René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
III. Le dottrine indù
12. Lo «Yoga»
La parola yoga ha propriamente il significato di «unione»; incidentalmente diremo, benché la cosa abbia in definitiva poca importanza, che non sappiamo perché un buon numero di autori europei usi questo termine al femminile, quando è maschile in sanscrito.
Questo termine designa principalmente l’unione effettiva dell’essere umano con l’Universale; applicato a un darshana, la cui formulazione in sûtra è attribuita a Patanjali, esso indica che il darshana ha come fine la realizzazione di questa unione e include i mezzi per pervenire a essa. Mentre il Sânkhya è solo un punto di vista teorico, qui si tratta essenzialmente di realizzazione, nel senso metafisico da noi indicato, checché ne pensino coloro che vogliono vedervi sia una «filosofia», come gli orientalisti ufficiali, sia anche, come certi pretesi «esoteristi» che si sforzano di sostituire con fantasticherie la dottrina di cui sono privi, «un metodo che sviluppa i poteri latenti dell’organismo umano».
Il punto di vista in questione si riferisce a tutt’altro ordine, incomparabilmente superiore a tutto quel che implicano interpretazioni di tal genere, e che sfugge ugualmente alla comprensione degli uni e degli altri; e non c’è da stupirsi, se si tiene conto che in Occidente non esiste nulla di analogo.
Questo termine designa principalmente l’unione effettiva dell’essere umano con l’Universale; applicato a un darshana, la cui formulazione in sûtra è attribuita a Patanjali, esso indica che il darshana ha come fine la realizzazione di questa unione e include i mezzi per pervenire a essa. Mentre il Sânkhya è solo un punto di vista teorico, qui si tratta essenzialmente di realizzazione, nel senso metafisico da noi indicato, checché ne pensino coloro che vogliono vedervi sia una «filosofia», come gli orientalisti ufficiali, sia anche, come certi pretesi «esoteristi» che si sforzano di sostituire con fantasticherie la dottrina di cui sono privi, «un metodo che sviluppa i poteri latenti dell’organismo umano».
Il punto di vista in questione si riferisce a tutt’altro ordine, incomparabilmente superiore a tutto quel che implicano interpretazioni di tal genere, e che sfugge ugualmente alla comprensione degli uni e degli altri; e non c’è da stupirsi, se si tiene conto che in Occidente non esiste nulla di analogo.
Dal punto di vista teorico lo Yoga completa il Sânkhya introducendo la concezione di Îshwara che, identico all’Essere universale, permette prima di tutto l’unificazione di Purusha, principio multiplo se considerato esclusivamente nelle esistenze particolari, e poi di Purusha e di Prakriti, perché l’Essere universale, essendo il loro principio comune, è al di là della loro distinzione. Lo Yoga peraltro ammette lo sviluppo della natura o della manifestazione così come è descritto dal Sânkhya; ma, assumendola come base di una realizzazione che deve condurre al di là di questa natura contingente, la vede per così dire in un ordine inverso all’ordine di tale sviluppo, e come sulla via di ritorno verso il suo fine ultimo, il quale è identico al suo principio iniziale. In rapporto alla manifestazione il principio primo è Îshwara, o l’Essere universale; ciò non vuole dire che tale principio sia primo assolutamente nell’ordine universale, poiché abbiamo sottolineato la distinzione fondamentale che bisogna fare tra Îshwara, che è l’Essere, e Brahma, che è al di là dell’Essere; ma per gli esseri manifestati l’unione con l’Essere universale può considerarsi come qualcosa che costituisce uno stadio necessario in vista dell’unione con il supremo Brahma. Del resto la possibilità di andare oltre l’Essere, sia teoricamente sia come realizzazione, presuppone la metafisica totale, che lo Yoga-shâstra di Patanjali non ha la pretesa di rappresentare da solo.
