"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 12 giugno 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - III. Le dottrine indù - 13. La «Mîmânsâ»

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

III. Le dottrine indù
13. La «Mîmânsâ»

La parola mîmânsâ significa letteralmente «riflessione profonda»; essa si applica in linea generale allo studio riflessivo del Vêda che ha lo scopo di determinare il senso esatto della shruti e di trarne le conseguenze implicite sia nell’ordine pratico che in quello intellettuale.
Così intesa, la Mîmânsâ comprende i due ultimi dei sei darshana, i quali vengono allora chiamati Pûrva-Mîmânsâ e Uttra-Mîmânsâ, vale a dire la prima e la seconda Mîmânsâ, e che si riferiscono rispettivamente ai due ordini suddetti.
Quindi la prima Mîmânsâ è anche chiamata Karma-Mîmânsâ, in quanto riguarda il campo dell’azione, mentre la seconda è chiamata Brahma-Mîmânsâ, in quanto riguarda essenzialmente la conoscenza di Brahma; bisogna notare che è il Brahma supremo, e non più Îshwara, a esser preso qui in considerazione, perché il punto di vista in questione è quello della metafisica pura. La seconda Mîmânsâ è propriamente il Vêdânta; e quando si parla di Mîmânsâ senz’altra specificazione, come si fa nel presente capitolo, ci riferiremo sempre alla prima Mîmânsâ.
L’esposizione di questo darshana è attribuita a Jaimini, e il metodo in esso seguito è il seguente: le opinioni errate su una questione sono prima sviluppate, poi confutate, e la soluzione vera è infine data al termine di tutta la discussione; questo metodo espositivo presenta una notevole analogia con quello della dottrina scolastica nel Medioevo occidentale. Quanto alla natura degli argomenti trattati, essa è definita, al principio stesso dei sûtra di Jaimini, come uno studio che deve stabilire le prove e le ragioni d’essere del dharma, nella sua connessione con kârya o «ciò che deve essere compiuto». Abbiamo già insistito a sufficienza sulla nozione di dharma e su ciò che si deve intendere per conformità dell’azione al dharma, di cui si tratta qui in particolare; ricorderemo che la parola karma ha un duplice significato: in generale è l’azione in tutte le sue forme, spesso opposta a jnâna, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alla distinzione dei due ultimi darshana; in senso specifico e tecnico è l’azione rituale quale è prescritta nel Vêda, e naturalmente questo ultimo senso è frequente nella Mîmânsâ che si prefigge di spiegare tali prescrizioni e di precisarne la portata.
La Mîmânsâ considera all’inizio i differenti pramâna o mezzi di prova, che sono quelli indicati dai logici, e inoltre altre fonti di conoscenza che erano escluse dall’ambito particolare di costoro; è del resto facile conciliare le differenti classificazioni dei pramâna considerandole, semplicemente, più o meno sviluppate e complete, poiché esse non hanno nulla di contraddittorio. Seguono poi le distinzioni fra i diversi tipi di prescrizioni o ingiunzioni, fra le quali la più generale è quella dell’ingiunzione diretta e dell’ingiunzione indiretta; la parte del Vêda che contiene i precetti è chiamata brâhmana, in opposizione al mantra o formula rituale, e tutto ciò che è contenuto nei testi vedici è mantra o brâhmana. Del resto il brâhmana non contiene esclusivamente precetti, giacché le Upanishad, le quali sono puramente dottrinali e costituiscono il fondamento del Vêdânta, rientrano in questa categoria; ma il brâhmana pratico, a cui si riferisce in particolare la Mîmânsâ, indica il modo di eseguire i riti, le condizioni della loro esecuzione, le modalità che si riferiscono alle differenti circostanze, e spiega il significato degli elementi simbolici che intervengono in tali riti e dei mantra che bisogna usare in ciascun caso determinato. Sulla natura ed efficacia del mantra, così come, in modo più generale, sull’autorità tradizionale del Vêda e la sua origine «non umana», la Mîmânsâ sviluppa la teoria della perpetuità del suono a cui abbiamo già accennato, e, più precisamente, la teoria dell’associazione originaria e perpetua del suono articolato con il senso dell’udito, che fa del linguaggio una cosa completamente diversa da una convenzione più o meno arbitraria. Vi si trova ugualmente una teoria dell’infallibilità della dottrina tradizionale, infallibilità che deve essere intesa come inerente alla dottrina stessa e che di conseguenza non appartiene in alcun modo agli uomini; essi ne partecipano solo in quanto conoscono effettivamente la dottrina e la interpretano con esattezza, e anche così l’infallibilità non deve essere riferita agli individui come tali, ma sempre alla dottrina che si esprime per loro tramite. Perciò soltanto coloro che conoscono il Vêda integrale sono qualificati per comporre autentici scritti tradizionali, l’autorità dei quali partecipa dell’autorità della tradizione primordiale, da cui discende e in cui trova il suo esclusivo fondamento, senza che l’individualità dell’autore umano vi intervenga minimamente: questa distinzione fra l’autorità fondamentale e l’autorità derivata nell’ordine tradizionale è quella tra la shruti e la smriti, che abbiamo già indicato trattando della «legge di Manu». La concezione della infallibilità come inerente alla sola dottrina è del resto comune agli Indù e ai Musulmani; è anche, in fondo, quella che il cattolicesimo applica in particolare al punto di vista religioso, dato che l’«infallibilità pontificale», se ben compresa nel suo principio, appare essenzialmente legata a una funzione, che è l’interpretazione autorizzata della dottrina, e non a un individuo, che non è mai infallibile fuori dell’esercizio di tale funzione, le cui condizioni sono rigorosamente determinate.
