Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
III. Le dottrine indù
8. I punti di vista della dottrina
Le osservazioni precedenti permettono di capire come nell’unità essenziale di una stessa dottrina tradizionale coesista una molteplicità di punti di vista che non modifica in nulla tale unità.
D’altronde, è evidente che nella comprensione di qualsiasi cosa ognuno porta una sorta di prospettiva che gli è propria, e quindi si potrebbe dire che ci sono tanti modi, più o meno differenti, di comprendere quanti sono gli individui, ma ciò vale soltanto per il punto di partenza, perché non appena si travalichi l’ambito individuale, tutte queste differenze, che non comportano alcuna incompatibilità, scompaiono inevitabilmente.
D’altronde, è evidente che nella comprensione di qualsiasi cosa ognuno porta una sorta di prospettiva che gli è propria, e quindi si potrebbe dire che ci sono tanti modi, più o meno differenti, di comprendere quanti sono gli individui, ma ciò vale soltanto per il punto di partenza, perché non appena si travalichi l’ambito individuale, tutte queste differenze, che non comportano alcuna incompatibilità, scompaiono inevitabilmente.
Oltre alla differenza che è così inerente alla natura particolare dei diversi esseri umani, ognuno può ancora, d’altra parte, porsi da parecchi punti di vista per studiare la dottrina sotto questo o quell’aspetto più o meno nettamente definito, e che peraltro potrà esserlo tanto più nettamente quanto più sarà caratterizzato, vale a dire più lontano, nell’ordine discendente delle applicazioni, dall’universalità principale. La totalità dei possibili e legittimi punti di vista è sempre contenuta, in principio e sinteticamente, nella dottrina stessa, e quel che abbiamo già detto sulla pluralità dei significati che un testo tradizionale presenta, è sufficiente a mostrare come tale pluralità possa esservi contenuta; non resterà dunque che sviluppare rigorosamente, secondo questi diversi punti di vista, l’interpretazione della dottrina fondamentale.
È esattamente ciò che accade in India ed è espresso dal termine sanscrito darshana, il quale null’altro significa se non «veduta» o «punto di vista», poiché la radice verbale drish, da cui deriva, ha come significato principale quello di «vedere». I darshana sono dunque i punti di vista della dottrina, e null’affatto, come la maggior parte degli orientalisti pensa, dei «sistemi filosofici» in concorrenza e opposizione reciproca; poiché tutte queste «vedute» sono rigorosamente ortodosse, non possono entrare in conflitto o in contraddizione. Abbiamo mostrato come ogni concezione sistematica, frutto dell’individualismo intellettuale così caro agli occidentali moderni, sia la negazione della metafisica, la quale forma l’essenza stessa della dottrina; abbiamo anche detto quale sia la distinzione profonda fra il pensiero metafisico e il pensiero filosofico, quest’ultimo essendo solo un modo speciale, peculiare dell’Occidente, e che non può applicarsi validamente alla conoscenza di una dottrina tradizionale che si sia mantenuta nella sua purezza e integralità. Non esiste quindi una «filosofia indù», come non esiste una «filosofia cinese», sempre che si voglia conservare alla parola «filosofia» un significato un po’ preciso, significato che è definito dalla linea di pensiero che discende dai Greci; e d’altra parte, se si tiene conto soprattutto di che cosa è diventata la filosofia nei tempi moderni, bisogna ammettere che l’assenza, in una civiltà, di questo modo di pensiero non ha niente di particolarmente deplorevole. Ma gli orientalisti non vogliono vedere nei darshana altro che filosofia e sistemi, a cui peraltro pretendono di imporre etichette occidentali; e tutto ciò perché non sono capaci di uscire dagli schemi «classici» e perché ignorano compiutamente le differenze più tipiche fra la mentalità orientale e quella occidentale. Il loro atteggiamento al riguardo è perfettamente paragonabile a quello di un uomo che, non sapendo nulla dell’attuale civiltà europea, e capitandogli per caso tra le mani i programmi di insegnamento di una università, ne traesse la bizzarra conclusione che gli studiosi europei si dividono in parecchie scuole rivali, che hanno ognuna il proprio sistema filosofico, e fra cui le più importanti sono quelle dei matematici, dei fisici, dei chimici, dei biologi, dei logici e degli psicologi; un abbaglio simile sarebbe quanto mai grottesco, ma non molto di più della concezione corrente degli orientalisti, e costoro non dovrebbero neanche avere la scusa dell’ignoranza, o, per dir meglio, proprio la loro ignoranza non è scusabile. Per quanto sembri inverosimile, è fin troppo certo che le questioni di principio, che essi sembrano eludere per partito preso, non si sono mai affacciate alla loro mente, d’altronde troppo strettamente specializzata perché possa ancora comprenderle e valutarne la portata; si tratta di uno strano caso di «miopia intellettuale» all’ultimo stadio, ed è certissimo che, con simili disposizioni, non arriveranno mai a penetrare il vero significato del minimo frammento di una qualunque di quelle dottrine orientali che si sono dati come missione di interpretare a modo loro, in conformità coi propri punti di vista prettamente occidentali.
