Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
IV. Le interpretazioni occidentali
IV. Le interpretazioni occidentali
3. La scienza delle religioni
Un notevole esempio dell’influenza tedesca è offerto da quella che viene chiamata «scienza delle religioni», su cui vale la pena dire qualche parola, poiché la sua origine è precisamente dovuta agli studi di indologia; ciò mostra subito che la parola «religione» non è qui intesa nel significato esatto che noi le abbiamo riconosciuto.
In effetti Burnouf, che per primo, a quanto pare, attribuì a questa scienza, o sedicente tale, la sua denominazione, non include la morale negli elementi costitutivi della religione, riducendoli così a due: la dottrina e il rito; egli, quindi, può comprendervi cose che non si ricollegano minimamente al punto di vista religioso, perché almeno riconosce, giustamente, che nel Vêda non c’è morale.
È questa la confusione di fondo che sta all’origine della «scienza delle religioni» che vuole riunire sotto questo stesso nome tutte le dottrine tradizionali, qualunque sia, in realtà, la loro natura; ma ben altre confusioni sono venute ad aggiungersi, soprattutto dopo che l’erudizione tedesca ha introdotto in questo campo il suo temibile apparato d’esegesi, di «critica dei testi» e di «ipercritica», più adatto a far colpo sugli ingenui che a portare a conclusioni serie.
In effetti Burnouf, che per primo, a quanto pare, attribuì a questa scienza, o sedicente tale, la sua denominazione, non include la morale negli elementi costitutivi della religione, riducendoli così a due: la dottrina e il rito; egli, quindi, può comprendervi cose che non si ricollegano minimamente al punto di vista religioso, perché almeno riconosce, giustamente, che nel Vêda non c’è morale.
È questa la confusione di fondo che sta all’origine della «scienza delle religioni» che vuole riunire sotto questo stesso nome tutte le dottrine tradizionali, qualunque sia, in realtà, la loro natura; ma ben altre confusioni sono venute ad aggiungersi, soprattutto dopo che l’erudizione tedesca ha introdotto in questo campo il suo temibile apparato d’esegesi, di «critica dei testi» e di «ipercritica», più adatto a far colpo sugli ingenui che a portare a conclusioni serie.
La pretesa «scienza delle religioni» riposa tutta su pochi postulati che sono altrettante idee preconcette: così si ammette che ogni dottrina dovette iniziare con il «naturalismo», che noi invece riteniamo solo una deviazione, la quale, dovunque si produsse, si oppose sempre alle tradizioni primordiali e regolari; e a furia di torturare dei testi che non si capiscono, si finisce poi sempre col cavarne qualche interpretazione conforme a tale spirito «naturalistico». Così fu elaborata tutta la teoria «dei miti», e in particolare quella del «mito solare», di cui il più famoso di tutti, il principale propagatore, fu Max Müller, che abbiamo già ripetutamente citato perché è molto rappresentativo della mentalità degli orientalisti, specie di quelli tedeschi, anche se visse in Inghilterra e scrisse i suoi libri in inglese. D’altronde, in questo come in molti altri casi, in particolare quello dell’«arianesimo», elucubrato da Pictet e caldeggiato tra gli altri da Burnouf, i Tedeschi non inventarono nulla, ma semplicemente si appropriarono di concezioni che pensavano di volgere a loro vantaggio: la teoria del «mito solare» altro non è infatti se non la teoria astromitologica formulata e sostenuta in Francia verso la fine del secolo XVIII da Dupuis e Volney[1]. È nota la sua applicazione al cristianesimo, come a tutte le altre dottrine, e già abbiamo segnalato la confusione che essenzialmente implica: non appena si nota nel simbolismo una corrispondenza con certi fenomeni astronomici, ci si affretta a concludere che è solo una rappresentazione di tali fenomeni, mentre questi stessi sono in realtà simboli di qualcosa di tutt’altro ordine, e la corrispondenza constatata è una semplice applicazione dell’analogia che lega armoniosamente tutti i gradi dell’essere. Stando così le cose non è difficile trovare dovunque del «naturalismo», e anzi sarebbe perfino un po’ strano se non lo si trovasse, poiché il simbolo. il quale appartiene necessariamente all’ordine naturale, viene confuso con ciò che rappresenta; in fondo l’errore è il medesimo di quello dei «nominalisti», che confondono l’idea con la parola che serve a esprimerla; e così gli eruditi moderni, incoraggiati peraltro dal pregiudizio che li induce a immaginare che ogni civiltà sia costruita sul modello greco-romano, fabbricano loro stessi i «miti» perché non capiscono i simboli, che è poi l’unico modo in cui essi possono nascere.
