"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 10 aprile 2014

A.K. Coomaraswamy, Evoluzione e Reincarnazione


A.K. Coomaraswamy
Evoluzione e Reincarnazione 

I cosiddetti conflitti tra religione e scienza derivano per la maggior parte da reciproca incomprensione dei rispettivi termini e sfere d'azione. Cominciando da queste ultime: l'una si interessa al perché delle cose, l'altra al come; l'una a cose impalpabili, l'altra a cose che possono essere misurate, sia direttamente sia indirettamente.
Ma più importante è la questione dei termini. A prima vista, l'idea di una creazione completa "fin dall'inizio" sembra opporsi alla origine - constatata - delle specie in tempi successivi. Ma "en archè", "in principio", non significa soltanto "all'inizio" in senso temporale, bensì anche "in principio", cioè in una sorgente ultima, logicamente più che cronologicamente precedente a tutte le cause seconde, né anteriore né posteriore al supposto inizio del loro operare. Come dice Dante,  
né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest' acque
o, come dice Filone:
"In quel tempo, tutte le cose furono presenti in maniera simultanea.... ma lo scrittore fu costretto a esprimersi con passaggi successivi a causa del loro susseguente generarsi l'una dall'altra";
e Behmen: 
"Si ebbe un inizio senza fine".
Come dice Aristotele,
"le cose eterne non sono nel tempo". 
L'esistenza di Dio, perciò, è l' "ora", l'eterno "ora" che separa la durata passata da quella futura ma che durata non è, neppur breve. Perciò, come dice Meister Eckhart, "Dio crea il mondo tutto intero «ora», in questo istante". Inoltre, non passa tempo, neppur breve, senza che ogni cosa sia cambiata; "pánta rei", "tu non puoi bagnare il tuo piede due volte nella stessa acqua".
Cosicché, anche secondo Jalalu'd-Din Rumi,
"a ogni istante tu muori e resusciti... Maometto ha detto che questo mondo non è che un attimo... A ogni istante il mondo è rinnovato, la vita arriva sempre nuova, come l'acqua del ruscello... L'inizio, che è pensiero, si realizza nell'azione; sappi che in questa guisa fu la costruzione del mondo nell'eternità"
A questo punto lo studioso della natura non ha obiezioni da sollevare; egli può certo precisare che il suo interesse si limita all'operare delle cause mediate, senza arrivare a porsi la questione di una causa prima o a domandarsi che cosa sia la vita; ma ciò equivale semplicemente a definire il campo che si è scelto: l'«Ego» è il solo contenuto del "Se stesso" che si possa conoscere oggettivamente, e perciò egli sceglie di considerare soltanto l'"Ego": il suo interesse si limita al comportamento. L'osservazione empirica si svolge sempre su entità che mutano, cioè su entità individuali o gruppi di entità individuali, delle quali – tutti i filosofi ne concordano - non si può dire che "sono" ma solamente che "diventano" e si "evolvono". Il fisiologo, per esempio, prende in esame il corpo; lo psicologo lo spirito o la personalità. Quest' ultimo è perfettamente consapevole che la fissità della personalità è solo un postulato, conveniente e perfino necessario ai fini della pratica, ma intellettualmente insostenibile; e a questo riguardo egli è perfettamente in linea con il buddismo, il quale non cessa di sottolineare che il corpo e l'anima - compositi e mutevoli, e perciò del tutto mortali - "non sono il mio Io" né la Realtà che deve essere conosciuta se vogliamo "diventare ciò che siamo". Anche sant'Agostino lo rileva: chi ha visto che corpo e anima sono entrambi mutevoli è partito alla ricerca di ciò che mutevole non è, e ha finito col trovare Dio, quell'Uno del quale le "Upanishad" affermano: "Quello sei tu". La "teologia perciò, coincidendo in questo con l'autologia", prescinde da tutto ciò che è emozionale per considerare soltanto ciò che non cambia: "Mutazione e decadimento in tutto ciò che vedo intorno a me, o Tu che non muti!". La teologia trova l'immutabile in quell'eterno "ora" che sempre separa il passato dal futuro e senza il quale questi due termini accoppiati non avrebbero significato alcuno, così come lo spazio non avrebbe significato se non esistesse il punto che distingue il "qui" dal "là". Istante senza durata, punto senza estensione: ecco la Sezione Aurea, l'inconcepibile Via Stretta che conduce fuori del tempo e introduce nell'eternità, dalla morte all'immortalità. La nostra esperienza della "vita" è un divenire, un'evoluzione: ma "che cosa" si evolve? Evoluzione significa reincarnazione, morte di uno e rinascita di un altro in istantanea continuità; "chi" si reincarna? La metafisica prescinde dalla proposizione animistica di Cartesio: "Cogito ergo sum", per enunciare: "Cogito ergo est"; e alla domanda: "Quid est?", risponde che questa è domanda impropria, perché il suo soggetto non è una entità fra le altre ma la "quiddità" o essenza di queste entità e di tutte quelle che esse non sono. La reincarnazione - intesa comunemente come ritorno di anime individuali in altri corpi qui sulla terra - non è una dottrina indiana ortodossa ma soltanto una credenza popolare. Così, per