Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
IV. Le interpretazioni occidentali
1. L’orientalismo ufficiale
Sull’orientalismo ufficiale diremo qui ben poco, dato che abbiamo già più volte segnalato l’insufficienza dei suoi metodi e l’erroneità delle sue conclusioni: se dunque lo abbiamo quasi costantemente tenuto presente, mentre non ci preoccupavamo molto delle altre interpretazioni occidentali, la ragione è che esso si presenta almeno con una parvenza di serietà che le ultime non hanno, obbligandoci così a un distinguo che torna a suo vantaggio.
Non intendiamo in alcun modo contestare la buona fede degli orientalisti, che in genere è indubbia, né la realtà della loro erudizione specifica; contestiamo la loro competenza su tutto quanto ecceda la semplice erudizione.
Non intendiamo in alcun modo contestare la buona fede degli orientalisti, che in genere è indubbia, né la realtà della loro erudizione specifica; contestiamo la loro competenza su tutto quanto ecceda la semplice erudizione.
È tuttavia opportuno riconoscere l’encomiabile modestia con cui alcuni di loro, consapevoli dei limiti della propria competenza reale, si astengono dal dedicarsi all’interpretazione delle dottrine; ma purtroppo si tratta di una minoranza, e il maggior numero è costituito da coloro che, facendo dell’erudizione un fine a sé, come affermavamo al principio, credono in tutta sincerità che i loro studi linguistici e storici li autorizzino a trattare ogni sorta di cose. Verso costoro pensiamo non si possa essere troppo severi, quanto ai metodi usati e ai risultati ottenuti, pur nel rispetto, ovviamente, delle persone che possono meritarlo sotto ogni riguardo, essendo assai poco responsabili dei loro pregiudizi e delle loro illusioni. L’esclusivismo è una conseguenza naturale della ristrettezza di vedute, di ciò che abbiamo chiamato «miopia intellettuale», difetto mentale che non sembra più guaribile della miopia fisica e che del resto, al pari di quest’ultima, è una deformazione provocata da certe abitudini che la inducono a poco a poco e senza che sia possibile accorgersene, benché occorra esservi predisposti. Stando così le cose, non c’è motivo di stupirsi dell’ostilità che la maggioranza degli orientalisti manifesta nei confronti di quanti non si piegano ai loro metodi e non fanno proprie le loro conclusioni; è solo un caso particolare delle conseguenze che provoca di solito l’abuso della specializzazione, nonché una delle innumerevoli manifestazioni di quello spirito «scientista» che troppo facilmente si confonde con il vero spirito scientifico. Ma nonostante le scuse che si possono addurre per l’atteggiamento degli orientalisti, resta nondimeno che i pochi risultati validi a cui i loro studi sono potuti giungere, naturalmente dal loro punto di vista specifico dell’erudizione, sono quanto mai lungi dal compensare il danno che possono arrecare all’intellettualità in genere. ostruendo tutte le altre vie che potrebbero condurre ben più lontano quanti fossero in grado di seguirle: dati i pregiudizi dell’Occidente moderno, per stornare da queste vie quasi tutti coloro che fossero tentati di imboccarle, basta dichiarare solennemente che «non sono scientifiche», perché non conformi ai metodi e alle teorie ammesse e insegnate ufficialmente nelle università. Quando bisogna difendersi da un pericolo, qualunque esso sia, in genere non si perde tempo a cercare delle responsabilità; se dunque certe opinioni sono intellettualmente pericolose, e pensiamo che questo sia il caso, ci si dovrà sforzare di demolirle senza preoccuparsi di chi le ha emesse o le difende, e la cui onorabilità non è affatto in causa. Le considerazioni personali, che rispetto alle idee sono ben poca cosa, non possono legittimamente impedire di combattere le teorie che si oppongono a certe realizzazioni; del resto, poiché tali realizzazioni, su cui ritorneremo nella conclusione, non sono immediatamente possibili e poiché ogni zelo propagandistico ci è precluso, il mezzo più efficace di combattere le teorie in questione non è di discutere indefinitamente ponendosi sul loro terreno, bensì di mostrare le ragioni della loro falsità, ristabilendo la verità pura e semplice che sola importa essenzialmente a quanti possono comprenderla.
