Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
III. Le dottrine indù
14. Il «Vêdânta»
Con il Vêdânta ci troviamo, come abbiamo detto, nella sfera della metafisica pura; è dunque superfluo ripetere che non si tratta né di una filosofia né di una religione, quantunque gli orientalisti vogliano necessariamente vedervi l’una o l’altra, o anche, come Schopenhauer, l’una e l’altra a un tempo.
Il nome di quest’ultimo darshana significa etimologicamente «fine del Vêda», e la parola «fine» dev’essere qui intesa nel suo duplice significato di conclusione e di scopo; le Upanishad, infatti, sulle quali esso essenzialmente si fonda, costituiscono l’ultima parte dei testi vedici, e quel che vi è insegnato, nella misura in cui può esserlo, è il fine ultimo e supremo dell’intera conoscenza tradizionale, libera da tutte le applicazioni più o meno particolari e contingenti alle quali può dare origine in ordini diversi.
Il nome di quest’ultimo darshana significa etimologicamente «fine del Vêda», e la parola «fine» dev’essere qui intesa nel suo duplice significato di conclusione e di scopo; le Upanishad, infatti, sulle quali esso essenzialmente si fonda, costituiscono l’ultima parte dei testi vedici, e quel che vi è insegnato, nella misura in cui può esserlo, è il fine ultimo e supremo dell’intera conoscenza tradizionale, libera da tutte le applicazioni più o meno particolari e contingenti alle quali può dare origine in ordini diversi.
La denominazione stessa di Upanishad sta ad indicare che esse sono destinate a distruggere l’ignoranza, radice dell’illusione che relega l’essere entro i confini dell’esistenza condizionata, e che operano tale effetto fornendo i mezzi per accostarsi alla conoscenza di Brahma; se a tale conoscenza si può solo accostarsi è perché, essendo assolutamente incomunicabile nella sua essenza, non può essere effettivamente raggiunta se non con un lavoro rigorosamente personale, a cui nessun insegnamento esterno, per quanto elevato e profondo, ha il potere di sostituirsi. Sull’interpretazione che abbiamo dato concordano tutti gli indù competenti; sarebbe dunque ridicolo preferirle l’opinione senza autorità di alcuni autori europei, secondo i quali l’Upanishad sarebbe la conoscenza ottenuta sedendo ai piedi di un precettore; d’altronde Max Müller[1], pur accettando quest’ultimo significato, deve riconoscere che non indica niente di veramente caratteristico, e che altrettanto bene converrebbe a qualsiasi sezione del Vêda, poiché l’insegnamento orale è il loro modo comune di trasmissione regolare.
Il carattere incomunicabile della conoscenza totale e definitiva deriva da quel che vi è di necessariamente inesprimibile nell’ordine metafisico, e anche dal fatto che tale conoscenza, per essere veramente tutto ciò che deve essere, non si limita alla semplice teoria, ma comporta in sé la corrispondente realizzazione; perciò diciamo che può essere insegnata solo in una certa misura, ed è evidente che questa restrizione si applica sia alla teoria sia alla realizzazione, benché l’ostacolo più assolutamente insormontabile riguardi quest’ultima. Infatti un qualunque simbolismo può sempre suggerire almeno delle possibilità di concezione, anche se non possono essere espresse interamente, e questo senza parlare di taluni modi di trasmissione che si effettuano fuori e di là da ogni rappresentazione formale, modi la cui sola idea deve sembrare troppo inverosimile a un occidentale perché sia utile o semplicemente possibile insisterci. D’altronde è pur vero che la comprensione, anche teorica, e a partire dai gradi più elementari, presuppone un indispensabile sforzo personale, ed è condizionata dalle specifiche attitudini ricettive di colui a cui l’insegnamento è comunicato; è di tutta evidenza che un maestro, per quanto eccelso, non può capire per il proprio allievo, e che soltanto quest’ultimo può assimilare quel che è messo alla sua portata. Se così è, la ragione va cercata nel fatto che ogni conoscenza vera e veramente assimilata è già di per se stessa, se non certo una realizzazione effettiva, almeno una realizzazione virtuale, se si possono unire queste due parole che qui si contraddicono soltanto in apparenza; in caso contrario, non sarebbe possibile dire, con Aristotele, che un essere «è tutto ciò che conosce». Quanto al carattere puramente personale di ogni realizzazione, si spiega molto semplicemente con questa osservazione, che forse ha una forma singolare, ma è senz’altro assiomatica: ciò che un essere è, solo lui può esserlo ad esclusione di ogni altro; se è necessario formulare verità così immediate, è perché proprio queste sono per lo più dimenticate, e del resto