Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo
Cap. X - Taoismo e Confucianesimo[1]
I popoli antichi, per la maggior parte, non si sono gran che
preoccupati di stabilire una cronologia rigorosa per la loro storia; alcuni poi
si servirono, almeno per i tempi più remoti, soltanto di numeri simbolici, che
non è possibile scambiare per date nel senso consueto e letterale del termine
senza commettere un grave errore. Sotto questo aspetto i Cinesi costituiscono
un’eccezione abbastanza notevole: essi sono forse l’unico popolo che si sia
costantemente preoccupato, fin dall’origine della sua tradizione, di datare gli
annali in base a osservazioni astronomiche accurate, che comportavano la
descrizione delle condizioni celesti al momento del prodursi degli avvenimenti
di cui è stato conservato il ricordo.
Possiamo dunque, per ciò che riguarda la Cina e la sua storia antica, essere più precisi che in molti altri casi; sappiamo così che l’origine della tradizione che si può chiamare propriamente cinese risale a circa 3700 anni prima dell’era cristiana. Per una coincidenza abbastanza curiosa, tale periodo corrisponde anche agli inizi dell’era ebraica, per i quali, tuttavia, sarebbe difficile dire a quale avvenimento in realtà risalgano.
Possiamo dunque, per ciò che riguarda la Cina e la sua storia antica, essere più precisi che in molti altri casi; sappiamo così che l’origine della tradizione che si può chiamare propriamente cinese risale a circa 3700 anni prima dell’era cristiana. Per una coincidenza abbastanza curiosa, tale periodo corrisponde anche agli inizi dell’era ebraica, per i quali, tuttavia, sarebbe difficile dire a quale avvenimento in realtà risalgano.
Una tale origine, per remota che possa apparire se
paragonata a quella della civiltà greco-romana e alle date dell’antichità detta
«classica», è tuttavia, a dire il vero, ancora piuttosto recente; qual era,
prima di quell’epoca, la condizione della razza gialla, che verosimilmente
abitava allora alcune regioni dell’Asia centrale? È impossibile precisarlo, in
mancanza di dati sufficientemente espliciti; sembra che essa abbia attraversato
un periodo di oscuramento, di durata indeterminata, e che da quel sonno sia
stata scossa in un’epoca che fu segnata da cambiamenti importanti anche per
altre parti del mondo. È dunque possibile, ed è anzi la sola cosa attestata
abbastanza chiaramente, che ciò che appare come un inizio sia stato in realtà
soltanto il risveglio di una tradizione molto anteriore, la quale però dovette
allora assumere una forma diversa, per adattarsi a condizioni nuove. Comunque
sia, la storia della Cina, o del territorio che oggi viene chiamato in questo
modo, comincia propriamente solo con Fou-hi, considerato il suo primo
imperatore; e bisogna subito aggiungere che con il nome di Fou-hi, al quale si
riallaccia l’insieme delle conoscenze che costituiscono l’essenza stessa della
tradizione cinese, in realtà si è soliti designare un intero periodo, che si
estende per una durata di parecchi secoli.
Fou-hi, per fissare i principi della tradizione, fece uso di
simboli lineari di estrema semplicità e insieme di estrema pregnanza: il tratto
continuo e il tratto spezzato, segni rispettivi dello yang e dello yin, cioè
dei due principi attivo e passivo i quali, procedendo da una sorta di
polarizzazione della suprema Unità metafisica, producono l’intera
manifestazione universale. Dalle combinazioni di questi due segni, in tutte le
loro possibili disposizioni, vengono formati gli otto koua o «trigrammi», che sono poi sempre rimasti come simboli
fondamentali della tradizione estremo-orientale. Si dice che, «prima di
tracciare i trigrammi, Fou-hi guardò il Cielo, poi abbassò gli occhi verso la
Terra, ne osservò le particolarità, considerò i caratteri del corpo umano e di
tutte le cose esteriori».[2]
Questo testo è particolarmente interessante perché contiene l’espressione
formale della grande Triade: il Cielo e la Terra, ovvero i due principi
complementari da cui sono prodotti tutti gli esseri, e l’uomo, il quale,
partecipando con la sua natura dell’uno e dell’altra, è il termine mediano
della Triade, il mediatore fra il Cielo e la Terra. Conviene precisare che si
tratta qui dell’«uomo vero», cioè di colui che, raggiunto il pieno sviluppo
delle sue facoltà superiori, «può aiutare il Cielo e la Terra nel mantenimento
e nella trasformazione degli esseri, e per ciò stesso costituire un terzo
potere con il Cielo e la Terra».[3] Si
dice anche che Fou-hi vide uscire dal fiume un dragone che riuniva in sé le
potenze del Cielo e della Terra, e che portava i trigrammi inscritti sul dorso;
e questo è ancora un altro modo di esprimere simbolicamente la stessa cosa.
