"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 6 giugno 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - III. Le dottrine indù - 10. Il «Vaishêshika»

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

III. Le dottrine indù
10. Il «Vaishêshika»

La denominazione del Vaishêshika è tratta dalla parola vishêsha, che significa «carattere distintivo» e di conseguenza «cosa individuale»; questo darshana è perciò costituito dalla conoscenza delle cose individuali in quanto tali, esaminate in modo distintivo nella loro esistenza contingente.
Mentre il Nyâya prende in considerazione le cose nel loro rapporto con l’intelletto umano, il Vaishêshika le considera più direttamente in ciò che esse sono in sé; si vede subito la differenza dei due punti di vista, ma anche la loro relazione, giacché quel che le cose sono nella conoscenza è in fondo identico a quel che esse sono di per sé; ma la differenza dei due punti di vista scompare quando entrambi siano superati, sicché la loro distinzione deve sempre mantenersi entro i confini della sfera a cui propriamente si applicano.
La loro sfera è, evidentemente, quella della natura manifestata, fuori della quale lo stesso punto di vista individuale, di cui i due darshana in questione rappresentano delle modalità, perde ogni senso; ma la manifestazione universale può essere considerata in due diverse maniere: sia sinteticamente, a partire dai principi da cui procede e che la determinano in tutti i suoi modi, ed è quel che fa il Sânkhya, come vedremo in seguito; sia analiticamente, nella distinzione dei suoi molteplici elementi costitutivi, ed è quel che fa il Vaishêshika. Questo secondo punto di vista può addirittura limitarsi a considerare specialmente uno dei modi della manifestazione universale, come quello che costituisce l’insieme del mondo sensibile; anzi, di fatto, deve quasi esclusivamente limitarsi a questo, dato che le condizioni degli altri modi sfuggono di necessità alle facoltà individuali dell’essere umano: ci si può arrivare solo dall’alto, per così dire, ossia con ciò che nell’uomo va oltre le limitazioni e le relatività inerenti all’individuo. Questo eccede evidentemente il punto di vista distintivo e analitico che ora dobbiamo definire; ma non si può comprendere in tutto e per tutto un punto di vista specifico se non a condizione di superarlo, dal momento che tale punto di vista si presenta non come indipendente e comprendente in sé tutta la sua ragione d’essere, ma come collegato a certi principi da cui deriva, come un’applicazione a un ordine contingente di qualcosa che appartiene a un ordine diverso e superiore.
Abbiamo visto che il collegamento ai principi, assicurando l’unità essenziale della dottrina nei suoi molteplici rami, è un carattere comune a tutto l’insieme delle conoscenze tradizionali dell’India; esso segna la differenza profonda esistente fra il Vaishêshika e il punto di vista scientifico com’è inteso dagli occidentali, punto di vista di cui il Vaishêshika è tuttavia, nell’insieme suddetto, ciò che di meno distante esista. In realtà il Vaishêshika è notevolmente più vicino a quel punto di vista che presso i Greci formava la «filosofia fisica»; pur essendo analitico, lo è meno della scienza moderna e quindi non è soggetto alla stretta specializzazione che obbliga quest’ultima a perdersi nel dettaglio indefinito dei fatti sperimentali. Si tratta qui di qualcosa che, in fondo, è più razionale e anzi, in una certa misura, più intellettuale, nel senso stretto della parola: più razionale in quanto, pur mantenendosi nella sfera dell’individuale, è libero da ogni empirismo; più intellettuale, in quanto non dimentica mai che l’intero ordine individuale è collegato ai principi universali, da cui trae tutta la realtà di cui è suscettibile. Abbiamo detto che per «fisica» gli antichi intendevano la scienza della natura nella sua interezza; il termine dunque sarebbe adatto, ma bisogna tener conto della riduzione che il suo significato originario ha subito nei moderni, e che è d’altronde del tutto consona al mutamento di prospettiva che gli corrisponde. Se, quindi, si deve applicare una denominazione occidentale a un punto di vista indù, preferiremmo per il Vaishêshika quella di «cosmologia»; e d’altra parte, la «cosmologia» del Medioevo, presentandosi nettamente come un’applicazione della metafisica alle contingenze dell’ordine sensibile, ne è ancora più vicina di quanto non lo fosse la «filosofia fisica», dei Greci, che quasi sempre traeva i suoi principi dall’ordine contingente o, tutt’al più, entro i confini del punto di vista immediatamente superiore, e ancora particolare, a cui si riferisce il Sânkhya.
