"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 2 aprile 2014

René Guénon, Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo - Cap. IX - Creazione e manifestazione


René Guénon
Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo

Cap. IX - Creazione e manifestazione[1]

In diverse occasioni abbiamo fatto notare che l’idea di «creazione», a volerla intendere in senso proprio e restrittivamente, senza attribuirle un’estensione più o meno arbitraria, si incontra in realtà soltanto in tradizioni appartenenti a un’unica linea, quella costituita dal Giudaismo, dal Cristianesimo e dall’Islam; poiché questa è la linea delle forme tradizionali che possono essere dette specificamente religiose, se ne deve concludere che esiste un nesso diretto fra questa idea e il punto di vista religioso medesimo. In ogni altro contesto, il termine «creazione», se proprio lo si vuole usare in certi casi, non potrà che rendere in modo alquanto inesatto un’idea diversa, per la quale sarebbe assai preferibile trovare un’altra espressione; del resto, molto spesso quest’uso non è che il risultato di una di quelle confusioni o false assimilazioni che nascono in gran numero in Occidente su tutto ciò che si riferisce alle dottrine orientali.
Tuttavia, evitare questa confusione non è sufficiente, e bisogna con altrettanta cura guardarsi da un altro errore di segno opposto, che consiste nel voler vedere una contraddizione o un qualsiasi contrasto fra l’idea di creazione e l’altra idea cui abbiamo accennato sopra, per la quale il termine più adeguato a nostra disposizione è «manifestazione»; su quest’ultimo punto intendiamo ora soffermarci.
Qualcuno infatti, riconoscendo che l’idea di creazione è assente dalle dottrine orientali (con l’eccezione dell’Islam, che sotto questo aspetto non può certo essere chiamato in causa), subito sostiene, senza neanche cercare di andare più a fondo nelle cose, che l’assenza di questa idea è il segno di una qualche incompletezza o imprecisione, per dedurne che le dottrine in questione non possono essere considerate espressioni adeguate della verità. Se le cose stanno così negli ambienti religiosi, dove troppo spesso si afferma un deprecabile «esclusivismo», anche in ambienti antireligiosi, occorre dirlo, non manca chi da quella medesima constatazione pretende di trarre conclusioni affatto opposte: costoro, attaccando naturalmente l’idea di creazione come tutte le altre idee di ordine religioso, in apparenza considerano la sua stessa assenza come una sorta di superiorità, ma lo fanno evidentemente solo per spirito di negazione e di opposizione, e non certo per prendere realmente le difese delle dottrine orientali, delle quali non si curano affatto. Comunque sia, gli elogi non valgono più dei rimproveri, né sono gli uni più accettabili degli altri, poiché in definitiva discendono dal medesimo errore, sfruttato però con intenzioni opposte, secondo le tendenze rispettive di coloro che lo commettono; la verità è che sia gli uni che gli altri sono parimenti infondati, e in entrambi i casi vi è una incomprensione pressappoco uguale.
La ragione di questo errore comune non sembra del resto molto difficile da scoprire: coloro il cui orizzonte intellettuale non va al di là delle concezioni filosofiche occidentali immaginano solitamente che dove non si parla di creazione, e dove è però evidente che non si ha a che fare con teorie materialistiche, può esistere solo il «panteismo». Ora, è noto come questo termine nella nostra epoca sia spesso usato a sproposito: gli uni lo vedono come un vero spauracchio, al punto da ritenersi dispensati dall’esaminare seriamente ciò che si fossero affrettati a etichettare in questo modo (è molto rivelatore in proposito l’uso tanto frequente dell’espressione «cadere nel panteismo»), mentre gli altri, probabilmente proprio per questo più che per qualsiasi altro motivo, volentieri lo rivendicano e sono propensi a servirsene come di una sorta di vessillo. È dunque abbastanza chiaro che quanto abbiamo detto è strettamente collegato, nel pensiero degli uni e degli altri, all’imputazione di «panteismo» rivolta comunemente alle dottrine orientali, e di cui noi abbiamo spesso mostrato la totale falsità, per non dire l’assurdità (visto che il panteismo è in realtà una teoria essenzialmente antimetafisica), al punto da rendere inutile tornarvi ancora sopra.
Dal momento che abbiamo parlato del panteismo, ne approfitteremo per fare subito un’osservazione di una certa importanza, a proposito di un termine che si è soliti associare proprio alle concezioni panteistiche: si tratta del termine «emanazione», che alcuni, sempre per le stesse ragioni e in seguito agli stessi fraintendimenti, vogliono usare per designare la manifestazione quando non sia presentata sotto la forma di creazione. Ora, almeno per quanto riguarda le dottrine tradizionali e ortodosse, tale termine deve essere assolutamente evitato, non solo a causa di questa fastidiosa associazione (se poi essa sia in fondo più o meno giustificata, qui non ci interessa), ma soprattutto perché, in se stesso e per il suo significato etimologico, in realtà non esprime altro che un’impossibilità pura e semplice. Infatti l’idea di «emanazione» è propriamente quella di una «uscita», ma la manifestazione non deve mai essere considerata in questo modo, poiché nulla può realmente uscire dal Principio; se qualcosa ne uscisse, il Principio non potrebbe più dirsi infinito, e si troverebbe limitato proprio a causa della manifestazione; la verità è che fuori dal Principio non vi è e non vi può essere che il nulla. Se pur si volesse considerare l’«emanazione», non rispetto al Principio supremo e infinito, ma solo rispetto all’Essere, principio immediato della manifestazione, questo termine darebbe luogo a un’altra obiezione che, pur diversa dalla precedente, non è meno decisiva: se gli esseri uscissero dall’Essere per manifestarsi, non si potrebbe dire che sono realmente degli esseri, e sarebbero propriamente sprovvisti di ogni esistenza, poiché l’esistenza, in tutte le sue modalità, altro non è che partecipazione dell’Essere; questa deduzione, oltre che patentemente assurda in se stessa come nel caso precedente, contraddice l’idea stessa di manifestazione.