Si riuscirà ora a capire perché uno studio siffatto sia da noi qualificato come «presunta scienza», e come ci sia assolutamente impossibile prenderlo sul serio; e occorre ancora aggiungere che, pur fingendo un’imparzialità disinteressata e anzi ostentando la sciocca pretesa di «dominare tutte le dottrine»[2], ciò che è effettivamente un po’ troppo, tale «scienza delle religioni» è il più delle volte un grossolano strumento di polemica nelle mani di quanti vogliono davvero servirsene contro la religione, intesa stavolta nel suo senso proprio e abituale. Questo uso dell’erudizione in uno spirito negatore e disgregatore è naturale per i fanatici del «metodo storico»; è anzi lo spirito stesso di tale metodo, essenzialmente antitradizionale, almeno quando lo si applichi fuori del suo ambito legittimo; ed è la ragione per cui tutti coloro che attribuiscono un valore reale al punto di vista religioso vengono respinti quali incompetenti. Ma tra gli specialisti della «scienza delle religioni» ve ne sono tuttavia alcuni che, almeno in apparenza, non giungono a questo estremo: sono coloro che appartengono alla tendenza, anch’essa tipicamente tedesca, del «protestantesimo liberale»; ma costoro, pur conservando di nome il punto di vista religioso, vogliono ridurlo a un semplice «moralismo», il che equivale, di fatto, a distruggerlo attraverso la duplice soppressione del dogma e del culto, in nome di un «razionalismo» che non è se non un sentimentalismo mascherato. Così l’esito finale è identico a quello che perseguono i puri e semplici non credenti, appassionati della «morale indipendente», benché l’intenzione sia forse meglio dissimulata; in definitiva, è soltanto il risultato logico delle tendenze che lo spirito protestante, il quale si confonde con la mentalità tedesca moderna, portava in sé fin dall’inizio. Recentemente c’è stato un tentativo, per fortuna sventato, di far penetrare questo spirito nello stesso cattolicesimo, sotto la denominazione di «modernismo», ed anche stavolta il movimento è partito dalla Germania; esso si proponeva di sostituire la religione con una vaga «religiosità», vale a dire con un’aspirazione sentimentale che la «vita morale» basta a soddisfare, e a tal fine si dovevano demolire i dogmi sottoponendoli alla «critica» e fondando una teoria della loro «evoluzione», ossia servendosi sempre di quella stessa arma da guerra che è la «scienza delle religioni», la quale forse non ha mai avuto altra ragione d’essere.
