Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo
Cap. IX - Creazione e manifestazione[1]
In diverse occasioni abbiamo fatto notare che l’idea di
«creazione», a volerla intendere in senso proprio e restrittivamente, senza
attribuirle un’estensione più o meno arbitraria, si incontra in realtà soltanto
in tradizioni appartenenti a un’unica linea, quella costituita dal Giudaismo,
dal Cristianesimo e dall’Islam; poiché questa è la linea delle forme
tradizionali che possono essere dette specificamente religiose, se ne deve
concludere che esiste un nesso diretto fra questa idea e il punto di vista
religioso medesimo. In ogni altro contesto, il termine «creazione», se proprio
lo si vuole usare in certi casi, non potrà che rendere in modo alquanto
inesatto un’idea diversa, per la quale sarebbe assai preferibile trovare
un’altra espressione; del resto, molto spesso quest’uso non è che il risultato
di una di quelle confusioni o false assimilazioni che nascono in gran numero in
Occidente su tutto ciò che si riferisce alle dottrine orientali.
Tuttavia, evitare questa confusione non è sufficiente, e bisogna con altrettanta cura guardarsi da un altro errore di segno opposto, che consiste nel voler vedere una contraddizione o un qualsiasi contrasto fra l’idea di creazione e l’altra idea cui abbiamo accennato sopra, per la quale il termine più adeguato a nostra disposizione è «manifestazione»; su quest’ultimo punto intendiamo ora soffermarci.
Tuttavia, evitare questa confusione non è sufficiente, e bisogna con altrettanta cura guardarsi da un altro errore di segno opposto, che consiste nel voler vedere una contraddizione o un qualsiasi contrasto fra l’idea di creazione e l’altra idea cui abbiamo accennato sopra, per la quale il termine più adeguato a nostra disposizione è «manifestazione»; su quest’ultimo punto intendiamo ora soffermarci.
Qualcuno infatti, riconoscendo che l’idea di creazione è
assente dalle dottrine orientali (con l’eccezione dell’Islam, che sotto questo
aspetto non può certo essere chiamato in causa), subito sostiene, senza neanche
cercare di andare più a fondo nelle cose, che l’assenza di questa idea è il
segno di una qualche incompletezza o imprecisione, per dedurne che le dottrine
in questione non possono essere considerate espressioni adeguate della verità.
Se le cose stanno così negli ambienti religiosi, dove troppo spesso si afferma
un deprecabile «esclusivismo», anche in ambienti antireligiosi, occorre dirlo,
non manca chi da quella medesima constatazione pretende di trarre conclusioni
affatto opposte: costoro, attaccando naturalmente l’idea di creazione come
tutte le altre idee di ordine religioso, in apparenza considerano la sua stessa
assenza come una sorta di superiorità, ma lo fanno evidentemente solo per spirito
di negazione e di opposizione, e non certo per prendere realmente le difese
delle dottrine orientali, delle quali non si curano affatto. Comunque sia, gli
elogi non valgono più dei rimproveri, né sono gli uni più accettabili degli
altri, poiché in definitiva discendono dal medesimo errore, sfruttato però con
intenzioni opposte, secondo le tendenze rispettive di coloro che lo commettono;
la verità è che sia gli uni che gli altri sono parimenti infondati, e in
entrambi i casi vi è una incomprensione pressappoco uguale.
La ragione di questo errore comune non sembra del resto
molto difficile da scoprire: coloro il cui orizzonte intellettuale non va al di
là delle concezioni filosofiche occidentali immaginano solitamente che dove non
si parla di creazione, e dove è però evidente che non si ha a che fare con
teorie materialistiche, può esistere solo il «panteismo». Ora, è noto come
questo termine nella nostra epoca sia spesso usato a sproposito: gli uni lo
vedono come un vero spauracchio, al punto da ritenersi dispensati
dall’esaminare seriamente ciò che si fossero affrettati a etichettare in questo
modo (è molto rivelatore in proposito l’uso tanto frequente dell’espressione
«cadere nel panteismo»), mentre gli altri, probabilmente proprio per questo più
che per qualsiasi altro motivo, volentieri lo rivendicano e sono propensi a
servirsene come di una sorta di vessillo. È dunque abbastanza chiaro che quanto
abbiamo detto è strettamente collegato, nel pensiero degli uni e degli altri,
all’imputazione di «panteismo» rivolta comunemente alle dottrine orientali, e
di cui noi abbiamo spesso mostrato la totale falsità, per non dire l’assurdità
(visto che il panteismo è in realtà una teoria essenzialmente antimetafisica),
al punto da rendere inutile tornarvi ancora sopra.