Tutta la tradizione fu dunque dapprima contenuta
essenzialmente e come in germe nei trigrammi, simboli meravigliosamente adatti
a servire da supporto a possibilità indefinite: non restava che trarne gli
sviluppi necessari, sia nell’ambito della pura conoscenza metafisica, sia in
quello delle sue varie applicazioni all’ordine cosmico e all’ordine umano. A
tal fine, Fou-hi scrisse tre libri, dei quali solo il terzo, chiamato Yi King o «Libro dei Mutamenti», è
giunto fino a noi; ma il testo di quel libro è ancora talmente sintetico da
poter essere inteso in molteplici sensi, del resto perfettamente concordanti
tra loro, a seconda che ci si attenga rigorosamente ai principi o che si voglia
applicarli a questo o quell’ambito particolare. Così, oltre al senso
metafisico, vi sono numerosissime applicazioni contingenti, di importanza
ineguale, le quali costituiscono altrettante scienze tradizionali: applicazione
logica, matematica, astronomica, fisiologica, sociale e così via; vi è anche
un’applicazione divinatoria, considerata peraltro fra le più basse, e la cui
pratica è lasciata ai giocolieri ambulanti. Del resto è un carattere comune a
tutte le dottrine tradizionali quello di contenere in sé fin dall’origine le
possibilità di tutti gli sviluppi concepibili, compresi quelli di un’indefinita
varietà di scienze di cui l’Occidente moderno non ha la più pallida idea, e di
tutti gli adattamenti che potranno essere richiesti dalle circostanze
ulteriori. Non è dunque il caso di stupirsi se gli insegnamenti racchiusi nell’Yi King, che lo stesso Fou-hi dichiarava
di aver tratto da un passato molto remoto e molto difficile da determinare,
sono divenuti a loro volta la base comune di due dottrine alle quali la
tradizione cinese è rimasta fedele sino ai nostri giorni, e che però, data la
totale disparità delle rispettive sfere di competenza, possono sembrare a prima
vista del tutto prive di punti di contatto: il Taoismo e il Confucianesimo.
Quali sono le circostanze che, dopo circa tremila anni,
resero necessario un riadattamento della dottrina tradizionale, cioè un
cambiamento riguardante non il fondo, che rimane sempre rigorosamente identico
a se stesso, ma le forme di cui tale dottrina è in qualche modo rivestita?
Anche questo è un punto che sarebbe senza dubbio difficile chiarire
completamente, dato che tali cose, in Cina come altrove, sono di un genere che
quasi non lascia traccia nella storia scritta, dove gli effetti esteriori sono
molto più appariscenti delle cause profonde. In ogni caso, sembra certo che la
dottrina quale era stata formulata all’epoca di Fou-hi aveva cessato d’essere
generalmente compresa in ciò che ha di più essenziale; e senza dubbio anche le
applicazioni che da essa in passato erano state tratte, in particolare dal
punto di vista sociale, non corrispondevano più alle condizioni di esistenza
della stirpe, che nel frattempo dovevano essersi modificate sensibilmente.
Si era nel VI secolo avanti Cristo; e va notato che in quel
tempo si produssero notevoli cambiamenti presso quasi tutti i popoli, sicché
ciò che avvenne allora in Cina sembra da ricondurre a una causa, forse
difficilmente determinabile, la cui azione influenzò tutta l’umanità. Colpisce
il fatto che il VI secolo possa essere considerato, in via del tutto generale,
come l’inizio del periodo propriamente «storico»; quando si vuole risalire più
indietro, è impossibile stabilire una cronologia sia pure approssimativa, salvo
in alcuni casi eccezionali, com’è appunto quello della Cina; al contrario, a
partire da quell’epoca, le date degli avvenimenti sono ovunque conosciute con
una certa precisione: indubbiamente, è un fatto che si presta a qualche
riflessione. Peraltro, i cambiamenti che allora si verificarono presentano
caratteri diversi a seconda dei luoghi: in India, ad esempio, si vide nascere
il Buddhismo, vale a dire una rivolta contro lo spirito tradizionale che giunse
fino alla negazione di ogni autorità, fino a una vera anarchia nell’ordine
intellettuale e nell’ordine sociale; in Cina, al contrario, fu strettamente nel
solco della tradizione che si costituirono simultaneamente le due nuove forme
dottrinali alle quali si dà il nome di Taoismo e Confucianesimo.