Poiché la realizzazione metafisica consiste essenzialmente nell’identificazione tramite la conoscenza, tutto ciò che non è la conoscenza stessa ha solo un valore di mezzi accessori; così lo Yoga assume come punto di partenza e mezzo fondamentale quella che è chiamata êkâgrya, o la «concentrazione». Tale concentrazione è, come Max Müller ammette[1], qualcosa di completamente estraneo allo spirito occidentale, uso a portare tutta la propria attenzione sulle cose esteriori e a disperdersi nella loro molteplicità indefinitamente mutevole; gli è anzi diventata pressoché impossibile, eppure essa è la prima e la più importante di tutte le condizioni di una realizzazione effettiva. La concentrazione può assumere come supporto, soprattutto agli inizi, un pensiero qualunque, un simbolo come una parola o un’immagine; ma in seguito questi mezzi ausiliari diventano inutili, così come i riti e altri «coadiuvanti» che possono essere impiegati congiuntamente in vista dello stesso fine. È d’altronde evidente che il fine non può essere ottenuto coi soli mezzi accessori, estrinseci alla conoscenza, che abbiamo da ultimo menzionato; ma è altrettanto vero che tali mezzi, senza avere nulla di essenziale, non sono affatto da trascurare, dato che possono essere di una grandissima efficacia nel facilitare la realizzazione e portare, se non al suo termine, almeno a suoi stadi preparatori. È questa la vera ragione d’essere di tutto ciò che è designato col termine di hatha-yoga e che è destinato da un lato a distruggere, o piuttosto a «trasformare», quanto nell’essere umano è di ostacolo alla sua unione con l’Universale, e dall’altro a preparare l’unione attraverso l’assimilazione di determinati ritmi legati principalmente alla disciplina della respirazione; ma per i motivi addotti in precedenza, non insisteremo sulle modalità della realizzazione. Comunque bisogna sempre rammentare che di tutti i mezzi preliminari la conoscenza teorica è l’unico veramente indispensabile, e che in seguito, nella realizzazione stessa, è la concentrazione che importerà di più e nel modo più immediato, perché è in rapporto diretto con la conoscenza, e mentre un’azione qualsiasi è sempre separata dalle sue conseguenze, la meditazione o contemplazione intellettuale, chiamata in sanscrito dhyâna, porta in sé il suo frutto; infine l’azione non può avere come effetto di farci uscire dalla sfera dell’azione, ciò che invece implica, nel suo fine autentico, una realizzazione metafisica. Solo che si può andare più o meno lontano in questa realizzazione, o anche fermarsi dopo avere ottenuto stati superiori ma non definitivi; ai gradi secondari si riferiscono soprattutto le speciali regole prescritte dallo Yoga-shâstra; ma invece di superarli in successione, si può anche, benché certo più difficilmente, oltrepassarli d’acchito per raggiungere direttamente lo scopo finale, e quest’ultima via è spesso designata col termine di rajâ-yoga. Tuttavia l’espressione deve riferirsi anche, più rigorosamente, al fine stesso della realizzazione, quali ne siano i mezzi o i modi particolari che devono evidentemente adattarsi il meglio possibile alle condizioni mentali e anche fisiologiche di ciascuno; in questo senso lo hatha-yoga, in tutti i suoi stadi, ha come ragione d’essere essenziale di condurre al rajâ-yoga.
Lo Yogî, nel senso proprio della parola, è colui che ha realizzato l’unione perfetta e definitiva; è quindi indebito attribuire il termine a colui che semplicemente si dedica allo studio dello Yoga in quanto darshana, e anche a colui che segue effettivamente la via di realizzazione che vi è indicata senza essere ancora pervenuto al fine supremo a cui essa tende. Lo stato dell’autentico Yogî è quello dell’essere che ha raggiunto e possiede nel loro pieno sviluppo le possibilità più alte; anche tutti gli stadi secondari che abbiamo citato gli appartengono al tempo stesso e perciò stesso ma, si potrebbe dire, in sovrappiù, e senza maggiore importanza di quanta ne abbiano, ognuno al proprio livello, nella gerarchia dell’esistenza totale di cui sono gli elementi costitutivi. Altrettanto si può dire del possesso di taluni poteri particolari e più o meno straordinari, come quelli chiamati siddhi o vibhûti: lungi dal dover essere ricercati per se stessi, tali poteri sono semplici accidenti che rientrano nell’ambito della «grande illusione», al pari di tutto ciò che appartiene all’ordine fenomenico, e lo Yogî se ne serve solo in circostanze del tutto eccezionali; considerati diversamente, non possono essere che altrettanti ostacoli alla realizzazione completa. Si vede quanto sia priva di fondamento l’opinione corrente secondo cui lo Yogî sarebbe una sorta di mago o addirittura di stregone; di fatto coloro che ostentano certe facoltà eccezionali, le quali corrispondono allo sviluppo di qualche possibilità che non è del resto unicamente di ordine «organico» o fisiologico, non sono affatto degli Yogî, ma uomini che, per una ragione o per l’altra, e generalmente per mediocrità intellettuale, si sono fermati a una realizzazione parziale e inferiore, non superando l’estensione di cui è capace l’individualità umana, e si può essere certi che non andranno mai più lontano. Grazie alla vera realizzazione metafisica, libera da tutte le contingenze, dunque essenzialmente sovraindividuale, lo Yogî è diventato identico a quell’«Uomo universale» di cui abbiamo detto qualche parola in precedenza; ma per trarre tutte le conseguenze che ciò comporta, dovremmo uscire dai confini che intendiamo attualmente imporci. D’altra parte è principalmente allo hatha-yoga, vale a dire alla preparazione, che si riferisce il darshana in merito al quale abbiamo presentato queste poche note destinate soprattutto, nelle nostre intenzioni, a sgombrare il campo dagli errori più diffusi su questo argomento; il resto, vale a dire ciò che riguarda il fine ultimo della realizzazione, deve essere rinviato di preferenza alla parte puramente metafisica della dottrina, che è il Vêdânta.
[1] Preface to the Sacred Books of the East, pp. XXXIII-XXIV.
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