comportano conseguenze ben diverse da quelle che possono credere le menti superficiali o analitiche. Insegnabili, sebbene incompletamente, sono soltanto i mezzi più o meno indiretti e mediati della realizzazione metafisica, come abbiamo accennato trattando dello Yoga, e il primo di tutti questi mezzi, il più indispensabile, e anzi l’unico assolutamente indispensabile, è la stessa conoscenza teorica. È però necessario aggiungere che nella metafisica totale la teoria e la realizzazione non si separano mai completamente; si può constatarlo a ogni istante nelle Upanishad, dove è spesso ben difficile distinguere quel che si riferisca all’una o all’altra rispettivamente, e dove, invero, le stesse cose, secondo il modo in cui sono viste, si riferiscono a entrambe. In una dottrina metafisicamente completa, il punto di vista della realizzazione si riflette sull’esposizione stessa della teoria, la quale, almeno implicitamente, lo presuppone e non può mai esserne indipendente, poiché la teoria, avendo in sé solo un valore di preparazione, deve essere subordinata alla realizzazione, come il mezzo lo è al fine in vista del quale è istituito.
Tutte queste considerazioni sono necessarie per capire il punto di vista del Vêdânta, o, meglio ancora, il suo spirito, perché il punto di vista metafisico non essendo alcun punto di vista specifico, non può essere così chiamato se non in un senso del tutto analogico; del resto, sono considerazioni ugualmente valide per qualsiasi altra forma possa assumere, in altre civiltà, la metafisica tradizionale, perché essa, per le ragioni già dette, è essenzialmente una e non può non esserlo. Non avremo mai insistito abbastanza sul fatto che le Upanishad, facendo parte integrante del Vêda, rappresentano qui la tradizione primordiale e fondamentale; il Vêdânta, così come ne deriva espressamente, è stato coordinato sinteticamente, il che non vuol dire sistematizzato, nei Brahmasûtra, la cui composizione è attribuita a Bâdarâyana; quest’ultimo è anche assimilato a Vyâsa, ciò che è particolarmente significativo per chi conosca la funzione intellettuale indicata da tale nome. I Brahmasûtra, il cui testo è di una estrema concisione, hanno dato origine a numerosi commenti, tra i quali quelli di Shankarâchârya e Râmânuja sono di gran lunga i più importanti; entrambi i commenti sono rigorosamente ortodossi, nonostante le loro divergenze apparenti, che sono solo differenze di adattamento: quello di Shankarâchârya rappresenta più particolarmente la tendenza shaiva, e quello di Râmânuja la tendenza vaishnava; le indicazioni generali che abbiamo fornito in merito ci dispenseranno dallo sviluppare ora questa distinzione, che si basa solo su vie diverse che tendono a un identico fine.
Essendo puramente metafisico, il Vêdânta si presenta essenzialmente come adwaita-vâda, ovvero la «dottrina della non-dualità»; abbiamo spiegato il senso di questa espressione distinguendo il pensiero metafisico dal pensiero filosofico. Per precisarne, per quanto possibile, la portata, diremo ora che, mentre l’Essere è «uno», il Principio supremo, nominato Brahma, può solo essere detto «senza dualità» perché, essendo al di là di ogni determinazione, anche dell’Essere, che è la prima di tutte, non può essere caratterizzato da alcun termine positivo: così esige la sua infinitezza, che è necessariamente la totalità assoluta, comprendente in sé tutte le possibilità. Non c’è dunque nulla che sia realmente fuori di Brahma, poiché questa supposizione equivarrebbe a limitarlo; come conseguenza immediata, il mondo, intendendo con questa parola, nel suo significato più ampio, l’insieme della manifestazione universale, non è affatto distinto da Brahma, o almeno se ne distingue solo in modo illusorio. D’altra parte, tuttavia, Brahma è assolutamente distinto dal mondo, non convenendogli nessuno degli attributi determinativi che si possono applicare al mondo, dato che l’intera manifestazione universale è rigorosamente nulla rispetto alla sua infinitezza; si noterà che questa irreciprocità di relazione implica la condanna formale del «panteismo», come pure di ogni «immanentismo». Del resto, il «panteismo», se si vuole conservare a questa denominazione un senso sufficientemente preciso e ragionevole, è inseparabile dal «naturalismo», il che equivale a dire che è nettamente antimetafisico; è perciò assurdo vedere del «panteismo» nel Vêdânta, eppure è proprio questa l’idea, per quanto assurda, che se ne fanno di solito gli occidentali, anche gli specialisti: ecco di che dare, a quegli orientali che conoscono realmente il «panteismo», un’alta idea della scienza europea e della perspicacia dei suoi rappresentanti!