I fondatori di queste due dottrine, Lao-tseu e K’ong-tseu,
chiamato Confucio dagli Occidentali, erano dunque contemporanei, e la storia
narra che essi un giorno si incontrarono. «Hai scoperto il Tao?» domandò Lao-tseu. «L’ho cercato per ventisette anni» rispose
K’ong-tseu «e non l’ho trovato». Udito ciò, Lao-tseu si limitò a dare questi
pochi consigli: «II saggio predilige l’oscurità; non si concede al primo che
passa; valuta i tempi e le circostanze. Se il momento è propizio, egli parla;
altrimenti, tace. Chi possiede un tesoro non lo mostra a tutti; così, chi è
veramente saggio non svela a tutti la sapienza. Ecco tutto ciò che ho da dirti:
tranne profitto». K’ong-tseu, di ritorno da quell’incontro, disse: «Ho visto
Lao-tseu; assomiglia al dragone. Quanto al dragone, ignoro come possa, portato
da venti e vapori, elevarsi fino al cielo».
Questo aneddoto, riportato dallo storico Sseu-ma Ts’ien,
definisce perfettamente le rispettive posizioni delle due dottrine – dovremmo
dire piuttosto dei rami della dottrina – in cui si sarebbe da allora in poi
divisa la tradizione estremo-orientale: una essenzialmente rivolta alla
metafisica pura, alla quale si affiancano tutte le scienze tradizionali di
portata propriamente speculativa, o per meglio dire «cognitiva»; l’altra
circoscritta all’ambito pratico e che si mantiene esclusivamente sul terreno
delle applicazioni di ordine sociale. Lo stesso K’ong-tseu ammetteva di non
essere «nato alla Conoscenza», cioè di non aver raggiunto la vera conoscenza,
che è quella di ordine metafisico e sopra-razionale; conosceva i simboli
tradizionali, ma non aveva penetrato il loro significato più profondo. Perciò
la sua opera doveva necessariamente rimanere limitata a un ambito particolare e
contingente, il solo che fosse di sua competenza; ma almeno si guardava bene
dal negare ciò che lo sorpassava. In questo i suoi discepoli più o meno lontani
non sempre lo imitarono, e alcuni, per un difetto assai diffuso tra gli
«specialisti» di qualsiasi genere, diedero prova talvolta di meschino
esclusivismo, che attirò su di loro, da parte dei grandi commentatori taoisti
del IV secolo a.C. – Lie-tseu e soprattutto Tchouang-tseu –, qualche frecciata
di sferzante ironia.
Le discussioni e le polemiche che sorsero così in particolari
epoche non devono tuttavia far credere che il Taoismo e il Confucianesimo
fossero due scuole rivali: non lo furono mai e non possono esserlo, avendo
ciascuno una sfera propria nettamente distinta. Non vi è dunque, nella loro
coesistenza, nulla che non sia perfettamente normale e regolare e, sotto certi
aspetti, la loro distinzione corrisponde assai precisamente, in altre civiltà,
a quella fra l’autorità spirituale e il potere temporale.
Peraltro abbiamo già detto che le due dottrine hanno una
radice comune, la tradizione anteriore; K’ong-tseu, al pari di Lao-tseu, non
ebbe mai l’intento di esporre concezioni che fossero soltanto le proprie, e
che, per ciò stesso, sarebbero state sprovviste di ogni autorità e di ogni
portata reale. «Io sono» diceva K’ong-tseu «un uomo che ha venerato gli antichi
e che ha compiuto ogni sforzo per acquisire le loro conoscenze»;[4] e
tale atteggiamento, che è l’opposto dell’individualismo degli Occidentali
moderni e delle loro pretese di «originalità» a ogni costo, è il solo compatibile
con la costituzione di una civiltà tradizionale. Il termine «riadattamento», da
noi usato in precedenza, è dunque qui il più appropriato, e le istituzioni
sociali che ne risultano sono contrassegnate da una notevole stabilità, poiché
hanno avuto una durata di venticinque secoli e hanno superato tutti i periodi
di torbidi che la Cina ha attraversato fino a oggi. Non abbiamo intenzione di
diffonderci su queste istituzioni, che del resto sono abbastanza conosciute
nelle linee generali; ci limiteremo a rammentare che il loro tratto essenziale
è di avere come fondamento la famiglia, e di estendersi da quella alla stirpe,
che è l’insieme delle famiglie che discendono da uno stesso capostipite; uno
dei caratteri propri della civiltà cinese è in effetti quello di fondarsi
sull’idea della stirpe e della solidarietà che unisce i suoi membri tra loro,
mentre le altre civiltà, che in genere comprendono uomini appartenenti a ceppi
diversi o di origine incerta, si basano su principi d’unità del tutto differenti.
