"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 22 giugno 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - IV. Le interpretazioni occidentali - 2. L’influsso tedesco

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

IV. Le interpretazioni occidentali
2. L’influsso tedesco 

È singolare come i primi indianisti, che erano soprattutto inglesi, senza dare prova di una comprensione molto profonda, abbiano spesso detto cose più giuste dei loro successori; indubbiamente hanno anch’essi commesso degli errori, ma che per lo meno non portavano un carattere sistematico e non nascevano da preconcetti, seppure inconsapevoli.
La mentalità inglese non ha certamente alcuna attitudine per le concezioni metafisiche, ma neppure accampa pretese ad averne, mentre la mentalità tedesca, che tutto sommato non è meglio dotata, si fa le illusioni più infondate; per rendersene conto, basta confrontare quel che i due popoli hanno prodotto in fatto di filosofia. 
Lo spirito inglese abbandona raramente la sfera pratica, costituita dalla morale e dalla sociologia, e la scienza sperimentale, costituita dalla psicologia di cui fu l’inventore; quando si occupa di logica è soprattutto l’induzione che persegue e che privilegia rispetto alla deduzione. Al contrario, se consideriamo la filosofia tedesca troviamo solo ipotesi e sistemi con pretese metafisiche, deduzioni da punti di partenza fantasiosi, idee che vorrebbero essere profonde mentre sono semplicemente nebulose; e questa pseudo-metafisica, che non potrebbe essere più lontana dalla metafisica vera, i Tedeschi vogliono ritrovarla negli altri, le cui concezioni interpretano sempre in funzione delle proprie: difetto che in nessuno è così incorreggibile come in loro, perché nessun altro popolo ha una forma mentis così rigorosamente sistematica. Del resto i Tedeschi non fanno qui che portare alle estreme conseguenze i limiti comuni a tutta la razza europea: il loro orgoglio nazionale li induce a comportarsi in Europa come in genere gli europei, infatuati della loro immaginaria superiorità, si comportano nel mondo intero; l’assurdità è la stessa nei due casi, con una semplice differenza di grado. Non stupisce perciò se i Tedeschi immaginano che i loro filosofi abbiano pensato tutto quanto l’uomo poteva concepire, e indubbiamente credono di fare onore agli altri popoli quando ne assimilano le concezioni a questa filosofia di cui sono così orgogliosi. Ciò nonostante Schopenhauer ha ridicolmente distorto il buddhismo, riducendolo a una specie di moralismo «pessimista», e cercando «consolazioni» nel Vêdânta ha dato la giusta misura del suo livello intellettuale; e d’altra parte vediamo degli orientalisti contemporanei, tra cui Deussen, pretendere di insegnare agli Indù la vera dottrina di Shankarâchârya, al quale attribuiscono semplicemente le idee di Schopenhauer! Il fatto è che la mentalità tedesca, essendo una forma esasperata della mentalità occidentale, è agli antipodi dall’Oriente, di cui non può capire nulla; ma siccome ha la pretesa di comprenderlo, è fatale che lo snaturi; da qui derivano quelle assimilazioni errate contro cui in ogni occasione ci leviamo, e in particolare l’applicazione alle dottrine orientali delle «etichette» che appartengono alla filosofia occidentale moderna.
Quando non si è capaci di fare della metafisica, meglio sarebbe non occuparsene, e il positivismo, nonostante tutte le angustie e le incompletezze, ci sembra di gran lunga preferibile alle elucubrazioni della pseudo-metafisica. Il torto più grande degli orientalisti tedeschi è dunque di non rendersi conto della propria incapacità a capire, e di dedicarsi a lavori di interpretazione che non hanno alcun valore, ma che si impongono in tutta l’Europa e facilmente riescono a dettare legge, dato che gli altri popoli nulla hanno da opporvi o da mettere a confronto e anche perché tali lavori si ammantano di un apparato di erudizione che impressiona al massimo grado coloro che per certi metodi hanno un rispetto che sconfina nella superstizione. Anche questi metodi sono del resto di origine germanica, e sarebbe sommamente ingiusto non riconoscere ai Tedeschi le qualità ben reali che possiedono riguardo all’erudizione: la verità è che essi eccellono nella stesura di dizionari, di grammatiche, e di quelle voluminose opere di compilazione e bibliografiche che non richiedono altro se non memoria e pazienza; è estremamente deplorevole che non si siano interamente specializzati in questo genere di lavori, utilissimi all’occasione e che, cosa apprezzabile, fanno risparmiare tempo a chi sia in grado di fare dell’altro. Non meno deplorevole è che questi stessi metodi, invece di rimanere appannaggio dei Tedeschi, al cui temperamento sono così adatti, si siano diffusi in tutte le università europee, e soprattutto in Francia, dove sono ritenuti i soli «scientifici», quasi che la scienza e l’erudizione fossero la sola e medesima cosa; cosicché, conseguenza di simile deplorevole mentalità, l’erudizione giunge a usurpare il posto della scienza vera. L’abuso dell’erudizione coltivata per se stessa, la falsa supposizione che essa possa bastare a far comprendere le idee, tutto ciò può essere ancora comprensibile e fino a un certo punto scusabile nei Tedeschi; ma presso popoli che non hanno le stesse specifiche attitudini non si può vedervi altro che l’effetto di una servile tendenza all’imitazione, segno di una decadenza intellettuale a cui sarebbe tempo di porre rimedio prima di vederla trasformarsi in decadenza definitiva.