esempio, come rileva B.C. Law, "è ovvio che un pensatore buddista rifugga dall'idea del passaggio di un "ego" da una incarnazione all'altra". Noi ci allineiamo con Shri Shankaracarya quando afferma: "In verità, all'infuori del Signore, non v'è alcun altro che trasmigri", quel Signore che è trascendentalmente se stesso e nello stesso tempo il Se stesso immanente di tutti gli esseri, senza mai divenire qualcuno Egli stesso. (In appoggio a questa affermazione si potrebbero citare molti testi autorevoli dai "Veda" e dalle "Upanishad".) Quando perciò sentiamo Shri Krishna dire ad Arjuna, e il Buddha ai suoi Mendicanti: "Lunga è la via che abbiamo percorso, e molte sono le nascite che tu e io abbiamo conosciuto", non dobbiamo pensare a una pluralità di essenze ma all'Uomo Universale che è in ciascun uomo; quest'Uomo Universale nella maggior parte degli individui ha perso di vista se stesso, ma nei risvegliati ha raggiunto il termine del cammino, e avendo provato a sufficienza tutto ciò che muta, non è più del tempo, non è più qualcuno, non è più uno cui ci si possa rivolgere chiamandolo per nome. Il Signore è l'unico trasmigrante. Questo sei tu: il vero Uomo in ogni uomo. Così dice Blake: "L'uomo guarda all'albero, all'erba, al pesce, alla bestia, raccogliendo le parti sparpagliate del suo corpo immortale... Dovunque cresce un'erba e spunta una foglia, si scorge, si ode, si percepisce l'Uomo Eterno, con tutte le sue sofferenze, finché egli ritrovi la sua antica beatitudine"; Manikka Vachagar: "Erba, arbusto ero io, bruco, albero, tutto un miscuglio di bestia, uccello, serpente, pietra, uomo, demonio... Nato in ogni specie, Gran Signore! in questo giorno ho meritato la mia liberazione" ; Ovidio: " Lo spirito vaga, gira di qui e di là, e occupa qualunque spazio gli piaccia. Dagli animali passa ai corpi umani, e dai nostri corpi nelle bestie, senza mai esaurirsi"; Taliessin: "Io ero sotto molte forme diverse prima che fossi disincantato: ero l'eroe in difficoltà, sono vecchio e sono giovane "; Empedocle: " Prima d'ora io sono nato ragazzo e fanciulla, cespuglio e uccello, e pesce muto che guizza fuori del mare"; Jalalu'd-Din Rumi: "Dapprima egli venne dal regno dell'inorganico, dimorò per lunghi anni nello stato vegetale, passò alla condizione animale, poi di qui all'umanità: da questa, resta da compiere ancora un'altra migrazione"; "Aitareya Aranyaka": "Colui che sempre più chiaramente conosce l'Io è sempre più manifestato. In tutte le piante e alberi e animali che esistono egli ravvisa l'Io sempre più chiaramente manifestato. Nelle piante e negli alberi infatti, si vede soltanto il plasma, ma negli animali si ravvisa l'intelligenza. In essi l'Io si fa sempre più evidente. Nell'uomo, poi, l'Io è ancor più evidente perché egli è più dotato di previdenza, esprime ciò di cui è venuto a conoscenza, vede ciò di cui è venuto a conoscenza, egli conosce il domani, sa che cosa è e che cosa non è mondano, e attraverso il mortale persegue l'immortale. Quanto agli altri, cioè agli animali, fame e sete sono il grado della loro discriminazione". Riassumendo con le parole di Faridu'd-Din 'Attar: "Pellegrino pellegrinaggio e strada, altro non era il mio Io verso Me stesso". Questa è la dottrina tradizionale della "reincarnazione", non nel senso popolare e animistico, ma intesa come trasmigrazione ed evoluzione della "Natura sempre feconda"; un simile concetto di trasmigrazione non è affatto in conflitto né esclude la realtà del processo di evoluzione quale è previsto dai moderni studiosi della natura. 
Al contrario, è precisamente la conclusione cui perviene per esempio Erwin Schrödinger nelle sue indagini sull'ereditarietà. Nel capitolo conclusivo, "Determinismo e volontà libera", del suo libro "What is life?" egli afferma: "La sola conclusione possibile... è che Io nel significato più vasto del termine - cioè intendendo con 'Io ogni spirito consapevole che non abbia mai detto o sentito 'Io' – sono la persona, se questa esiste, che controlla 'il movimento degli atomi 'conforme alle Leggi della Natura... 'Coscienza' è parola singolare, della quale non si conosce il plurale". Lo Schrödinger sa perfettamente che questa è la concezione enunciata nelle "Upanishad", e più succintamente nelle formule: "Quello sei tu... all'infuori del Quale non è altri che vada, oda, pensi o agisca". Cito lo Schrödinger non perché io ritengo che la verità delle dottrine tradizionali possa essere provata con metodi di laboratorio, ma perché la sua posizione illustra molto bene il punto principale della mia esposizione, cioè che tra scienza e religione non esiste conflitto inevitabile ma solo la possibilità di confondere i campi rispettivi; trovo inoltre la conferma che per l'uomo che ha realizzato l'integrazione dell'«Ego» con il Sé non esiste barriera insormontabile tra il campo della scienza e quello della religione. Lo scienziato che studia la natura e il metafisico possono coesistere nella stessa persona, senza bisogno di tradire da una parte l'obiettività scientifica e dall'altra i principi.