Di solito, in Occidente, quando si parla della Cina e delle
sue dottrine, ci si riferisce quasi esclusivamente al Confucianesimo, ma ciò
non significa che lo si interpreti sempre correttamente; si pretende a volte di
farne una specie di «positivismo» orientale, mentre in realtà è tutt’altra
cosa, in primo luogo per il suo carattere tradizionale, e poi perché, come
abbiamo detto, è un’applicazione di principi superiori, mentre il positivismo
implica la negazione di tali principi. Quanto al Taoismo, generalmente viene
passato sotto silenzio, e molti sembrano perfino ignorarne l’esistenza, o
credere perlomeno che sia scomparso da molto tempo e non rivesta più che un
interesse meramente storico o archeologico; vedremo in seguito le ragioni di
questo errore.
Lao-tseu scrisse un solo trattato, per di più estremamente
conciso, il Tao-te-king o «Libro
della Via e della Rettitudine»; tutti gli altri testi taoisti sono commentari
di questo libro fondamentale o redazioni più o meno tardive di insegnamenti
complementari che, all’inizio, erano stati trasmessi solo oralmente. Il Tao, la cui traduzione letterale è
«Via», e che ha dato il nome alla dottrina stessa, è il Principio supremo,
considerato dal punto di vista strettamente metafisico: è al tempo stesso
l’origine e la fine di tutti gli esseri, come mostra assai chiaramente il
carattere ideografico che lo rappresenta. Il Te – che noi preferiamo rendere con «Rettitudine» piuttosto che con
«Virtù», come talvolta si fa, e questo per evitare di attribuirgli un’accezione
«morale» che non è assolutamente nello spirito del Taoismo –, il Te, dicevamo, è ciò che si potrebbe
chiamare una «specificazione» del Tao
rispetto a un dato essere, quale ad esempio l’essere umano: è la direzione che
quell’essere deve seguire perché la sua esistenza, nello stato in cui
attualmente si trova, sia conforme alla Via, o in altre parole conforme al
Principio. Lao-tseu si colloca dunque in primo luogo su un piano universale, e
discende poi a un’applicazione; ma tale applicazione, pur riguardando propriamente
il caso dell’uomo, non è in alcun modo realizzata in un’ottica sociale o
morale; ciò a cui si guarda è sempre e solo il ricongiungimento al Principio
supremo, e così, in realtà, non usciamo dall’ambito della metafisica.
Dunque non è certo all’azione esteriore che il Taoismo
attribuisce importanza; la considera insomma indifferente in se stessa, e
insegna espressamente la dottrina del «non-agire», della quale gli Occidentali
hanno in genere qualche difficoltà a comprendere il vero significato, sebbene
possano trovare un aiuto nella teoria aristotelica del «motore immobile», il
cui senso è in fondo lo stesso, ma di cui non sembrano aver mai sviluppato le
conseguenze. Il «non-agire» non è affatto l’inerzia, al contrario, è la
pienezza dell’attività, ma un’attività trascendente e tutta interiore,
non-manifestata, in unione con il Principio, dunque al di là di tutte le
distinzioni e di tutte le apparenze che il volgo prende a torto per la realtà
stessa, mentre non ne sono che un riflesso più o meno lontano. Va del resto
notato che anche il Confucianesimo, il cui punto di vista è però quello
dell’azione, parla dell’«invariabile mezzo», cioè dello stato di equilibrio
perfetto, sottratto alle incessanti vicissitudini del mondo esteriore, ma lo
considera soltanto l’espressione di un ideale puramente teorico, e può al
massimo cogliere, nel campo del contingente che gli è proprio, una semplice
immagine del vero «non-agire», laddove, per il Taoismo, si tratta di cosa ben
diversa, di una realizzazione pienamente effettiva di tale stato trascendente.