Per ritornare alla comprensione vera delle cose, i punti di vista da cui è possibile considerare la dottrina possono essere, evidentemente, più o meno molteplici; ma d’altra parte non tutti sono ugualmente irriducibili, e ad alcuni, i più fondamentali in qualche modo, possono essere subordinati gli altri. Sarà perciò sempre possibile raggruppare i punti di vista secondari intorno ai principali, e soltanto questi ultimi allora verranno considerati separatamente, come tante ramificazioni dello studio della dottrina, perché gli altri danno luogo solo a semplici suddivisioni che nella maggior parte dei casi non sarà nemmeno necessario precisare. Le grandi divisioni, i rami principali, ricevono propriamente il nome di darshana, nel senso assunto abitualmente dalla parola, e in base alla classificazione ammessa generalmente in India se ne distinguono sei, che è importante, essendo in numero uguale, non confondere con quelli che vengono chiamati i sei Vêdânga.
Il significato letterale del termine Vêdânga è «membro del Vêda»; questa denominazione si applica a talune scienze ausiliarie del Vêda, assumendo come paragone le membra corporee tramite le quali un essere agisce all’esterno; i trattati fondamentali che si riferiscono a queste scienze, di cui daremo l’elenco, fanno parte della smriti, e anzi, per il loro diretto rapporto col Vêda, vi occupano il primo posto. La shiksâ è la scienza dell’articolazione corretta e della pronuncia esatta, che comporta, insieme alle leggi dell’eufonia che sono in sanscrito più importanti e sviluppate che in qualsiasi altra lingua, la conoscenza del valore simbolico delle lettere; nelle lingue tradizionali infatti l’uso della scrittura fonetica non esclude il permanere di un significato ideografico, di cui l’ebraico e l’arabo offrono ugualmente l’esempio. Il chandas è la scienza della prosodia, la quale determina l’applicazione dei diversi metri in corrispondenza con le modalità vibratorie dell’ordine cosmico che essi debbono esprimere, e che fa di essi qualcosa di ben diverso dalle forme «poetiche» nel senso meramente letterario della parola; del resto la conoscenza profonda del ritmo e delle sue relazioni cosmiche, da cui deriva il suo uso per certi modi preparatori della realizzazione metafisica, è comune a tutte le civiltà orientali, mentre è completamente estranea agli occidentali. Il vyâkarana è la grammatica, ma che, invece di presentarsi come un semplice insieme di regole che sembrano più o meno arbitrarie perché se ne ignorano le ragioni, come avviene di solito nelle lingue occidentali, si fonda al contrario su concezioni e classificazioni che sono sempre in strettissimo rapporto con il significato logico del linguaggio. Il nirukta è la spiegazione dei termini importanti o difficili che si incontrano nei testi vedici; la spiegazione non si basa soltanto sull’etimologia, ma per lo più anche sul valore simbolico delle lettere e delle sillabe che intervengono nella composizione delle parole; di qui gli innumerevoli errori degli orientalisti, che non possono capire, e neppure concepire, quest’ultimo tipo di spiegazione, in tutto e per tutto proprio delle lingue tradizionali e molto simile a quello che si ritrova nella Cabala ebraica, e che di conseguenza non vogliono, né possono, vedere che etimologie strampalate o addirittura banali «giochi di parole» in ciò che, in realtà, è naturalmente tutt’altra cosa. Lo jivotisha è l’astronomia, ovvero, più esattamente, l’astronomia e l’astrologia insieme, che in India non sono mai separate, non più di quanto lo furono presso tutti i popoli antichi, Greci compresi, i quali si servivano indifferentemente di queste due parole per indicare una stessa e unica cosa; la distinzione fra astronomia e astrologia è tipicamente moderna, e del resto occorre aggiungere che la vera astrologia tradizionale, quale si è mantenuta in Oriente, non ha quasi nulla in comune con le speculazioni «divinatorie» che alcuni tentano di costituire con lo stesso nome nell’Europa contemporanea. In ultimo, il kalpa, termine che d’altronde ha altri significati, è qui l’insieme delle prescrizioni relative all’esecuzione dei riti, e la cui conoscenza è indispensabile perché questi abbiano piena efficacia; nei sûtra che le esprimono, tali prescrizioni sono condensate, con una notazione simbolica particolare, in formule che sembrano abbastanza simili a formule algebriche.