Noi non diciamo che una teoria della reincarnazione (la reincarnazione specifica di un uomo, cioè della vera personalità del defunto) non sia mai stata creduta in India o altrove, ma d'accordo con R. Guénon affermiamo che "non è mai stata insegnata in India, neanche dai buddisti ma è essenzialmente una concezione europea moderna", inoltre "nessuna dottrina tradizionale autentica ha mai parlato di reincarnazione" (L'Erreur spirite, pp 47 , 199). È generalmente accettato dagli studiosi moderni che la "reincarnazione" non sia una dottrina vedica ma che abbia un’origine popolare o sconosciuta, adottata e data per scontata già nelle Upanishad e nel buddismo. Trascurando il buddismo per il momento, si può osservare che dove abbiamo a che fare con un tema fondamentale e rivoluzionario e non con un semplice sviluppo delle dottrine insegnate in precedenza, è inconcepibile per il punto di vista tradizionale e ortodosso indù affermare che ciò non è insegnato in qualche parte della shruti possa essere insegnato altrove. A tal proposito, non si può immaginare un indù ortodosso «scegliere» tra il Rig Veda e le Upanishad, come se uno dei due potesse essere giusto e l'altro sbagliato. Questa difficoltà scompare se accertiamo che la teoria della reincarnazione (come distinta dalle dottrine della metempsicosi e della trasmigrazione) non è realmente insegnata nelle Upanishad: in questo contesto richiamiamo una particolare attenzione alle dichiarazioni della Brihadâranyaka Upanishad, IV, 3. 37, dove , quando una nuova entità è arrivata all’essere, gli elementi costitutivi del nuovo concepito non sono annunciati come "Ecco che arriva uno così e così" (il precedentemente defunto) ma, «ARRIVA BRAHMAN».