Posto al centro della ruota cosmica, il saggio perfetto la muove
invisibilmente, con la sua sola presenza, senza partecipare al movimento e
senza doversi preoccupare di esercitare una qualunque azione; il suo distacco assoluto
lo rende signore di tutte le cose, poiché non vi è più nulla che possa
condizionarlo. «Egli ha raggiunto la perfetta impassibilità; la vita e la morte
essendogli parimenti indifferenti, la rovina dell’universo non produrrebbe in
lui alcuna emozione. A forza di scrutare, egli è giunto alla verità immutabile,
alla conoscenza del Principio universale unico. Egli lascia che gli esseri
evolvano secondo il loro destino, e si tiene al centro immobile di tutti i
destini... Il segno esteriore di questo stato interiore è l’imperturbabilità;
non quella del valoroso che per amore della gloria si getta da solo contro un
esercito schierato in battaglia, ma quella dello spirito che, superiore al
cielo, alla terra, a tutti gli esseri, abita in un corpo al quale non tiene,
non fa alcun caso alle immagini che i suoi sensi gli forniscono, conosce tutto
per conoscenza globale nella sua unità immobile. Questo spirito, assolutamente
indipendente, è signore degli uomini; se egli volesse convocarli in massa, al
giorno fissato tutti accorrerebbero; ma egli disdegna di farsi servire».[5] «Se
un vero saggio dovesse, certo suo malgrado, incaricarsi della cura dell’impero,
tenendosi nel non-agire egli userebbe il tempo libero del suo non-intervento
per dare libero corso alle sue propensioni naturali. L’impero trarrebbe
beneficio dall’essere stato affidato alle mani di quell’uomo. Senza coinvolgere
i propri organi, senza servirsi dei propri sensi corporei, assiso immobile,
egli tutto vedrebbe con il suo occhio trascendente; assorto in contemplazione,
egli squasserebbe tutte le cose come fa il tuono; il cielo fisico si
adatterebbe docilmente ai movimenti del suo spirito; tutti gli esseri
seguirebbero l’impulso del suo non-intervento, come la polvere è trascinata dal
vento. Perché mai un tale uomo dovrebbe governare l’impero, quando la
noncuranza è sufficiente?».[6]
Abbiamo particolarmente insistito su questa dottrina del
«non-agire», innanzitutto perché effettivamente è uno degli aspetti più
importanti e più caratteristici del Taoismo, in secondo luogo per ragioni più
specifiche che il seguito farà comprendere meglio. Sorge però una domanda: come
si può giungere allo stato descritto come quello del saggio perfetto? Qui come
in tutte le dottrine analoghe presenti in altre civiltà, la risposta è molto
chiara: vi si giunge esclusivamente attraverso la conoscenza; ma questa
conoscenza, quella stessa che K’ong-tseu ammetteva di non avere ottenuto, è di
tutt’altro ordine rispetto alla conoscenza comune o «profana», non ha alcun
rapporto con il sapere esteriore dei «letterati» né, a maggior ragione, con la
scienza quale è intesa dai moderni Occidentali. Non si tratta di una
incompatibilità, sebbene la scienza ordinaria, per i limiti che pone e per le
abitudini mentali che fa assumere, possa essere sovente un ostacolo
all’acquisizione della vera conoscenza; ma chiunque possieda quest’ultima
inevitabilmente considererà insignificanti le speculazioni relative e
contingenti di cui si compiace la maggior parte degli uomini, le analisi e le
ricerche su dettagli in cui essi si invischiano, e le molteplici divergenze
d’opinione che ne sono l’inevitabile conseguenza. «I filosofi si perdono nelle
loro speculazioni, i sofisti nelle loro distinzioni, i ricercatori nelle loro
indagini.
Tutti questi uomini sono prigionieri nei limiti dello
spazio, accecati dagli esseri particolari».[7] Il
saggio, al contrario, ha oltrepassato tutte le distinzioni inerenti ai punti di
vista esteriori nel punto centrale in cui si trova, ogni opposizione è
scomparsa e si è risolta in un perfetto equilibrio. «Nello stato primordiale
queste opposizioni non esistevano. Sono tutte derivate dalla diversificazione
degli esseri, e dai loro contatti causati dalla girazione universale.