Abbiamo già detto che lo spirito «evoluzionistico» è intrinseco al «metodo storico», e si può vederne un’applicazione, fra molte altre. in quella singolare teoria secondo cui le concezioni religiose, o supposte tali, avrebbero necessariamente dovuto passare attraverso una serie di fasi successive, di cui le principali portano comunemente i nomi di feticismo, politeismo e monoteismo. Tale ipotesi è paragonabile a quella che è stata avanzata nel campo della linguistica e secondo cui le lingue, nel corso del loro sviluppo, passerebbero successivamente attraverso le forme monosillabica, agglutinante e flessiva: è una supposizione del tutto gratuita, non suffragata da alcun fatto e a cui i fatti sono anzi nettamente contrari, dato che non si è mai riusciti a trovare il minimo indizio del passaggio reale dall’una all’altra di queste forme; le tre fasi successive sono state semplicemente sostituite, grazie a un’idea preconcetta, ai tre tipi differenti ai quali si ricollegano rispettivamente i diversi gruppi linguistici, ognuno dei quali resta sempre nel tipo cui appartiene. Lo stesso si può dire di un’altra ipotesi di carattere più generale, quella che Auguste Comte formulò col nome di «legge dei tre stati» e dove trasforma in stati successivi ambiti differenti del pensiero, che possono sempre esistere simultaneamente ma tra i quali egli volle vedere una incompatibilità, perché immaginò che ogni possibile conoscenza avesse per oggetto la spiegazione dei fenomeni naturali, ciò che in realtà si applica soltanto alla conoscenza scientifica. Si vede come la fantasiosa concezione di Comte, che senza essere propriamente «evoluzionistica» aveva qualcosa dello stesso spirito, sia affine all’ipotesi del «naturalismo» primitivo, dove le religioni non possono essere che tentativi prematuri e provvisori e allo stesso tempo una preparazione indispensabile di ciò che più tardi sarà la spiegazione scientifica; e nello sviluppo stesso della fase religiosa, Comte pensò inoltre di poter riconoscere, quali altrettante divisioni, i tre gradi del feticismo, politeismo e monoteismo. Non insisteremo ulteriormente a esporre tale concezione, d’altronde abbastanza generalmente nota, ma abbiamo creduto opportuno sottolineare la correlazione, troppo spesso trascurata, tra punti di vista differenti che procedono tutti dalle stesse tendenze generali dello spirito occidentale moderno.
In conclusione, per mostrare in quale conto si debbano tenere le tre presunte fasi delle concezioni religiose, ricorderemo prima di tutto quanto abbiamo già detto, che mai esistette alcuna dottrina essenzialmente politeista, e che il politeismo, come i miti che a esso si ricollegano abbastanza strettamente, non è che una grossolana deformazione, risultato di una incomprensione profonda; d’altronde politeismo e antropomorfismo si generalizzarono veramente solo presso i Greci e i Romani, mentre altrove rimasero nell’ambito degli errori individuali. Ogni dottrina davvero tradizionale è dunque effettivamente monoteista, o, più esattamente, è una «dottrina dell’unità» o anche della «non-dualità», che diventa monoteista quando sia tradotta in modo religioso; quanto alle religioni propriamente dette, ebraismo, cristianesimo e islamismo, è fin troppo manifesto che sono puramente monoteiste. Ora, per quanto riguarda il feticismo, la parola, di origine portoghese, significa letteralmente «stregoneria»; non designa dunque la religione o qualcosa di più o meno analogo, bensì la magia, e anche di infima specie. La magia non è in alcun modo una forma di religione, peraltro ritenuta primitiva e deviata, e nemmeno è, come altri hanno sostenuto, qualcosa che si oppone per sua natura alla religione, una specie di contro-religione, se ci è concesso usare un’espressione del genere; per finire, essa non è nemmeno qualcosa da cui avrebbero preso origine la religione e insieme la scienza, secondo una terza opinione che non è meglio fondata delle precedenti; tutte queste confusioni mostrano che quanti ne parlano non sanno troppo di che cosa si tratti. La magia appartiene in realtà al dominio della scienza, e più precisamente della scienza sperimentale; essa si occupa della manipolazione di certe forze che in Estremo Oriente sono dette «influenze erranti», e i cui effetti, per quanto strani possano apparire, sono nondimeno fenomeni naturali che hanno, come tutti gli altri, le loro leggi. Certo