Ciò nonostante, l’oggetto stesso del Vaishêshika ha potuto determinare, in una parte di coloro che si dedicarono specificamente al suo studio, una qualche tendenza «naturalistica», che tuttavia, essendo in generale aliena allo spirito orientale, non poté mai assumere in India lo sviluppo che ebbe in Grecia presso i «filosofi fisici»; o almeno solo alcune scuole, appartenenti alle forme più degenerate del buddhismo, la spinsero alle conseguenze a cui logicamente giungeva, e ciò fu possibile soltanto perché esse erano dichiaratamente esterne all’unità tradizionale indù. Non è tuttavia meno vero che la tendenza affermatasi nella concezione atomistica era già presente nell’esposizione abituale del Vaishêshika, giacché l’origine dell’atomismo, nonostante quel che ha di eterodosso, è fatta risalire a Kanâda, insieme con lo sviluppo stesso del Vaishêshika, al quale tuttavia non è necessariamente solidale. Il nome Kanâda sembra del resto alludere a questa concezione, e se originariamente esso fu attribuito a un individuo, dovette trattarsi di un semplice soprannome; il fatto che fu il solo a conservarsi dimostra una volta di più la scarsa importanza che gli Indù attribuiscono alle personalità individuali. In ogni caso, nella designazione attuale del nome, si può vedere qualcosa che, a causa della deviazione che in esso si esprime, assomiglia alle «scuole» dell’antichità occidentale più di quanto assomiglia ciò che di analogo si trova negli altri darshana.
Come il Nyâya, il Vaishêshika distingue un certo numero di padârtha, ma ovviamente determinandoli secondo un differente punto di vista; questi padârtha non coincidono perciò con quelli del Nyâya, e anzi possono rientrare tutti nelle suddivisioni del secondo di questi ultimi, pramêya, o «ciò che è oggetto di prova». Il Vaishêshika considera sei padârtha, il primo dei quali è chiamato dravya; generalmente lo si traduce con «sostanza», ed effettivamente è possibile farlo, purché lo si intenda non in senso metafisico o universale, ma esclusivamente nel senso relativo in cui designa la funzione del soggetto logico, e che è lo stesso anche nella concezione aristotelica delle categorie. Il secondo padârtha è la qualità, chiamata guna, termine che ritroveremo trattando del Sânkhya, ma applicato diversamente; le qualità di cui qui si tratta sono gli attributi degli esseri manifestati, quelli che la dottrina scolastica chiama «accidenti», considerandoli in rapporto alla sostanza, ovvero al soggetto che ne è il supporto, nell’ordine della manifestazione in modo individuale. Se si trasferissero le medesime qualità al di là di questo modo particolare per considerarle nel principio stesso della loro manifestazione, si dovrebbero vedere come costitutive dell’essenza, nel senso in cui tale termine designa un principio correlativo e complementare della sostanza, tanto nell’ordine universale quanto, relativamente e per corrispondenza analogica, nell’ordine individuale; ma l’essenza stessa, anche individuale, in cui gli attributi risiedono «eminentemente» e non «formalmente», sfugge alla prospettiva del Vaishêshika, che si pone dalla parte dell’esistenza intesa nel suo senso più stretto, e perciò gli attributi non sono per esso veramente altro che «accidenti». Abbiamo volontariamente esposto queste ultime concezioni in un linguaggio che deve renderle più facilmente comprensibili a quanti hanno consuetudine con la dottrina aristotelica e scolastica; tale linguaggio è del resto, nella fattispecie, il meno inadatto fra quanti ci offre l’Occidente. La sostanza, nei due significati di cui è suscettibile la parola, è la radice della manifestazione, ma non è manifestata in sé; essa lo è solo nei e tramite i suoi attributi che sono le sue modalità e che, inversamente, non hanno esistenza reale, secondo quest’ordine contingente della