Tutto ciò è in perfetto accordo con il Milinda Pañho buddista, 72, dove si dice categoricamente che nessuna entità passa in ogni caso da un corpo all'altro ma semplicemente che una nuova fiamma è accesa. Nel differenziare la reincarnazione, come sopra definita, da metempsicosi e trasmigrazione si può aggiungere che ciò che si intende per metempsicosi è l'aspetto psichico della palingenesi, o in altre parole l’eredità psichica e quello che si intende per trasmigrazione è un cambiamento di stato o di livello di riferimento escludendo, per definizione, l'idea di un ritorno in qualsiasi stato o livello da cui si è già passati. La trasmigrazione dell'Atman «individuale» (spirito) si distingue solo come un caso particolare della trasmigrazione di Paramatman (Spirito, Brahman), per quest’ultima, però può essere dimostrata impiegando un termine più opportuno come «peregrinazione». La peregrinazione sostituisce la trasmigrazione quando lo stato del kâmâcârin (mosso dalla volontà) è stato raggiunto.

Ci sono indubbiamente molti passaggi nelle Upanisad, o altrove, che, presi fuori dal loro contesto, sembrano parlare di una «reincarnazione personale» e sono stati quindi fraintesi allo stesso modo in India e in Europa. Cfr . Scott, Hermetica , II , pp 193-194 , nota 6 (nella frase citata si parla del figlio di Valerio ma per i nostri scopi vale per un qualsiasi "qualcuno" o “ogni uomo”): “durante la sua vita terrena era una porzione distinta di pneuma, delimitato e diviso dal resto; ora quella porzione di pneuma che era lui, viene miscelata con l'intera massa del pneuma in cui la vita dell'universo risiede. Questo è ciò che lo scrittore (Apollonio) deve aver inteso, se è stato fedele alla dottrina stabilita nella parte precedente della lettera. Ma da questo punto in poi, parla ambiguamente e utilizza frasi che, ad un lettore che non ha pienamente afferrato il senso della sua dottrina, potrebbe sembrare implicare una sopravvivenza di un uomo come una persona distinta e individuale”.
La mentalità moderna, con il suo attaccamento all’«individualità» e alle «prove della sopravvivenza della persona» è predisposta a fraintendere i testi tradizionali. Non si dovrebbe leggere in questi testi quello che vorremmo o "naturalmente" ci aspettiamo di trovare in loro, ma solo per leggere in loro che cosa significano: ma "è difficile per noi abbandonare le cose familiari intorno a noi, e tornare indietro alla vecchia casa dove siamo venuti" (Hermes, Lib. IV,9) cioè l’individualità. Tuttavia possiamo spezzare le sue catene, è una modalità parziale e definitiva di essere: "io" è definito da ciò che è "non-io " e quindi imprigionato. È in vista della liberazione da questa prigione e da questa parzialità che i nostri testi dimostrano così ripetutamente che la nostra vantata individualità non è né uniforme né costante, ma composita e variabile, sottolineando che è più saggio colui che dice "Io non sono ora l'uomo che ero" Questo è vero in una certa misura per tutte le cose finite; ma la "fine della strada" (adhvanah param) sta al di là dell’ “umanità”. " È solo di ciò che non è individuale, ma universale (cosmico) che la durata può essere attribuita e solo di ciò che non è né individuale né universale che un'eternità, senza prima o dopo, si può affermare .

* Fonte: "Sapienza Orientale e Cultura Occidentale", A.K. Coomaraswamy