Dal momento che abbiamo parlato del panteismo, ne
approfitteremo per fare subito un’osservazione di una certa importanza, a
proposito di un termine che si è soliti associare proprio alle concezioni
panteistiche: si tratta del termine «emanazione», che alcuni, sempre per le
stesse ragioni e in seguito agli stessi fraintendimenti, vogliono usare per
designare la manifestazione quando non sia presentata sotto la forma di
creazione. Ora, almeno per quanto riguarda le dottrine tradizionali e
ortodosse, tale termine deve essere assolutamente evitato, non solo a causa di
questa fastidiosa associazione (se poi essa sia in fondo più o meno
giustificata, qui non ci interessa), ma soprattutto perché, in se stesso e per
il suo significato etimologico, in realtà non esprime altro che
un’impossibilità pura e semplice. Infatti l’idea di «emanazione» è propriamente
quella di una «uscita», ma la manifestazione non deve mai essere considerata in
questo modo, poiché nulla può realmente uscire dal Principio; se qualcosa ne
uscisse, il Principio non potrebbe più dirsi infinito, e si troverebbe limitato
proprio a causa della manifestazione; la verità è che fuori dal Principio non
vi è e non vi può essere che il nulla. Se pur si volesse considerare
l’«emanazione», non rispetto al Principio supremo e infinito, ma solo rispetto
all’Essere, principio immediato della manifestazione, questo termine darebbe
luogo a un’altra obiezione che, pur diversa dalla precedente, non è meno
decisiva: se gli esseri uscissero dall’Essere per manifestarsi, non si potrebbe
dire che sono realmente degli esseri, e sarebbero propriamente sprovvisti di
ogni esistenza, poiché l’esistenza, in tutte le sue modalità, altro non è che
partecipazione dell’Essere; questa deduzione, oltre che patentemente assurda in
se stessa come nel caso precedente, contraddice l’idea stessa di
manifestazione.
Fatte queste considerazioni, diremo senza mezzi termini che
l’idea di manifestazione, formulata in modo puramente metafisico dalle dottrine
orientali, non si oppone minimamente all’idea di creazione; tali idee si
riferiscono semplicemente a livelli e a punti di vista diversi, sicché basta
saper collocare ciascuna di esse al suo vero posto per rendersi conto che non
vi è alcuna incompatibilità tra loro. La differenza, su questo come su molti
altri punti, coincide in definitiva con la differenza fra il punto di vista
metafisico e quello religioso; ora, se è vero che il primo è di ordine più
elevato e più profondo del secondo, è pur vero che esso non può in alcun modo
annullare o contraddire quest’ultimo, e ciò del resto è sufficientemente
provato dal fatto che l’uno e l’altro possono benissimo coesistere all’interno
di una stessa forma tradizionale; ma su questo punto dovremo tornare in
seguito. In fondo, si tratta dunque soltanto di una differenza che, sebbene più
marcata a causa della distinzione assai netta fra i due ambiti corrispondenti,
non è più straordinaria né più imbarazzante della differenza fra i diversi
punti di vista che legittimamente possono essere adottati all’interno di uno
stesso ambito, a seconda della profondità della comprensione. Pensiamo qui a
punti di vista come, ad esempio, quelli di Shankarâchârya e di Râmânuja
riguardo al Vêdânta; è vero che,
anche in questo caso, l’incomprensione ha voluto trovare contraddizioni che in
realtà sono inesistenti; ma ciò non fa che rendere l’analogia più calzante e
più completa.