manifestazione, se non nella e tramite la sostanza; è in quest’ultima che sussistono le qualità ed è tramite essa che l’azione si produce. Il terzo padârtha è infatti karma, o l’azione; e l’azione, quale che sia la sua differenza rispetto alla qualità, rientra con essa nella nozione generale degli attributi, perché altro non è se non una «maniera di essere» della sostanza; è questo che indica, nella costituzione del linguaggio, l’espressione della qualità e dell’azione nella forma comune dei verbi attributivi. L’azione consiste essenzialmente nel movimento, o per meglio dire nel cambiamento, perché questa nozione molto più estesa, in cui il movimento è solo una specie, si applica più esattamente qui e anche a ciò che la fisica greca presentava di analogo. Si potrebbe quindi dire che l’azione è per l’essere un modo transitorio e momentaneo, mentre la qualità è un modo relativamente permanente e in qualche misura stabile; ma se considerassimo l’azione nella totalità delle sue conseguenze temporali e anche intemporali la stessa distinzione si cancellerebbe, come è prevedibile del resto quando si pensi che tutti gli attributi, quali che siano, procedono del pari da uno stesso principio, e questo sia rispetto alla sostanza, sia rispetto all’essenza. Non sarà necessario dilungarsi sui tre padârtha che seguono, e che tutto sommato rappresentano categorie di rapporti, vale a dire, nuovamente, certi attributi delle sostanze individuali e dei principi relativi che sono le condizioni determinanti immediate della loro manifestazione. Il quarto padârtha è sâmânya, ossia la comunanza di qualità, che nei differenti gradi di cui è capace forma la sovrapposizione dei generi; il quinto è la particolarità o la differenza, chiamata più specificamente vishêsha, ed è ciò che appartiene in proprio a una determinata sostanza, ciò per cui tale sostanza si differenzia da tutte le altre; il sesto è, infine, samavâya, l’aggregazione, cioè l’intima relazione di inerenza che unisce la sostanza e i suoi attributi, e del resto è essa stessa un attributo della sostanza. L’insieme dei sei padârtha, che in tal modo comprende le sostanze e tutti i loro attributi, costituisce bhâva, o l’esistenza; in opposizione correlativa è abhâva, ovvero la non-esistenza, di cui talvolta si fa un settimo padârtha, ma la cui concezione è esclusivamente negativa: è propriamente la «privazione» in senso aristotelico.
In merito alle suddivisioni di tali categorie, insisteremo soltanto su quelle della prima: esse sono le modalità e le condizioni generali delle sostanze individuali. In primo luogo vengono i cinque bhûta, o elementi costitutivi delle cose corporee, enumerati a partire dall’elemento che corrisponde all’ultimo grado di questo modo di manifestazione, vale a dire secondo il senso che propriamente corrisponde alla prospettiva analitica del Vaishêshika: prithwi, o la terra; ap, o l’acqua; têjas, o il fuoco; vâyu, o l’aria; âkâsha, o l’etere; il Sânkhya invece considera gli elementi nell’ordine inverso, quello cioè della loro produzione o derivazione. I cinque elementi si manifestano rispettivamente mediante le cinque qualità sensibili che corrispondono a essi e sono loro inerenti, e che appartengono alle suddivisioni della seconda categoria; essi sono determinazioni sostanziali, costitutive di tutto ciò che appartiene al mondo sensibile; sarebbe dunque un errore grave considerarli più o meno analoghi ai «corpi semplici», d’altra parte ipotetici, della chimica moderna, o anche assimilarli a «stati fisici», secondo un’interpretazione, piuttosto comune ma insufficiente, delle concezioni cosmologiche dei Greci. Dopo gli elementi, la categoria dravya comprende kâla, il tempo, e dish, lo spazio; sono condizioni fondamentali dell’esistenza corporea, e aggiungeremo, senza poterci soffermare, che esse