"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 18 giugno 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - III. Le dottrine indù - 16. L’insegnamento tradizionale

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

III. Le dottrine indù
16. L’insegnamento tradizionale

Abbiamo detto che la casta superiore, quella dei Brâhmana ha come funzione essenziale di conservare e trasmettere la dottrina tradizionale; è la sua vera ragione d’essere, perché sulla dottrina riposa l’intero ordinamento sociale, che non può trovare altrove i principi, senza i quali non vi è niente di stabile né di duraturo.
Là dove la tradizione è tutto, coloro che ne sono i depositari debbono logicamente essere tutto; o almeno, poiché la diversità delle funzioni necessarie all’organismo sociale implica un’incompatibilità reciproca e richiede che esse siano adempiute da individui diversi, tali individui dipendono tutti essenzialmente dai detentori della tradizione, giacché se essi non partecipassero effettivamente a quest’ultima non potrebbero neppure partecipare efficacemente alla vita collettiva: è questo il senso vero e completo dell’autorità spirituale e intellettuale che appartiene ai Brâhmana.
È anche, al tempo stesso, la spiegazione del profondo e indefettibile legame che, non soltanto in India ma in tutto l’Oriente, unisce il discepolo al maestro, e di cui invano si cercherebbe l’equivalente nell’Occidente moderno; infatti, la funzione dell’istruttore è davvero una «paternità spirituale», ragione per cui l’atto rituale e simbolico che segna il suo inizio è una «seconda nascita» per chi è ammesso a ricevere l’insegnamento con una trasmissione regolare. L’idea di «paternità spirituale» è espressa molto esattamente dalla parola guru, che presso gli Indù designa l’istruttore, e ha anche il significato di «avo»; alla stessa idea allude, presso gli Arabi, la parola sheikh, che col significato proprio di «vecchio» ha un identico impiego. In Cina la concezione dominante di «solidarietà della razza» conferisce al pensiero corrispondente una sfumatura diversa, e fa assimilare la funzione dell’istruttore a quella di un «fratello maggiore», guida e appoggio naturale per coloro che lo seguono nella via tradizionale, e che diventerà «avo» solamente dopo la morte; ma anche qui, come dovunque, l’espressione «nascere alla conoscenza» è di uso corrente.
L’insegnamento tradizionale viene trasmesso in condizioni che sono determinate strettamente dalla sua natura; per produrre il suo pieno effetto, esso deve sempre adattarsi alle possibilità intellettuali di ognuno di coloro a cui si rivolge, e graduarsi secondo i risultati già ottenuti, cosa che esige, da parte di chi lo riceve e vuole procedere oltre, uno sforzo costante di assimilazione personale ed effettiva. Ciò consegue immediatamente al modo in cui l’intera dottrina è concepita e indica la necessità di un insegnamento orale e diretto, che nulla può sostituire e senza il quale, del resto, il ricollegamento a una «filiazione spirituale» regolare e continua verrebbe inevitabilmente a mancare, se si eccettuano casi del tutto eccezionali dove la continuità può essere assicurata in altro modo, ma che è troppo difficilmente spiegabile con un linguaggio occidentale perché sia possibile soffermarcisi qui. In ogni caso l’orientale è immune dall’illusione, troppo comune in Occidente, secondo cui tutto si può imparare dai libri e che porta a sostituire la memoria all’intelligenza; per lui i testi hanno un mero valore di «supporto», nel senso in cui il termine è già stato da noi più volte impiegato, e il loro studio può essere soltanto il fondamento di uno sviluppo intellettuale, senza mai confondersi con lo sviluppo stesso: l’erudizione è così ricondotta al suo giusto valore, perché è posta al rango inferiore che solo le si addice normalmente, quello di mezzo subordinato e accessorio della vera conoscenza.
Vi è ancora un altro aspetto per cui la via orientale è in antitesi assoluta coi metodi occidentali: i modi dell’insegnamento tradizionale, che lo rendono non precisamente «esoterico», ma piuttosto «iniziatico», si oppongono evidentemente a qualsiasi diffusione sconsiderata, diffusione più nociva che utile agli occhi di chiunque non si lasci ingannare da certe apparenze. Innanzitutto è lecito dubitare del valore e della portata di un insegnamento impartito indistintamente, e in una forma identica, agli individui più variamente dotati, dalle più diverse attitudini e temperamento, come avviene oggi presso tutti i popoli europei: questo tipo di istruzione, certo il più imperfetto fra quanti ne esistono, è imposto dalla mania egualitaria che ha distrutto, non soltanto la vera nozione, ma perfino il senso più o meno vago della gerarchia; eppure per individui, secondo i quali i «fatti» devono soppiantare ogni criterio, come prescrive lo spirito della moderna scienza sperimentale, esisterebbe forse un fatto più evidente, se non fossero così totalmente accecati dai loro pregiudizi sentimentali, di quello delle ineguaglianze naturali, sia in campo intellettuale sia in campo fisico? Per un’altra ragione, poi, l’orientale, che è alieno dal minimo spirito propagandistico, non trovando alcun interesse nel volere diffondere a tutti i costi le sue concezioni, è risolutamente ostile a ogni «volgarizzazione»: gli è che la «volgarizzazione» inevitabilmente deforma e snatura la dottrina volendo porla al livello della mentalità comune, col pretesto di rendergliela accessibile; non la dottrina deve abbassarsi e ridursi alla misura dell’intelletto angusto dell’uomo comune; ma gli individui devono elevarsi, se ne sono capaci, alla comprensione della dottrina nella sua purezza integrale. Sono queste le uniche condizioni in cui può formarsi una élite intellettuale, attraverso una selezione adeguata, dove ciascuno si ferma necessariamente al grado che corrisponde all’estensione del proprio «orizzonte mentale»; ed è anche l’unica remora a tutti i disordini che suscita, quando si generalizza, una scienza che è tale solo per metà, ben altrimenti nefasta della pura e semplice ignoranza; così gli orientali saranno sempre molto più convinti dei concretissimi inconvenienti dell’«istruzione obbligatoria» che non dei suoi supposti benefici, e a nostro avviso hanno perfettamente ragione.
Ben altro ci sarebbe da dire sulla natura dell’insegnamento tradizionale, che è possibile considerare sotto aspetti ancor più profondi; ma poiché non è nostra pretesa esaurire l’argomento, ci limiteremo a queste note, che hanno più diretta attinenza col punto di vista da cui ci poniamo qui; le osservazioni che precedono, lo ribadiamo, non hanno valore soltanto per l’India, ma per tutto l’Oriente; pare dunque che esse avrebbero dovuto trovare un loro posto più naturale nella seconda parte del nostro studio, ma abbiamo preferito differirle, pensando che avrebbero potuto esser meglio comprese dopo quanto avevamo da dire in particolare sulle dottrine indù, le quali costituiscono un esempio estremamente rappresentativo delle dottrine tradizionali in generale. Prima di concludere ci rimane ancora da precisare, il più brevemente possibile, in quale conto si debbano tenere le interpretazioni occidentali delle stesse dottrine indù; per talune, peraltro, lo abbiamo già fatto in modo pressoché esauriente, quando se ne presentava l’occasione, nel corso della nostra analisi.

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