Va peraltro precisato il significato stesso dell’idea di
creazione, poiché anch’esso sembra a volte dar luogo a malintesi: se «creare» è
sinonimo di «fare dal nulla», secondo la definizione unanimemente accolta ma
forse non abbastanza esplicita, occorre senza dubbio intendere con ciò, prima
di tutto, da nulla che sia esterno al Principio; in altre parole, per essere
«creatore» il Principio è sufficiente a se stesso e non deve ricorrere a una
specie di «sostanza» posta al di fuori di sé e dotata di un’esistenza più o
meno indipendente, ciò che del resto, a dire il vero, è inconcepibile. Si vede
immediatamente che la prima ragion d’essere di una tale formulazione è di
affermare espressamente che il Principio non è un semplice «Demiurgo» (e qui
non è il caso di introdurre distinzioni a seconda che si tratti del Principio
supremo o dell’Essere, dato che ciò resta vero in entrambi i casi); questo non
significa però necessariamente che qualsiasi concezione «demiurgica» sia
radicalmente falsa, ma in ogni caso essa non può trovare posto che a un livello
assai inferiore, corrispondente a un punto di vista molto più ristretto, il
quale, applicandosi a una qualche fase secondaria del processo cosmogonico, non
concerne più il Principio in alcun modo. Dunque, se ci si limita a parlare di
«fare dal nulla» senza precisare oltre, come si fa di solito, occorre evitare
un altro pericolo: quello di considerare questo «nulla» come una sorta di
principio, negativo senza dubbio, ma dal quale effettivamente discenderebbe
l’esistenza manifestata; ciò equivarrebbe a ricadere in un errore simile a
quello contro cui ci si voleva giustamente premunire attribuendo al «nulla» una
qualche «sostanzialità»; e, in un certo senso, questo errore sarebbe ancor più
grave dell’altro, per l’aggiungersi di una contraddizione formale che consiste
nell’attribuire una realtà al «nulla», ossia in conclusione al niente. Se si
sostenesse, per sfuggire a questa contraddizione, che il «nulla» di cui si
tratta non è il nulla puro e semplice, ma è tale solo in relazione al
Principio, di nuovo si commetterebbe un duplice errore: da un lato si
presupporrebbe questa volta qualcosa di ben reale al di fuori del Principio, e
allora non vi sarebbe più alcuna vera differenza rispetto alla concezione
«demiurgica» stessa; dall’altro si disconoscerebbe che gli esseri non sfuggono
affatto da quel «nulla» relativo con il loro manifestarsi, il finito non
cessando mai di essere rigorosamente nullo nei confronti dell’Infinito.
In ciò che si è detto, e anche in tutto quel che ancora
potrebbe essere detto in merito all’idea di creazione, fa difetto, quanto al
modo in cui viene considerata la manifestazione, qualcosa che è invece assolutamente
essenziale: non vi compare la nozione di possibilità; ma, si noti bene, il
fatto di constatarlo non significa lamentarsene, e una prospettiva del genere,
pur nella sua incompletezza, resta legittima, poiché la verità è che la nozione
di possibilità non deve intervenire se non quando ci si pone dal punto di vista
metafisico, e, l’abbiamo già detto, non è da quel punto di vista che la
manifestazione è considerata come creazione. In termini metafisici, la
manifestazione presuppone necessariamente certe possibilità capaci di
manifestarsi; ma, se essa così procede dalla possibilità, non si può affermare
che venga dal «nulla», poiché è evidente che la possibilità non è «nulla»; e,
si obietterà forse, questo non è appunto contrario all’idea di creazione? La
risposta è facile: tutte le possibilità sono contenute nella Possibilità
totale, che è tutt’uno con il Principio stesso, nel quale dunque esse sono, in
definitiva, realmente contenute in stato permanente da tutta l’eternità; e
d’altra parte, se così non fosse, allora davvero esse non sarebbero «nulla», e
non si potrebbe nemmeno più parlare di possibilità. Quindi, se la
manifestazione procede da queste possibilità o da alcune di loro (ricorderemo
qui che, oltre alle possibilità di manifestazione, vi sono anche da considerare
le possibilità di non-manifestazione, perlomeno nel Principio supremo, ma già
non più quando ci si limita all’Essere), essa non proviene da nulla di esterno
al Principio; ed è appunto questo il senso che abbiamo riconosciuto all’idea di
creazione correttamente intesa, cosicché, in fondo, i due punti di vista sono
non solo conciliabili, ma anzi perfettamente in accordo tra loro. Se vi è
differenza, essa sta nel fatto che il punto di vista cui si rifà l’idea di
creazione non contempla alcunché al di là dello stato della manifestazione, o
perlomeno considera soltanto il Principio senza approfondire ulteriormente,
poiché si tratta di un punto di vista ancora relativo, mentre, dal punto di
vista metafisico, ciò che si trova nel Principio, vale a dire la possibilità, è
in realtà l’essenziale ed è assai più importante della manifestazione in sé.