Cesserebbero, se cessassero la diversità e il movimento. Esse di colpo smettono
d’influenzare l’essere che ha ridotto il suo io distinto e il suo movimento
particolare a quasi nulla. Questo essere non entra più in conflitto con alcun
essere, poiché risiede nell’infinito, è scomparso nell’indefinito. Egli è
giunto e si tiene nel punto di partenza delle trasformazioni, punto neutro dove
non ci sono conflitti. Concentrando la sua natura, alimentando il suo spirito
vitale, raccogliendo insieme tutte le sue potenze, egli si è unito al principio
di tutte le genesi. La sua natura essendo integra, il suo spirito vitale
essendo intatto, nessun essere può scalfirlo».[8]
È per questa ragione, e non per una sorta d scetticismo
evidentemente escluso dal grado di conoscenza al quale è pervenuto, che il
saggio si tiene interamente fuori da tutte le discussioni che agitano la
maggior parte dell’umanità; per lui, infatti, tutte le opinioni contrarie sono
ugualmente senza valore, poiché per la loro stessa opposizione, sono tutte
ugualmente relative. «Il suo punto di osservazione è un punto dal quale questo
e quello, il sì e il no appaiono ancora non-distinti. Questo punto è il perno
della norma; è il centro immobile di una circonferenza, sul bordo della quale
scorrono tutte le contingenze, le distinzioni e le individualità, da dove non si
vede che un infinito, che non è né questo né quello, né sì né no. Vedere tutto
nell’unità primordiale non ancora differenziata, o da una distanza tale che
tutto si fonde in unità, ecco la vera intelligenza... Non dedichiamoci a
distinguere, ma osserviamo tutto nell’unità della norma. Non discutiamo per
imporci, ma con gli altri adottiamo il comportamento dell’allevatore di
scimmie. Quest’uomo disse alle scimmie che allevava: io vi darò tre arance al
mattino e quattro la sera. Tutte le scimmie furono scontente. Allora, egli
disse, vi darò quattro arance al mattino, e tre la sera. Tutte le scimmie
furono contente. Con il vantaggio di averle tutte accontentate, quest’uomo non
diede loro, in definitiva, ogni giorno, che le sette arance che aveva loro
destinato all’inizio. Così fa il saggio; egli dice sì o no, per il bene della
pace, e resta tranquillo al centro della ruota universale, indifferente al
senso nel quale essa gira».[9]
Vi è appena bisogno di dire che lo stato del saggio
perfetto, con tutto ciò che implica e su cui non possiamo soffermarci qui, non
può essere raggiunto improvvisamente, e anche gradi inferiori a quello, che
sono come altrettanti stadi preliminari, sono accessibili solo a prezzo di
sforzi di cui ben pochi uomini sono capaci. I metodi impiegati a questo fine
dal Taoismo sono del resto particolarmente difficili da seguire, e l’aiuto che
essi forniscono è molto più limitato di quello che si può trovare
nell’insegnamento tradizionale di altre civiltà, ad esempio in India; in ogni
caso, tali metodi sono quasi inaccessibili a uomini appartenenti a razze
diverse da quella per cui più specificamente sono stati pensati. Del resto,
anche in Cina il Taoismo non ha mai avuto una grande diffusione, né l’ha mai
cercata, essendosi sempre astenuto da qualsiasi forma di propaganda; questa
riservatezza gli è imposta dalla sua stessa natura: è una dottrina molto chiusa
ed essenzialmente «iniziatica» che, proprio per questo, è destinata solo a
un’élite e non potrebbe essere proposta a tutti indistintamente, poiché non
tutti sono in grado di comprenderla né soprattutto di «realizzarla». Si dice
che Lao-tseu trasmise il suo insegnamento solo a due discepoli, che a loro
volta ne istruirono altri dieci; dopo aver redatto il Tao-te-king, egli scomparve a Occidente; senza dubbio si rifugiò in
qualche eremo quasi inaccessibile del Tibet o dell’Himalaya e, dice lo storico
Sseu-ma Ts’ien, «non si sa né dove né come finì i suoi giorni».
La dottrina che tutti accomuna, quella che tutti, nella
misura in cui ne hanno i mezzi, devono studiare e mettere in pratica, è il
Confucianesimo, che, abbracciando tutto quanto concerne i rapporti sociali,
soddisfa pienamente le esigenze della vita ordinaria. Eppure, dato che il
Taoismo rappresenta la conoscenza principiale da cui deriva tutto il resto, il
Confucianesimo, in realtà, non ne è che una specie di applicazione in un ordine
contingente, gli è subordinato di diritto per la sua stessa natura; ma si
tratta di cose di cui la massa non deve preoccuparsi, e che anzi può perfino
ignorare, giacché solo l’applicazione pratica rientra nel suo orizzonte
intellettuale; e nella massa di cui parliamo va sicuramente inclusa la grande
maggioranza degli stessi «letterati» confuciani. Questa separazione di fatto
tra il Taoismo e il Confucianesimo, fra la dottrina interiore e la dottrina
esteriore, costituisce una delle differenze più notevoli tra la civiltà della
Cina e quella dell’India; in quest’ultima non vi è che un corpo dottrinario
unico, il Brâhmanesimo, che include allo stesso tempo il Principio e tutte le
sue applicazioni, e, dai gradini più bassi ai più elevati, non vi è per così
dire nessuna soluzione di continuità. Questa differenza dipende in gran parte
dalle diverse mentalità dei due popoli, tuttavia è assai probabile che la
continuità mantenutasi in India, e in India soltanto, sia anticamente esistita
anche in Cina, dall’epoca di Fou-hi fino a quella di Lao-tseu e di K’ong-tseu.