È evidente che non possiamo esporre neppure succintamente la dottrina nel suo insieme; alcune delle questioni che vi sono trattate, ad esempio quella della costituzione, metafisicamente considerata, dell’essere umano, potranno fornire l’argomento di studi particolari. Ci soffermeremo solo su un punto, riguardante il fine supremo, che è chiamato moksha o mukti, vale a dire la «liberazione», in quanto l’essere che vi perviene è sciolto dai vincoli dell’esistenza condizionata, in qualunque stato e sotto qualsiasi modalità, tramite l’identificazione perfetta con l’Universale: è la realizzazione di quello che l’esoterismo musulmano chiama l’«Identità suprema», ed è per il suo ed esclusivo tramite che un uomo diventa uno Yogî nel vero significato della parola. Lo stato dello Yogî non è dunque analogo a un qualsiasi stato particolare, ma contiene tutti gli stati possibili, così come il principio contiene tutte le sue conseguenze; colui che vi sia giunto è chiamato jîvan-mukta, o «liberato in vita», in opposizione a vidêha-mukta, o «liberato fuori della forma», espressione che designa l’essere per il quale la realizzazione avviene o piuttosto, da virtuale che era, diventa effettiva solo dopo la morte o la dissoluzione del composto umano. D’altronde, sia nell’uno che nell’altro caso, l’essere è definitivamente affrancato dalle condizioni individuali, ovvero da tutto quel che nel suo insieme è chiamato nâma e rûpa, il nome e la forma, e anche dalle condizioni di ogni manifestazione; egli sfugge al concatenamento causale indefinito delle azioni e reazioni, ciò che non accade nel semplice passaggio a un altro stato individuale, quand’anche occupi un rango superiore allo stato umano nella gerarchia dei gradi dell’esistenza. È d’altronde evidente che l’azione può avere conseguenze solo nell’ambito dell’azione, e che la sua efficacia si arresta appunto dove cessa il suo influsso; l’azione dunque non può avere come effetto di liberare dall’azione e di fare ottenere la «liberazione»; così un’azione, quale che sia, potrà tutt’al più portare a realizzazioni parziali, corrispondenti a certi stati superiori, ma ancora determinati e condizionati. Shankarâchârya dice espressamente che «non v’è altro mezzo per ottenere la “liberazione” completa e finale se non la conoscenza; l’azione, che non si oppone all’ignoranza, non può respingerla, mentre la conoscenza dissipa l’ignoranza come la luce dissipa le tenebre»[2]; e quando l’ignoranza, che è la radice e la causa di ogni limitazione, scompare, l’individualità, che dalle sue limitazioni è caratterizzata, scompare a sua volta. Questa «trasformazione», del resto, nel senso etimologico di «passaggio di là dalla forma», non cambia nulla alle apparenze; nel caso del jivan-mukta, l’apparenza individuale persiste naturalmente senza cambiamento esterno, ma non tocca più l’essere che l’ha assunta, dato che quest’ultimo sa effettivamente che è solo illusoria; ma, beninteso, saperlo effettivamente è tutt’altra cosa che averne una concezione puramente teorica. Dopo il passo che abbiamo citato, Shankarâchârya descrive lo stato dello Yogî sia pur nella misura ristretta in cui le parole possono esprimerlo o, meglio, suggerirlo; queste considerazioni formano la vera conclusione dello studio della natura dell’essere umano alla quale abbiamo accennato, mostrando, quale fine supremo e ultimo della conoscenza metafisica, le possibilità più alte a cui questo essere è in grado di giungere.
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