Si potrebbe dire, tutto sommato, che si tratta di due
diverse espressioni di una medesima verità, a condizione di aggiungere,
beninteso, che codeste espressioni corrispondono a due aspetti o punti di vista
realmente differenti fra loro; ma allora ci si può chiedere se la più completa
e profonda delle due espressioni non sarebbe del tutto sufficiente, e quale sia
la ragion d’essere dell’altra. Si tratta, prima di tutto e in via generale,
della ragion d’essere stessa di ogni punto di vista essoterico, in quanto
formulazione delle verità tradizionali limitata a ciò che è al tempo stesso
indispensabile e accessibile a tutti gli uomini senza distinzione. D’altra
parte, per quanto riguarda il caso specifico, vi possono essere ragioni per
così dire di «opportunità», tipiche di certe forme tradizionali, dovute dunque
alle circostanze contingenti cui devono essere adattate: tali circostanze
impongono che si guardi con sospetto a una concezione di tipo «demiurgico»
dell’origine della manifestazione, mentre una simile precauzione può essere del
tutto inutile in altri casi. Tuttavia, constatando che l’idea di creazione è
strettamente solidale con il punto di vista propriamente religioso, si può
essere spinti a pensare che ciò racchiuda anche qualcos’altro; è quel che ci
resta da esaminare ora, benché non ci sia possibile addentrarci in tutti gli
sviluppi cui questo aspetto della questione potrebbe dar luogo.
Che si tratti della manifestazione considerata in chiave
metafisica o della creazione, in entrambi i casi la completa dipendenza degli
esseri manifestati rispetto al Principio, in tutto ciò che essi sono realmente,
viene affermata in modo altrettanto chiaro ed esplicito; è solo nel modo più o
meno accurato di considerare tale dipendenza da una parte e dall’altra che
appare una differenza caratteristica, perfettamente corrispondente alla
differenza che intercorre fra i due punti di vista. Dal punto di vista
metafisico, la dipendenza è allo stesso tempo una «partecipazione»: gli esseri
partecipano del Principio in proporzione alla realtà che posseggono in se
stessi, dato che ogni realtà è nel Principio; d’altra parte non è meno vero che
questi esseri, in quanto contingenti e limitati, come pure l’intera
manifestazione di cui fanno parte, sono nulla rispetto al Principio, come
dicevamo; ma in tale partecipazione vi è come un legame con quest’ultimo,
dunque un legame tra il manifestato e il non-manifestato, che consente agli
esseri di oltrepassare la condizione relativa inerente alla manifestazione. Il
punto di vista religioso, invece, insiste piuttosto sulla nullità propria degli
esseri manifestati, dato che, per la sua stessa natura, non deve condurli al di
là di questa condizione; esso inoltre comporta la considerazione della
dipendenza sotto un aspetto al quale nella pratica corrisponde l’atteggiamento
di el-ubûdiyyah, per usare il termine
arabo il cui senso consueto di «servitù» senza dubbio rende solo in modo
alquanto imperfetto l’accezione specificamente religiosa, abbastanza però da
consentirne una comprensione migliore di quanto farebbe la parola «adorazione»
(la quale poi corrisponde piuttosto a un altro termine derivato dalla medesima
radice, el-ibâdah); ora, la condizione
di abd, in questa prospettiva, è
propriamente la condizione della «creatura» di fronte al suo «Creatore».
Poiché abbiamo preso a prestito un termine dal linguaggio
della tradizione islamica, aggiungeremo questo: nessuno oserebbe certo
contestare il fatto che l’Islam, nel suo aspetto religioso o essoterico, sia
perlomeno tanto «creazionista» quanto può esserlo il Cristianesimo stesso; e
tuttavia ciò non impedisce affatto che, nel suo aspetto esoterico, vi sia un
certo livello a partire dal quale l’idea di creazione scompare. Così, vi è un
aforisma secondo cui «il Sûfî [si
badi bene che non si tratta qui del mero mutasawwif
non è creato» (es-Sûfî lam yukhlaq);
ciò equivale a dire che il suo stato è al di là della condizione di «creatura»,
e in effetti, in quanto egli ha realizzato l’«Identità suprema», e dunque è
attualmente identificato al Principio o all’Increato, necessariamente non può
che essere lui stesso increato. In questo caso, il punto di vista religioso è
non meno necessariamente trasceso per far posto al punto di vista della
metafisica pura; ma, se l’uno e l’altro possono così coesistere in seno alla
medesima tradizione, ciascuno al rango che gli spetta e nell’ambito che
propriamente gli appartiene, ciò dimostra con tutta evidenza che essi non sono
opposti né si contraddicono in alcun modo.
Noi sappiamo che non vi può essere una reale contraddizione né
all’interno di ciascuna tradizione né fra questa e le altre, poiché in tutto
ciò non si manifestano che espressioni diverse della Verità una. Se qualcuno
crede di scorgervi un’apparente contraddizione, non dovrebbe dunque concludere
semplicemente che si tratta di cose che egli comprende male o non
completamente, invece di pretendere di imputare alle stesse dottrine
tradizionali difetti che, in realtà, esistono soltanto a causa della sua
insufficienza intellettuale?
[1] «Études Traditionnelles», X, 1937, pp.
325-33.
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