeta) alla quale un musulmano è tenuto a credere
quand’anche esse siano razionalmente incomprensibili. Tra i vari esempi sono le
formulazioni antropomorfiche riguardo a Dio, nonchè l’incomprensibilità
razionale di certi versetti apparentemente in contraddizione con altri: per
esempio come è possibile che il Profeta possa essersi avvicinato al Suo Signore[12],
se Allâh non può avere limiti spaziali o temporali? Le prove tradizionali sono
tuttavia un formidabile appoggio alla pratica della conoscenza per
contemplazione, perchè creano sconcerto e perplessità e danno il via, il punto
di partenza per la rinuncia del mentale.
V’è poi la questione dei Nomi Divini, legata
anch’essa all’origine coranica: “laddove il Legislatore ha attribuito a Se
stesso delle realtà con cui Si è caratterizzato, realtà che le argomentazioni
razionali non possono cogliere se non con un’interpretazione remota (ta’wil ba’id).
D’altra parte ciò che è ingiunto, nell’islâm,
riguardo alla conoscenza è di avere scienza del tawhid:
l’Unicità divina, non meditare sull’Essenza; ciò su cui si può e si deve
meditare è il tahwid, il che vuol
dire riflettere per le genti comuni e contemplare per le genti della
realizzazione spirituale. Le prove tradizionali di ciò sono, secondo il
maestro, nelle trentasei attestazioni di unità del Corano, ossia i versetti in
cui compare l’affermazione che non v’è altro Dio che Dio, riunite da Ibn Arabi
in uno dei più lunghi capitoli delle Futûhât, di cui una in particolare è in
relazione alla scienza: «...sappi
che non v’è Dio se non Dio; chiedi dunque perdono del tuo peccato e del peccato
dei credenti e delle credenti. Iddio conosce il vostro agitarvi sulla terra e
la vostra finale dimora » (Cor. 47:19)
Allâh è il nome di Dio principale in quanto nome
“onnicomprensivo” ossia comprendente sia l’Essenza inconoscibile ed attestata
nella teologia apofatica o della negazione, sia tutte le realtà legate alle
varie modalità dell’Essere divino, insite nelle Possibilità innumerevoli di
manifestazione, distinte in teologia come Attributi ed Atti.
Vita, Parola, Scienza, Volontà, Potenza, Udito,
Vista sono i notissimi attributi dell’Essenza, qualificativi divini presi nella
loro accezione più completa, che denotano altrettante modalità d’essere. Colui
che determina la vita o la non-vita di tutti gli esseri esistenti, sia
globalmente, sia individualmente, ha il Nome divino Vita (al-Hayy) senza esser minimamente intaccato dal fatto di avere anche
il nome divino di “Colui che dà la morte” (al-Mumît)
o di “Il Vivente che non muore”. Non v’è difficoltà a considerare Onniscente,
Onnipotente, Onniveggente, Onniudente, o Piena Volontà l’entità estrema di
riferimento, purchè l’attribuzione con siffatte qualità non venga a dare
connotazioni limitative ed antropomorfiche a quel che si vuole designare.
Prendendo origine dal famoso detto profetico,
qualificato di “santo” (qudsî) perchè
Parola Divina mediata dalla forma umana del Profeta, secondo cui “Dio ha 99
Nomi Bellissimi, chi li conosce entrerà nel Supremo Paradiso”, troviamo la
tradizionale enumerazione dei 99 Nomi divini, ai quali Ibn Arabî aggiunge tutti
quelli che possono qualificare anche singole e particolari modalità, perchè Dio
è colui stesso che dà i Nomi e li conosce tutti, ma anche è al di là di ogni
qualificazione. Nella Dottrina di Ibn ‘Arabî pertanto siffatti “qualificativi”
sono Attributi (na’t) o Qualità (sifât) solo nella misura in cui si
considera la autoqualificazione del Principio nei confronti della Sua
Manifestazione, e molto spesso più che di Nomi egli parla di “Relazioni” (nisâb) indicando con i vari Nomi il tipo
di “informazione” divina che le cose dell’esistenza assumono. In un’altra
prospettiva, parla di “ricettacoli”, o “matrici” o “uteri” ossia “luoghi
metaforici” delle formazioni dell’universo.
Il postulato di una modalità essenziale di
non-qualificazione del Principio, spesso designato in tal senso con il Nome di
al-Haqq, Vero o Realtà assoluta, Dio Vero o Divinità Trascendente quant’altre
qualificazioni, non è in contraddizione con la determinazione di Dio come “Ciò
che si trova nell’esistenza e la fa trovare” ed il termine “trovare” (wajada) è la radice araba che designa
sia l’Esistenza, sia l’Essere della Divinità in quanto “ciò che è” non è
distinto da ciò che “esiste” in assoluto (wujûd).
Come ha ben mostrato Cittick[13],
quando Ibn Arabî parla dell’Essenza ha in vista l’incomparabilità e la
trascendenza divina, quando invece parla degli Attributi divini e delle loro
relazioni con le cose create, ha in vista la “comparabilità” ossia l’immanenza
secondo un accostamento, non sempre indiscutibile, con la terminologia
platonica.