È questa la grande differenza, su cui non esiste accordo possibile con gli specialisti dell’erudizione: quando parliamo di verità non intendiamo soltanto una verità di fatto, che senz’altro ha la sua importanza, ma secondaria e contingente; quel che in una dottrina ci interessa è la verità, nel senso assoluto della parola, di quanto vi è espresso. Al contrario, coloro che si pongono dal punto di vista dell’erudizione, non si danno minimamente pensiero della verità delle idee; in fondo non sanno che cosa sia, né se esista, e non se lo domandano; per loro la verità non è nulla, se non nel caso specialissimo in cui si tratti esclusivamente di verità storica. La stessa tendenza si afferma negli storici della filosofia: a loro non interessa sapere se un’idea è vera o falsa, o in qual misura lo è; ma sapere esclusivamente chi ha avuto questa idea, in quali termini l’ha formulata, quando e in quali circostanze accessorie lo ha fatto; e siffatta storia della filosofia, che non vede niente all’infuori dei testi e dei particolari biografici, ha la pretesa di sostituirsi alla filosofia stessa, che perde così definitivamente quel po’ di valore intellettuale che poteva esserle rimasto nei tempi moderni. Del resto è ovvio che un atteggiamento simile è oltremodo nocivo per capire una qualsivoglia dottrina: dedicandosi solo alla lettera, esso non può penetrare lo spirito, e in tal modo fatalmente gli sfugge il fine stesso che si prefigge; l’incomprensione può soltanto generare interpretazioni balzane e arbitrarie, ovvero autentici errori, anche quando si tratti solo dell’esattezza storica. Così è, in misura più ampia che altrove, per l’orientalismo, il quale si trova alle prese con concezioni completamente estranee alla mentalità di chi se ne occupa; è il fallimento del sedicente «metodo storico», persino rispetto alla semplice verità storica, la cui ricerca, come dice la denominazione che gli è stata data, costituisce la sua stessa ragione d’essere. Coloro che ricorrono a tale metodo hanno il duplice torto, da un lato, di non vedere le ipotesi più o meno azzardate che esso implica, e che possono ricondursi principalmente all’ipotesi «evoluzionistica», e dall’altro, di illudersi sulla sua portata, credendolo applicabile a tutto; abbiamo detto perché non può assolutamente applicarsi al dominio della metafisica, dal quale ogni idea di evoluzione è bandita. Per i fautori di tale metodo la prima condizione per poter studiare le dottrine metafisiche è evidentemente di non essere metafisici; analogamente, coloro che lo applicano alla «scienza delle religioni», sostengono più o meno apertamente che non si hanno titoli per questo studio se solo si appartiene a qualche religione: tanto varrebbe proclamare l’esclusiva competenza, in qualsiasi ramo del sapere, di chi ne ha solo una conoscenza esterna e superficiale, quella stessa che l’erudizione basta a procurare, e ciò spiega indubbiamente perché, quanto a dottrine orientali, il parere degli stessi orientali sia tenuto per nullo e insussistente. Vi è qui in primo luogo un timore istintivo per tutto ciò che travalica l’erudizione e rischia di mostrare quanto essa sia mediocre e, tutto sommato, puerile; ma questo timore si rafforza alleandosi con l’interesse, molto più consapevole, che risiede nel mantenere quel monopolio di fatto che in tutti i campi hanno costituito a loro vantaggio i rappresentanti della scienza ufficiale, e gli orientalisti forse in modo ancor più completo degli altri. D’altronde la ferma volontà di non tollerare ciò che potrebbe essere pericoloso per le opinioni condivise e di fare il possibile per screditarlo, trova la propria giustificazione negli stessi pregiudizi che accecano queste persone dalle vedute ristrette e che le inducono a negare ogni valore a quanto non viene dalla loro scuola; anche qui dunque non incriminiamo la loro buona fede, ma semplicemente constatiamo l’effetto di una tendenza prettamente umana, per cui si è tanto più persuasi di una cosa, quanto più vi si ha un qualche interesse.
Crediamo di avere precisato abbastanza la nostra posizione nei riguardi dell’orientalismo ufficiale, tanto almeno da fugare equivoci e da non permettere che ci vengano attribuite intenzioni diverse da quelle che realmente abbiamo. Tuttavia, per concludere con tale questione dell’orientalismo, dobbiamo ancora trattare un punto a cui i recenti avvenimenti[1] danno una sorta di attualità tutta speciale: intendiamo l’influsso tedesco, di cui esso porta l’impronta nettissima sotto il duplice rispetto dei metodi usati e dello spirito stesso nel quale pretende di interpretare le dottrine, soprattutto quando si tratta delle dottrine indù.
[1] Il riferimento è alla prima guerra mondiale [N.d.T.].
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