rappresentano rispettivamente, in quel modo specifico che costituisce il mondo sensibile, l’attività dei due principi che, nell’ordine della manifestazione universale, sono designati come Shiva e Vishnu. Queste sette suddivisioni si riferiscono esclusivamente all’esistenza corporea; ma se si considera nella sua totalità un essere individuale come l’essere umano, egli comprende, oltre alla sua modalità corporea, elementi costitutivi di un altro ordine, e che sono qui rappresentati dalle due ultime suddivisioni della stessa categoria, âtmâ e manas. Il manas, ovvero, per tradurre la parola con un’altra di radice identica, il «mentale», è l’insieme delle facoltà psichiche di ordine individuale, vale a dire facoltà che appartengono all’individuo in quanto tale e fra cui nell’uomo la ragione è l’elemento caratteristico; quanto ad âtmâ, che si renderebbe pessimamente con «anima», esso è, a rigore, il principio trascendente a cui si collega l’individualità e che le è superiore, principio a cui deve essere qui riferito l’intelletto puro e che si distingue dal manas, o meglio dall’insieme composto dal manas e dall’organismo corporeo, così come la personalità, in senso metafisico, si distingue dall’individualità.
È specialmente nella teoria degli elementi corporei che appare la concezione atomistica: un atomo, o anu, ha almeno potenzialmente la natura dell’uno o dell’altro degli elementi, ed è tramite l’unione di atomi di queste differenti specie, sotto l’azione di una forza «non-percepibile» o adrishta, che tutti i corpi si sono formati. Abbiamo già detto che tale concezione è apertamente in contrasto col Vêda, il quale afferma invece l’esistenza dei cinque elementi; tra questa e quella non esiste di conseguenza alcuna connessione reale. Del resto nulla è più facile che evidenziare le contraddizioni implicite nell’atomismo, il cui errore di fondo consiste nel presupporre elementi semplici nell’ordine corporeo, mentre tutto ciò che è corpo è per necessità composto, essendo sempre divisibile per il fatto stesso di essere esteso, vale a dire sottoposto alla condizione spaziale; nulla si può trovare di semplice o indivisibile se non uscendo dall’estensione, dunque da quella modalità particolare di manifestazione che è l’esistenza corporea. Se si prende la parola «atomo» nel suo significato proprio, quello di «indivisibile», cosa che non fanno più i fisici moderni ma che è necessario fare qui, si può dire che un atomo, dovendo essere senza parti, deve anche essere senza estensione; ora, una somma di elementi senza estensione non formerà mai un’estensione; se gli atomi sono quel che devono essere per definizione, allora sarà impossibile che giungano a formare i corpi. A questo ragionamento ben noto e del resto decisivo, ne aggiungeremo un altro, di cui Shankarâchârya si serve per confutare l’atomismo[1]: due cose possono venire a contatto con una parte di sé o con la loro totalità; per gli atomi, i quali non hanno parti, la prima ipotesi è impossibile; resta la seconda, vale a dire che il contatto o l’aggregazione di due atomi può soltanto essere realizzato dalla loro pura e semplice coincidenza, da cui risulta chiaramente come due atomi riuniti non sono più, quanto all’estensione, che un solo atomo, e così via indefinitamente; come prima, dunque, degli atomi in un numero qualsivoglia non formeranno mai un corpo. Così l’atomismo è davvero una impossibilità, come dicevamo precisando il significato secondo cui occorre intendere l’eterodossia; ma lasciando perdere l’atomismo, il punto di vista del Vaishêshika, ridotto a quel che ha di essenziale, è perfettamente legittimo, e l’esposizione che precede ne definisce a sufficienza la portata e il significato.


[1] Commento ai Brahma-sûtra; 2° Adhyâya, 1° Pâda, sûtra 29.

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