A causa della natura della Mîmânsâ, a questo darshana si ricollegano più direttamente i Vêdânga, scienze ausiliarie del Vêda, da noi definite in precedenza; basta ritornare a queste definizioni per cogliere lo stretto legame che esse presentano con l’argomento che stiamo ora trattando. La Mîmânsâ insiste perciò sull’importanza che hanno, per la comprensione dei testi, l’ortografia esatta e la corretta pronuncia insegnate dalla shikshâ, e distingue le differenti classi dei mantra secondo i ritmi che sono loro propri, ciò che discende dal chandas. Inoltre vi si trovano considerazioni relative al vyâkarana, vale a dire grammaticali, quali la distinzione fra l’accezione regolare delle parole e le loro accezioni dialettali o barbare, osservazioni su talune forme particolari usate nel Vêda e sui termini che lì hanno un significato diverso da quello abituale; restano da aggiungere, in molte occasioni, le interpretazioni etimologiche e simboliche che costituiscono l’argomento del nirukta. Infine, la conoscenza dello jyotisha è necessaria per determinare il tempo in cui i riti devono essere eseguiti e, quanto al kalpa, abbiamo già visto che esso riassume le prescrizioni concernenti l’esecuzione stessa. Inoltre la Mîmânsâ tratta di un gran numero di questioni di giurisprudenza, e non deve stupire, perché nella civiltà indù tutta la legislazione è essenzialmente tradizionale; si può notare del resto una certa analogia tra il modo in cui sono condotti, da una parte, i dibattimenti giuridici, e, dall’altra, le discussioni della Mîmânsâ, e vi è persino identità nei termini che servono a designare le fasi successive degli uni e delle altre. Tale rassomiglianza non è certo fortuita, ma non bisognerebbe vedervi se non quello che è in realtà, un segno dell’applicazione di uno stesso spirito a due attività connesse, benché distinte; ciò sia detto per ridurre al loro giusto valore le pretese dei sociologi che, avendo il difetto piuttosto comune di ricondurre tutto alla propria specialità, approfittano di tutte le affinità di vocabolario che possono rilevare, specie nel campo della logica, per concludere che si tratta di prestiti dalle istituzioni sociali, quasi che le idee e i modi del ragionamento non potessero esistere indipendentemente da queste istituzioni, che invece non sono altro, in verità, se non un’applicazione di certe idee necessariamente preesistenti. Certuni hanno creduto di uscire da questa alternativa e mantenere la primordialità del punto di vista sociale, inventando ciò che hanno chiamato la «mentalità prelogica»; ma tale bizzarra supposizione, come pure le loro congetture generiche sui «primitivi», non si fonda su nulla di serio, anzi è contraddetta da tutto ciò che di sicuro sappiamo sull’antichità, e meglio sarebbe relegarla nel campo della pura fantasia, insieme con tutti i «miti» che i suoi inventori attribuiscono immotivatamente ai popoli di cui ignorano la vera mentalità. Esistono già abbastanza differenze reali e profonde tra i modi di pensare tipici di ogni razza e di ogni epoca senza immaginare modalità inesistenti che complicano le cose più di quanto non le spieghino, e senza andare a cercare il cosiddetto modello primordiale dell’umanità in qualche popolazione imbastardita che non sa più bene neanche lei che cosa pensa, ma che certamente non ha mai pensato quel che le si attribuisce; sennonché i veri modi del pensiero umano, diversi da quelli dell’Occidente moderno, sfuggono del tutto sia ai sociologi sia agli orientalisti.