I Tedeschi hanno agito con molta abilità per preparare la supremazia intellettuale che vagheggiavano, imponendo tanto la loro filosofia quanto i loro metodi di erudizione; il loro orientalismo, come abbiamo appena detto, è un prodotto della combinazione di questi due elementi. È particolarmente notevole come queste cose siano diventate strumenti al servizio di una ambizione nazionale; alquanto istruttivo sarebbe, in proposito, studiare come i Tedeschi abbiano saputo trarre partito dalla stravagante teoria dell’«arianesimo», che non erano stati loro a inventare. Per conto nostro, non crediamo affatto all’esistenza di una razza «indo-europea», quand’anche si smetta di chiamarla «ariana», il che non ha nessun senso; ma è significativo che gli eruditi tedeschi abbiano dato a questa razza immaginaria la denominazione di «indo-germanica», e si siano industriati a rendere l’ipotesi verosimile sostenendola con molteplici argomenti etnologici e soprattutto filologici. Non vogliamo addentrarci qui in tale discussione; faremo solo notare che la reale rassomiglianza tra le lingue dell’India e della Persia e quelle d’Europa non è affatto la prova di una comunanza di razza; per darne ragione è sufficiente ammettere che le civiltà antiche da noi conosciute siano state primitivamente introdotte in Europa da elementi che si ricollegavano alla fonte da cui procedettero direttamente le civiltà indù e persiana. È noto infatti quanto sia facile per un’infima minoranza, in circostanze particolari, imporre la propria lingua insieme con le proprie istituzioni, alla massa di un popolo straniero, quand’anche ne sia poi assorbita etnicamente in breve tempo: un esempio stupefacente è quello dell’adozione della lingua latina in Gallia, dove i Romani, se si eccettuano alcune regioni del meridione, non si stabilirono mai se non in numero trascurabile; la lingua francese è incontestabilmente di origine latina quasi pura, e tuttavia gli elementi latini sono entrati in misura debolissima nella formazione etnica della nazione francese; la stessa cosa peraltro si può dire della Spagna. D’altro canto l’ipotesi dell’«indo-germanesimo» è tanto meno sostenibile in quanto le lingue germaniche non hanno maggiore affinità con il sanscrito di quanta ne abbiano le altre lingue europee; sennonché può servire a giustificare l’assimilazione delle dottrine indù alla filosofia tedesca; ma purtroppo questa supposizione di una immaginaria parentela non resiste alla prova dei fatti, e in realtà niente è più dissimile da un indù che un tedesco, tanto dal punto di vista intellettuale quanto da quello fisico, anzi, forse ancor più dal primo che dal secondo.
Di tutto ciò la conclusione è che per ottenere dei risultati interessanti sarebbe necessario, prima di tutto, sbarazzarsi di questo influsso che da troppo tempo grava così pesantemente sull’orientalismo; e quantunque sappiamo che non è facile per certi individui affrancarsi da metodi che per essi sono diventati abitudini mentali inveterate, vogliamo sperare che, in linea generale, i recenti avvenimenti saranno un’occasione favorevole per una liberazione del genere. Si cerchi di comprendere bene il nostro pensiero: se ci auguriamo la scomparsa dell’influenza tedesca nel campo intellettuale, è perché la riteniamo di per sé nefasta, indipendentemente da certe contingenze storiche che in tutto ciò non intervengono; non sono dunque queste contingenze a farci augurare che l’influsso in questione scompaia, ma occorre approfittare dello stato d’animo da esse determinato. Nell’ordine intellettuale, l’unico di cui qui ci occupiamo, le preoccupazioni sentimentali non devono intervenire; le concezioni tedesche non hanno più valore oggi di quanto ne avessero qualche anno fa, ed è ridicolo vedere uomini che avevano sempre professato un’ammirazione sconfinata per la filosofia tedesca mettersi bruscamente a denigrarla col pretesto di un patriottismo che con queste cose non ha niente a che vedere; ciò equivale in fondo ad alterare più o meno consapevolmente la verità scientifica o storica per motivi di interesse nazionale, proprio come i Tedeschi sono accusati di fare. Quanto a noi, non dovendo niente all’intellettualità germanica, non avendo mai avuto la minima stima per la pseudo-metafisica di cui essa si compiace, e non avendo mai accordato all’erudizione e ai suoi procedimenti specifici se non un valore e un’importanza dei più relativi, siamo completamente a nostro agio nel dire quel che ne pensiamo; e avremmo detto esattamente le stesse cose anche se le circostanze fossero state del tutto diverse, ma forse con meno probabilità di trovarci in ciò d’accordo con una tendenza così generalmente diffusa. Aggiungeremo soltanto che, per quanto riguarda la Francia, quel che si deve temere di più è che si sfugga all’influsso tedesco solo per cadere sotto altri influssi non meno funesti; che si reagisca contro lo spirito di imitazione ci sembra dunque una delle prime condizioni di una vera ripresa intellettuale: senza dubbio non è una condizione sufficiente, ma è almeno una condizione necessaria, e anzi indispensabile.

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