Havismat
(Guido De Giorgio)
Commento al V Canto della Divina Commedia
Commento al V Canto della Divina Commedia
Minos, a guardia del secondo cerchio, legislatore
e giudice, rappresentante di un ciclo tradizionale a Creta dove si celebravano
i misteri di Cibele è qui il distributore delle gerarchie infernali, e il
cingersi la coda per significare l’ordine di […?] può intendersi come l’immagine
di una involuzione del sapere che determina l’assegnamento
a tale o tal’altro cerchio.
Perciò egli è il “conoscitor de le peccata” cioè dell’ignoranza.
La bufera infernale agita coloro “che la ragion sottomettono
al talento” ciò che, generalmente, può
indicare l’opzione incosciente della via di salvezza che determina “cadute”
irreparabili, metodi deviatorï più che risolutivi: la pena è infatti un non mai
stare, un non mai toccare la meta, esattamente il contrario della pax profunda che
caratterizza l’acquisizione degli stati superiori. I nomi: Semiramide, Didone,
Elena, Achille, Paris, Tristano tutti, il terzo e il
quarto soprattutto, allusioni a
complessi mutamenti nell’ordine contemplativo e attivo e queste sono anime “ch’Amor di nostra vita dipartì” frase che può dare a riflettere se è Amore,
nel senso mistico, che […?] spinta ad abbandonare la vita (e sarebbe da vedere
se quel “nostra” non sia anch’esso
iniziatico). Ma, più
giù, troviamo
Poscia
ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar
le donne antiche e’ cavalieri
pietà
mi giunse e fui quasi smarrito
Le donne antiche e i cavalieri sono curatori
d’Amore, anche se deviati nella loro ricerca. L’ultimo senso mostra la
meraviglia di Dante di nanzi alla pena inflitta a dei
cercatori di verità.
L’episodio di Francesca permette molti
più dubbi nella realtà d’una tragedia d’amore: o per
meglio dire è una vera tragedia dell’Amore che Dante espone; metodi di
realizzazione imperfetti. “Amor ch’al cor gentile atto
s’apprende” è il desiderio della conoscenza che anima ogni “cor gentile”, cioè disposto a svilupparla.
“Amor ch’a nullo amato amar perdona” è l’opzione di un
metodo, probabilmente magico, che
impedisce a chi vi s’è consacrato di recedere, le pratiche avendo un carattere
di “fatalità”. “Amor condusse noi ad una morte”: qui s’accenna
alla “caduta” che segue un metodo tanto più pericoloso quanto è più violento: e
il “doloroso passo” è l’acme di questa tragedia d’Amore, la precipitazione nel mondo
infero di chi ha mal tentato la scalata del Paradiso. Che possa trattarsi di
una vera e propria tragedia iniziatoria lo dimostra il riferimento, nel racconto di
Francesca, a Lancelot, cavaliere della tavola rotonda, e a Gallehault “principe delle isole
lontane” (qui forse si allude a Thulé, “isola dei Beati” o tutt’altra dimora
nell’estremo nord come riferimento a un centro tradizionale, a una qibla, simbolicamente, e forse geograficamente,
posta in una solitudine inaccessibile pei profani).
Gallehault serve d’intermediario tra Lancelot
e Ginevra, che è la Donna amata cioè la conquista
della saggezza, e il libro letto da
Francesca serve egualmente d’intermediario nell’amore di Paolo per Francesca.
Questo libro del ciclo è palesemente un
romanzo di cavalleria a contenuto simbolico, quindi iniziatorio: ora è appunto
in questo libro che leggono Paolo e Francesca e la lettura, dice Francesca, “scolororci il viso” cioè
dette vertigini di conquiste di stati superiori familiari a chi è al corrente
di certe cose. Ma è un “punto” che determina questa
specie di dramma mistico, quando Lancelot suggella la conquista di uno “stato d’unione”
– “il disiato [?] — con
un possesso reale: a questo punto, [?] il racconto di Francesca in un modo
particolarmente suggestivo: si allude nel verso “quel giorno più non vi
leggemmo avante” alla realizzazione
effettiva che segue una preparazione dottrinale (il libro?)? In ogni modo il verso “Galeotto fu il
libro e chi lo scrisse” non sembra
avere nessun tono imperatorio come comunemente s’intende, perché se l’amore,
sia pure profano, congiunge così strettamente questi due spiriti, essi non possono
maledire ciò che questo amore ha palesato. Le parole precedenti di Francesca “Nessun
maggior dolore – che ricordarsi del tempo felice – ne la miseria” sembrano proprio alludere a quelle “cadute” fatali e irrimediabili nel sentiero della
liberazione che fanno intravedere il Paradiso con conseguente precipitare
nelle regioni inferiori.
(Trascrizione da un manoscritto inedito)
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