Si capisce ora perché il Taoismo sia così poco conosciuto in
Occidente: esso non si manifesta come il Confucianesimo, la cui azione appare
visibilmente in tutte le circostanze della vita sociale; è invece appannaggio
esclusivo di un’élite, forse più ristretta oggi di quanto non sia mai stata,
che non cerca assolutamente di comunicare all’esterno la dottrina di cui essa è
custode; in conclusione, il suo stesso punto di vista, il suo modo di
esprimersi e i suoi metodi di insegnamento sono quanto vi è di più alieno allo
spirito occidentale moderno. Alcuni, pur riconoscendo l’esistenza del Taoismo e
pur rendendosi conto che tale tradizione è ancora viva, immaginano però che, a
causa del suo carattere esclusivo, la sua influenza sull’insieme della civiltà
cinese sia praticamente trascurabile, se non del tutto inesistente; si tratta
di un altro grave errore, e ci resta ora da spiegare, nella misura in cui è
possibile farlo qui, come realmente stiano le cose a questo proposito.
Se si riprenderanno in esame i testi citati sopra riguardo
al «non-agire», si potrà comprendere senza troppa difficoltà, almeno nella
teoria se non nei modi di applicazione, quale debba essere il ruolo svolto dal
Taoismo: un ruolo di direzione invisibile che domina gli avvenimenti invece di
parteciparvi in maniera diretta, ancora più profondamente efficace per il fatto
di non apparire chiaramente nei movimenti esteriori. Come abbiamo detto, il
Taoismo svolge la funzione di «motore immobile»: mai cerca di mischiarsi
all’azione, anzi se ne disinteressa completamente in quanto non vede
nell’azione che una semplice modificazione momentanea e transitoria, un elemento
infimo della «corrente delle forme», un punto sulla circonferenza della «ruota
cosmica»; ma, d’altra parte, esso è come il perno attorno al quale questa ruota
gira, la norma sulla quale si regola il suo movimento, proprio perché non
partecipa a quel movimento, né occorre che vi intervenga esplicitamente. Tutto
ciò che è trascinato nelle rivoluzioni della ruota cambia e passa; perdura solo
ciò che, essendo unito al Principio, sta invariabilmente al centro, immutabile
come il Principio stesso; e il centro, che niente può influenzare nella sua
unità indifferenziata, è il punto di partenza della moltitudine indefinita
delle modificazioni che costituiscono la manifestazione universale.
Occorre subito aggiungere che quanto abbiamo detto,
riguardando essenzialmente lo stato e la funzione del saggio perfetto, poiché
solo quest’ultimo ha effettivamente raggiunto il punto centrale, non può a
rigore essere riferito che al grado supremo della gerarchia taoista; gli altri
gradi fanno per così dire da tramite fra il centro e il mondo esterno e, come i
raggi della ruota partono dal mezzo e lo collegano alla circonferenza, essi
assicurano, senza alcuna discontinuità, la trasmissione dell’influenza emanata
dal punto invariabile in cui risiede l’«attività non-agente». Qui il termine
più appropriato è «influenza», non «azione»; volendo, si potrebbe anche dire
che si tratta di un «atto di presenza»; e pure i gradi inferiori, benché molto
lontani dalla pienezza del «non-agire», ne partecipano ancora in una certa
misura. D’altronde i modi in cui tale influenza si comunica sfuggono
necessariamente a coloro che vedono soltanto l’esterno delle cose; e allo
spirito occidentale, per le stesse ragioni, essi sarebbero altrettanto poco
intelligibili quanto i metodi che permettono l’accesso ai diversi gradi della
gerarchia. Sarebbe quindi perfettamente inutile insistere su quelli che vengono
chiamati i «templi senza porte», le «scuole dove non si insegna», o su quale
possa essere la costituzione di organizzazioni che non hanno alcuna delle
caratteristiche di una «società» nel senso europeo del termine, che non hanno
una forma esteriore definita, che talvolta non hanno nemmeno un nome, e che,
ciò nonostante, stabiliscono tra i loro membri il legame più reale e
indissolubile che possa esistere; tutto ciò non può suggerire nulla
all’immaginazione occidentale, poiché l’esperienza usuale non offre qui alcun
valido termine di raffronto.