Il Principio inteso contemporaneamente sia come
Ontologico sia Sovraontologico, Realtà Totale e particolarizzatrice, può essere
considerato infatti sia come “Altro” nel senso che “Non v’è altro che Allâh”,
alterità sublime rispetto all’Universo, Realtà dell’assolutamente
indifferenziato, di cui nulla si può dire se non “Lui”/ “Non-Lui”, con
l’utilizzo del pronome della lontananza, designante l’assente o l’alterità, sia
come Realtà Universale suprema, comprensiva di tutti gli aspetti e quindi in
condizione di “comparabilità” in virtù di tali aspetti. Ibn Arabî precisa a più
riprese che è tuttavia sempre necessario attenersi ad un giusto mezzo, ad una via mediana
per non incorrere in errori di esagerazione nell’uno o nell’altro senso. Un
assoluto purismo si troverebbe infatti a negare Dio come un’eccessiva
attribuzione darebbe spazio ad una visione puramente panteistica o eccessivamente immanentistica. Se si
considerasse soltanto l’Essenza, provocheremmo un’astrazione esagerata (ta’tîl) che staccherebbe Allâh dalle Sue
produzioni o creature, mentre se considerassimo solo la comparabilità,
assimileremmo ogni cosa a Dio cadendo nel panteismo.
E’ tuttavia legato alla comparabilità (tashbih) tutto il discorso sui Nomi
Divini essendo essi concepibili come altrettante relazioni laddove prendiamo la
Manifestazione come parusia del Principio nelle forme che ha voluto e con le
modalità da Lui previste.
E alla comparabilità è legata anche la visione
dell’uomo come uomo trascendente, ossia vicario di Dio sulla terra. Khalifa ossia luogotenente o
sostituto è il termine utilizzato nell’islâm e ad esso Ibn Arabî dà una valenza
speciale sia sul piano umano laddove, in quanto individuo particolare
realizzatore di perfezione è rappresentato in primis dall’Uomo Primordiale
Adamo, sia sul piano essenziale, ove il confronto con il divino si pone in
termini di possibilità di ricezione degli aspetti divini e diviene Uomo
Universale, di cui il Cosmo è simbolo. L’uomo degno di questo nome, non è più
soltanto “animico”, ma eminentemente “spirituale” e trascendente le pure
condizioni umane, in piena sintonia con la pienezza delle possibilità di
ricezione di cui s’è detto e colui che ha pienamente attuato una simile
prospettiva è indicato dal nostro nel profeta Muhammad nome che in arabo
significa “ricettacolo della Lode”
e che come “sigillo dei profeti”, è noto come avente molti altri nomi, tra cui
quello di Jami’ ossia “Sintetizzante” o “Totalizzante” tutti i caratteri e le
specificità possibili all’uomo che realizza la perfezione del suo stato e la
trascende in Dio, al fine di lodarLo come a Lui si conviene, essendo Egli Colui
a cui spetta la Lode. Non a caso, dice Ibn Arabi, il nome celeste di Muhammad è
Ahmad dato dalle stesse lettere radicali della parola “lode” HMD e che
vuol dire “il più lodato”.
Articolo apparso su Simplegadi (opuscolo della Associazione
filosofica trevigiana)
[1] Così è denominata l’epoca
“dell’ignoranza” precedente l’avvento dell’islâm.
[2] Traduzione francese dal titolo “Les Soufis d’Andalousie” a c. di
J.Austin, Parigi, 1979
[3] Traduzione italiana dal titolo: Sedute Mistiche a c. di P.Urizzi, ediz.
L’Ottava, Catania, 1985
[4] Ci
sono infatti nelle Futûhât ben tre credi introduttivi, posti nella Qutba e
nella Muqaddima, ossia nella prefazione e
nell’introduzione.
[5] AL KHIDR
è il personaggio misterioso che Mosè ebbe per maestro nella sua via spirituale. Di ciò
si parla nella sura della Caverna, Cor.18: 65-82
[6]
FURQAN compare 7 volte nel Corano e indica un particolare discernimento o
metodo conoscitivo o anche la sorgente della rivelazione o il grado della la
consapevolezza, o la guida divina come la SAKINA (grande pace) o HUDA (guida divina)
garantite ad alcuni Profeti. Esser
“dedito a Dio” o “timorato” è il taqwa
“timore spirituale” che può avere la valenza anche di “paura cosmica” di fronte
alla Maestà Divina, è propriamente la pietà che insorge di fronte alla
fiduciosa consapevolezza del timorato
[7] V’è qui il riferimento ad
un versetto 25:58 che è bene riportare anche con il suo contesto per ricordarne
il riferimento al Profeta: «Dì: Non
vi chiedo per questo ricompensa alcuna, ma solo che qualcuno voglia sceglier la
Via del Signore! (57) Tu confida nel Vivente che mai non muore e canta la Sua
Lode: Egli conosce i peccati dei servi. - Colui che ha creato i Cieli e la
Terra e quel che v’è frammezzo in sei giorni, poi s’assise sul Trono: il
Misericordioso: Interroga chi n’è informato
[8] IMMEDIATAMENTE (darûratan)
o “necessariamente” è qualcosa di conosciuto per “necessità” o per diretta
evidenza, che non è possibile rifiutare o rigettare. Cfr. darûratan nel
linguaggio del kalam;
SEGNI o “prove” (dalîl), nel linguaggio del kalam costituisce una prova
logica di dimostrazione o una premessa data come appoggio.
[9] Questa epistola, pubblicata in varie
edizioni, è stata più volte tradotta in inglese, in francese ed in italiano.
L’ultima traduzione in termini di tempo è quella a cura di A.Jacovella
intitolata Epistola dei settanta veli ed. Voland, Roma, 1977
[10] I siddiqîn
una categoria di santi particolarmente elevata.
[11]
Risâlat al-anwâr in Rasâ’il sayyidî Muhyî al-Dîn ibn Arabî a
c. di Abd al-Rahmân Hasan Mahmûd , il Cairo, 1986 , p.11
[12] «Quando si avvicinò di
due archi o meno ancora.» Cor. 53:8
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