questa scienza può avere una base tradizionale, ma anche così ha solo e sempre il valore di una applicazione contingente e secondaria; e ancora bisogna aggiungere, perché si abbia la giusta misura della sua importanza, che in genere è disdegnata dai veri detentori della tradizione, i quali, tranne in certi casi specifici e determinati, la lasciano ai prestigiatori girovaghi, che ne traggono profitto divertendo il popolino. Questi maghi, come se ne incontrano spesso in India dove ricevono comunemente la denominazione araba di faqîr, ovvero «poveri» o «mendicanti», sono uomini che per incapacità intellettuale si sono fermati sulla via di una «realizzazione» metafisica, come abbiamo già detto; essi attraggono soprattutto gli stranieri e di fatto non meritano più considerazione di quanta gliene accordano i loro compatrioti. Non intendiamo affatto contestare la realtà dei fenomeni così prodotti, anche se talvolta sono solo imitati o simulati, in condizioni che del resto presuppongono una forza di suggestione poco comune, in confronto alla quale i risultati ottenuti dagli occidentali che tentano di dedicarsi allo stesso tipo di sperimentazione sembrano affatto trascurabili e insignificanti; contestiamo invece l’interesse di questi fenomeni, dai quali sono assolutamente indipendenti la dottrina pura e la realizzazione metafisica che essa comporta. Conviene qui ricordare che tutto ciò che appartiene all’ambito sperimentale non prova mai nulla, se non negativamente, e può tutt’al più servire a illustrare una teoria; un esempio non è né un argomento né una spiegazione, e nulla è più illogico che far dipendere un principio, sia pure relativo, da una sua applicazione particolare.
Se proprio qui abbiamo voluto precisare la vera natura della magia, è perché le si attribuisce un ruolo considerevole in una certa concezione della «scienza delle religioni», che è quella della cosiddetta «scuola sociologica»; dopo avere lungamente cercato di dare una spiegazione soprattutto psicologica dei «fenomeni religiosi», ora, in effetti, si cerca piuttosto di darne una spiegazione sociologica, e già ne abbiamo parlato a proposito della definizione della religione; a nostro parere questi due punti di vista sono entrambi falsi, e ugualmente inadatti a rendere conto di che cosa sia veramente la religione e a maggior ragione la tradizione in genere. Auguste Comte voleva paragonare la mentalità degli antichi con quella dei bambini, il che era piuttosto ridicolo; ma non lo è meno il fatto che i sociologi attuali vogliono assimilarla a quella dei selvaggi, che loro chiamano «primitivi», mentre noi al contrario li consideriamo degradati. Se i selvaggi fossero sempre vissuti nello stato inferiore in cui li vediamo, non si potrebbero spiegare le molteplici usanze che esistono presso di loro, usanze che essi stessi non capiscono più e che, essendo diversissime da quel che si incontra altrove – così venendo meno l’ipotesi di un’importazione straniera –, si devono considerare le vestigia di civiltà scomparse, civiltà che dovettero appartenere in un’antichità assai remota, se non preistorica, ai popoli di cui i selvaggi attuali sono i discendenti e gli ultimi residui; diamo questa spiegazione per restare sul terreno dei fatti, e senza pregiudizio di altre ragioni più profonde che sono ancor più decisive ai nostri occhi, ma che sarebbero assai poco accessibili ai sociologi e agli altri «osservatori» analitici. Aggiungeremo solamente che l’unità essenziale e fondamentale delle tradizioni permette spesso di interpretare, grazie a un uso sensato dell’analogia e tenendo sempre conto della diversità degli adattamenti, condizionata da quella delle mentalità umane, le concezioni a cui si ricollegavano originariamente le usanze di cui abbiamo parlato, prima di essere ridotte allo stato di «superstizioni»; parimenti, la stessa unità permette anche di capire in larga misura le civiltà che ci hanno tramandato solo monumenti scritti o figurati: è quanto indicavamo all’inizio, parlando dei servigi che la vera conoscenza dell’Oriente potrebbe rendere a tutti coloro che intendono studiare seriamente l’antichità e cercano di trarne insegnamenti validi, non accontentandosi del punto di vista del tutto esteriore e superficiale della semplice erudizione.
[1] Dupuis, Origine de tous les cultes; VoIney; Les Ruines.
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