Al livello più esteriore, esistono senza dubbio
organizzazioni che, impegnate nella sfera dell’azione, sembrano più facilmente
comprensibili, sebbene siano assai più segrete di tutte le associazioni
occidentali che hanno qualche pretesa più o meno giustificata di possedere tale
carattere. Queste organizzazioni hanno in genere soltanto un’esistenza
temporanea; costituite in vista di uno speciale obiettivo, esse scompaiono
senza lasciare traccia una volta condotta a buon fine la loro missione: non
sono che semplici emanazioni di altre organizzazioni più profonde e durature,
dalle quali esse ricevono il vero orientamento, anche quando i loro capi
apparenti sono completamente estranei alla gerarchia taoista. Alcune di queste
organizzazioni, che hanno svolto un ruolo considerevole in un passato più o
meno remoto, hanno lasciato nello spirito del popolo ricordi che si esprimono
in forma di leggenda: ad esempio, abbiamo sentito raccontare che nei tempi
antichi i maestri di una certa associazione segreta prendevano una manciata di
spilli, la gettavano a terra, e da quegli spilli facevano nascere altrettanti
soldati in armi. È esattamente la storia di Cadmo che semina i denti di drago,
e queste leggende, che il volgo ha il solo torto di prendere alla lettera,
racchiudono, sotto l’apparente ingenuità, un reale valore simbolico.
D’altra parte può accadere, in molti casi, che le
associazioni in questione, o perlomeno le più esteriori, siano in opposizione e
perfino in lotta tra loro; osservatori superficiali non mancherebbero di
valersi di questo fatto per avanzare un’obiezione a ciò che abbiamo detto e
concludere che, in tali circostanze, l’unità di orientamento non può esistere.
Costoro dimenticherebbero solo un particolare: l’orientamento in questione è
«al di là» dell’opposizione che essi constatano, e non all’interno dell’ambito
in cui tale opposizione si afferma e per il quale soltanto essa ha valore. Se
dovessimo rispondere a tali contestazioni, ci limiteremmo a ricordare
l’insegnamento taoista sull’equivalenza del «sì» e del «no» nell’indistinzione
primordiale e, quanto alla messa in pratica di tale insegnamento, dovremmo
semplicemente rimandare all’apologo dell’allevatore di scimmie.
Pensiamo di aver detto abbastanza per far comprendere come la reale
influenza del Taoismo possa essere estremamente importante, pur restando sempre
invisibile e celata; cose di questo genere non esistono soltanto in Cina, ma
sembra che in quella civiltà trovino applicazione più costante che in ogni
altro luogo. Ci si renderà anche conto che chi possiede una certa conoscenza
del ruolo svolto da tale organizzazione tradizionale deve diffidare delle
apparenze e mostrarsi assai cauto nel valutare avvenimenti come quelli che si
stanno attualmente svolgendo in Estremo Oriente: troppo spesso viene usato un
metro di giudizio che li assimila a ciò che avviene nel mondo occidentale, il
che li fa apparire sotto una luce completamente falsa. La civiltà cinese ha
attraversato molte altre crisi nel suo passato e alla fine ha sempre ritrovato
il suo equilibrio; insomma, finora niente lascia pensare che l’attuale crisi
sia molto più grave delle precedenti; anche ammettendo che lo fosse, non si
vede perché essa debba necessariamente colpire ciò che vi è di più profondo ed
essenziale nella tradizione di quel popolo: a conservarlo intatto nei periodi
di turbolenza basterebbe d’altra parte un pugno di uomini, poiché le cose di
questo ordine non poggiano sulla forza bruta delle masse. Il Confucianesimo,
che rappresenta soltanto l’aspetto esteriore della tradizione, può anche
scomparire se le condizioni sociali cambiano al punto da esigere la
costituzione di una forma completamente nuova; ma il Taoismo è al di là di
queste contingenze. Non si dimentichi che il saggio, secondo gli insegnamenti
taoisti che abbiamo riportato, «resta tranquillo al centro della ruota cosmica»
in qualsiasi circostanza, e che perfino «la rovina dell’universo non
produrrebbe in lui alcuna emozione».
[1] «Le Voile d’Isis», 1932, pp. 485-508.
[2] Libro dei Riti dei Tcheou.
[3] Tchong Yong, cap. XXII.
[4] Louen Yu, cap. VII.
[5] Tchouang-tseu, cap. V.
[6] Tchouang-tseu, cap. XI.
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