Per tornare alla Mîmânsâ dopo questa digressione, segnaleremo ancora una nozione che ha qui un ruolo importante: tale nozione, indicata con la parola apûrva, è di quelle che sono difficilmente spiegabili nelle lingue occidentali; ciò nonostante cercheremo di far capire in che cosa essa consista e quel che comporta. Nel capitolo precedente abbiamo detto che l’azione, in ciò come in tutto il resto ben diversa dalla conoscenza, non porta in sé le proprie conseguenze; l’opposizione è qui, in fondo, quella tra successione e simultaneità, e sono le condizioni stesse di ogni azione a far sì che essa possa produrre i suoi effetti solo in modo successivo. Tuttavia, perché una cosa possa essere causa, occorre che esista attualmente, e quindi il vero rapporto causale non può essere concepito se non come un rapporto di simultaneità; se lo si concepisse come un rapporto di successione, ci sarebbe un istante in cui qualcosa che non esiste più produce qualcosa che non esiste ancora, supposizione che è manifestamente assurda. Dunque, perché una azione, che in sé è soltanto una modificazione momentanea, possa avere dei risultati futuri e più o meno lontani, occorre che abbia, nello stesso istante in cui si compie, un effetto non percepibile al momento, ma che, sussistendo, almeno relativamente, in modo permanente, produrrà, a sua volta, in un secondo tempo il risultato percepibile. Questo effetto non percepibile, in qualche modo potenziale, è chiamato apûrva, in quanto è aggiunto e non anteriore all’azione; può essere inteso sia come uno stato posteriore dell’azione stessa, sia come antecedente del risultato, poiché l’effetto deve sempre essere contenuto virtualmente nella sua causa, dalla quale non potrebbe altrimenti discendere. D’altronde, anche quando un certo risultato sembra seguire immediatamente l’azione nel tempo, l’esistenza intermedia di un apûrva non è meno necessaria, in quanto c’è ancora successione e non simultaneità perfetta, e l’azione, in sé, è sempre separata dal suo risultato. Così l’azione sfugge all’istantaneità e anche, in una certa misura, alle limitazioni della condizione temporale; l’apûrva infatti, germe di tutte le sue conseguenze future, non risiedendo nel campo della manifestazione corporea e sensibile, è fuori del tempo ordinario, ma non fuori di ogni durata, in quanto appartiene ancora all’ordine delle contingenze. Ora, l’apûrva può, da un canto, aderire all’essere che ha compiuto l’azione, come un elemento ormai costitutivo della sua individualità considerata nella sua parte incorporea, nella quale risiederà finché essa durerà, e, dall’altro canto, uscire dai confini di questa individualità per entrare nella sfera delle energie potenziali dell’ordine cosmico; in questa sua seconda parte, se ce lo rappresentiamo, ricorrendo a un’immagine senza dubbio imperfetta, come una vibrazione emessa in un certo punto, tale vibrazione, dopo essersi propagata fino ai confini della sfera ad essa accessibile, ritornerà in senso contrario al suo punto di partenza, e tutto questo, come esige la causalità, sotto forma di una reazione che ha la stessa natura dell’azione iniziale. Si tratta, molto precisamente, di quelle che il taoismo designa, per parte sua, come le «azioni e reazioni concordanti»; poiché ogni azione, e più genericamente ogni manifestazione, è una rottura di equilibrio, come dicevamo a proposito dei tre guna, è necessario che vi sia la reazione corrispondente perché l’equilibrio sia ristabilito, dal momento che la somma di tutte le differenziazioni deve equivalere sempre, alla fine, all’indifferenziazione totale. Questo equilibrio, dove si congiungono l’ordine umano e l’ordine cosmico, completa l’idea che ci si può fare dei rapporti tra karma e dharma; e occorre aggiungere subito che la reazione, essendo una conseguenza del tutto naturale dell’azione, non è in alcun modo una «sanzione» in senso morale: qui non vi è nulla su cui il punto di vista morale possa avere presa, e anzi, a dire il vero, è ben possibile che esso sia nato solo dall’incomprensione di queste cose e dalla loro deformazione sentimentale. Comunque sia, la reazione, nel suo influsso di ritorno sull’essere che produsse l’azione iniziale, torna ad assumere il carattere individuale e anche temporale che non aveva più l’apûrva intermedio; se allora questo essere non si trova più nello stato in cui era prima, e che era solo un modo transitorio della sua manifestazione, la stessa reazione, ma priva delle condizioni caratteristiche dell’individualità originaria, potrà ancora raggiungerlo in un altro stato di manifestazione, attraverso gli elementi che assicurano la continuità del nuovo stato con lo stato antecedente: qui si afferma il concatenamento causale dei diversi cicli di esistenza, e quel che è vero per un determinato essere lo è pure, in virtù dell’analogia più rigorosa, per l’insieme della manifestazione universale. Se ci siamo soffermati su questa spiegazione non è semplicemente perché essa offre un interessante esempio di un certo genere di teorie orientali, né perché avremo in seguito l’occasione di segnalare una falsa interpretazione che ne è stata data in Occidente; è anche, e soprattutto, perché ciò che è in discussione ha una portata effettiva tra le più notevoli, anche dal punto di vista pratico, benché su quest’ultimo punto convenga mantenere un certo riserbo e sia meglio limitarsi a dare indicazioni molto generali, come stiamo facendo, lasciando a ciascuno di trarne sviluppi e conclusioni in conformità con le proprie facoltà e tendenze personali.

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