Oltre i Vêdânga occorre ricordare gli Upavêda, parola che indica conoscenze di ordine inferiore ma che tuttavia si fondano su basi rigorosamente tradizionali; l’ordine a cui queste conoscenze si riferiscono è quello delle applicazioni pratiche. Ci sono quattro Upavêda, che sono collegati ai quattro Vêda in quanto vi trovano i loro rispettivi principi: Ayur-Vêda è la medicina, riferita così al Rig-Vêda; Dhanur-Vêda, la scienza militare riferita al Yajur-Vêda; Gândharva-Vêda, la musica, riferita al Sâma-Vêda; Sthâpatya-Vêda, la meccanica e l’architettura, riferite all’Atharva-Vêda. Secondo le concezioni occidentali, queste sono arti più che scienze nel senso proprio della parola; ma il principio tradizionale che viene loro attribuito le investe di un carattere un po’ diverso. Naturalmente questa enumerazione dei Vêdânga e degli Upavêda non esclude le altre scienze che non vi sono comprese, ma di cui alcune furono ugualmente coltivate in India fin dai tempi antichi; si sa che le matematiche soprattutto, che comprendono, col nome generale di «ganita», pâtî-ganita o vyakta-ganita, l’aritmetica, bîja-ganita, l’algebra, e rêktâ-ganita, la geometria, vi subirono, in particolare le prime due, un notevole sviluppo di cui l’Europa attraverso gli Arabi avrebbe più tardi beneficiato.
Data in questo modo un’idea succinta dell’insieme delle conoscenze tradizionali dell’India, le quali del resto sono altrettanti aspetti secondari della dottrina, ritorneremo ora ai darshana, che a loro volta devono essere considerati parte integrante di questo insieme, senza di che si rischierebbe di non comprenderne mai nulla. Infatti non bisogna dimenticare che tanto in India come in Cina una delle offese più gravi che si possano rivolgere a un pensatore è vantare la novità e l’originalità delle sue concezioni, caratteristica che, in civiltà essenzialmente tradizionali, basterebbe a privarle di ogni portata effettiva. Tra coloro che si dedicarono in modo speciale allo studio di questo o quel darshana hanno certo potuto formarsi delle scuole che si distinguono per qualche interpretazione particolare, ma tali divergenze non sono mai arrivate al punto di travalicare i confini dell’ortodossia; basandosi su punti secondari nella maggior parte dei casi, sono in fondo più apparenti che reali, e costituiscono piuttosto delle differenze di espressione, del resto utili per adattarsi a comprensioni diverse. Inoltre è evidente che un «punto di vista» non è mai stato la proprietà esclusiva di qualche scuola, anche se, quando ci si accontenti di esaminarlo in superficie invece di cercare di afferrarne l’essenza, può talvolta sembrare che si identifichi con la concezione della scuola che lo sviluppò in modo particolare; questa confusione è anch’essa tipica degli occidentali, abituati ad assegnare agli individui tutte le concezioni che sono loro familiari, come fossero vere e proprie invenzioni: è questo uno dei postulati per lo meno impliciti del loro «metodo storico», e ai nostri giorni neanche il punto di vista religioso sfugge alle conseguenze di questa forma mentis particolare, che sciorina al riguardo tutte le risorse di questa esegesi antitradizionale da noi già ricordata.
I sei darshana sono il Nyâya e il Vaishêshika, il Sânkya e lo Yoga, la Mîmânsâ e il Vêdânta; di solito li si elenca in questo ordine e a coppie, allo scopo di sottolineare le loro affinità; quanto a voler assegnare un ordine di successione cronologica al loro sviluppo, è questo un problema inutile e senza vero interesse, per le ragioni che abbiamo già esposto, dal momento che si tratta di punti di vista che fin dall’origine erano implicitamente contenuti in perfetta simultaneità nella dottrina primordiale. Per caratterizzare sommariamente questi punti di vista, si può dire che i primi due sono analitici, mentre gli altri quattro sono sintetici; ma gli ultimi due si distinguono dagli altri in quanto sono, in modo diretto e immediato, interpretazioni dello stesso Vêda, dal quale tutto il resto deriva più da lontano; di conseguenza le opinioni eterodosse qui non attecchiscono neppure parzialmente, mentre qualcuna ha potuto formarsi nelle scuole consacrate allo studio dei primi quattro darshana. Siccome definizioni troppo concise sarebbero per forza di cose incomplete, poco intelligibili, e quindi poco utili, abbiamo pensato che fosse meglio riservare un capitolo particolare alle indicazioni generali che riguardano ogni darshana, tanto più che l’argomento è abbastanza importante, rispetto al fine che ci siamo qui prefissi, da meritare di essere trattato con una certa diffusione.
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