Fatte queste considerazioni, diremo senza mezzi termini che l’idea di manifestazione, formulata in modo puramente metafisico dalle dottrine orientali, non si oppone minimamente all’idea di creazione; tali idee si riferiscono semplicemente a livelli e a punti di vista diversi, sicché basta saper collocare ciascuna di esse al suo vero posto per rendersi conto che non vi è alcuna incompatibilità tra loro. La differenza, su questo come su molti altri punti, coincide in definitiva con la differenza fra il punto di vista metafisico e quello religioso; ora, se è vero che il primo è di ordine più elevato e più profondo del secondo, è pur vero che esso non può in alcun modo annullare o contraddire quest’ultimo, e ciò del resto è sufficientemente provato dal fatto che l’uno e l’altro possono benissimo coesistere all’interno di una stessa forma tradizionale; ma su questo punto dovremo tornare in seguito. In fondo, si tratta dunque soltanto di una differenza che, sebbene più marcata a causa della distinzione assai netta fra i due ambiti corrispondenti, non è più straordinaria né più imbarazzante della differenza fra i diversi punti di vista che legittimamente possono essere adottati all’interno di uno stesso ambito, a seconda della profondità della comprensione. Pensiamo qui a punti di vista come, ad esempio, quelli di Shankarâchârya e di Râmânuja riguardo al Vêdânta; è vero che, anche in questo caso, l’incomprensione ha voluto trovare contraddizioni che in realtà sono inesistenti; ma ciò non fa che rendere l’analogia più calzante e più completa.
Va peraltro precisato il significato stesso dell’idea di creazione, poiché anch’esso sembra a volte dar luogo a malintesi: se «creare» è sinonimo di «fare dal nulla», secondo la definizione unanimemente accolta ma forse non abbastanza esplicita, occorre senza dubbio intendere con ciò, prima di tutto, da nulla che sia esterno al Principio; in altre parole, per essere «creatore» il Principio è sufficiente a se stesso e non deve ricorrere a una specie di «sostanza» posta al di fuori di sé e dotata di un’esistenza più o meno indipendente, ciò che del resto, a dire il vero, è inconcepibile. Si vede immediatamente che la prima ragion d’essere di una tale formulazione è di affermare espressamente che il Principio non è un semplice «Demiurgo» (e qui non è il caso di introdurre distinzioni a seconda che si tratti del Principio supremo o dell’Essere, dato che ciò resta vero in entrambi i casi); questo non significa però necessariamente che qualsiasi concezione «demiurgica» sia radicalmente falsa, ma in ogni caso essa non può trovare posto che a un livello assai inferiore, corrispondente a un punto di vista molto più ristretto, il quale, applicandosi a una qualche fase secondaria del processo cosmogonico, non concerne più il Principio in alcun modo. Dunque, se ci si limita a parlare di «fare dal nulla» senza precisare oltre, come si fa di solito, occorre evitare un altro pericolo: quello di considerare questo «nulla» come una sorta di principio, negativo senza dubbio, ma dal quale effettivamente discenderebbe l’esistenza manifestata; ciò equivarrebbe a ricadere in un errore simile a quello contro cui ci si voleva giustamente premunire attribuendo al «nulla» una qualche «sostanzialità»; e, in un certo senso, questo errore sarebbe ancor più grave dell’altro, per l’aggiungersi di una contraddizione formale che consiste nell’attribuire una realtà al «nulla», ossia in conclusione al niente. Se si sostenesse, per sfuggire a questa contraddizione, che il «nulla» di cui si tratta non è il nulla puro e semplice, ma è tale solo in relazione al Principio, di nuovo si commetterebbe un duplice errore: da un lato si presupporrebbe questa volta qualcosa di ben reale al di fuori del Principio, e allora non vi sarebbe più alcuna vera differenza rispetto alla concezione «demiurgica» stessa; dall’altro si disconoscerebbe che gli esseri non sfuggono affatto da quel «nulla» relativo con il loro manifestarsi, il finito non cessando mai di essere rigorosamente nullo nei confronti dell’Infinito.
In ciò che si è detto, e anche in tutto quel che ancora potrebbe essere detto in merito all’idea di creazione, fa difetto, quanto al modo in cui viene considerata la manifestazione, qualcosa che è invece assolutamente essenziale: non vi compare la nozione di possibilità; ma, si noti bene, il fatto di constatarlo non significa lamentarsene, e una prospettiva del genere, pur nella sua incompletezza, resta legittima, poiché la verità è che la nozione di possibilità non deve intervenire se non quando ci si pone dal punto di vista metafisico, e, l’abbiamo già detto, non è da quel punto di vista che la manifestazione è considerata come creazione. In termini metafisici, la manifestazione presuppone necessariamente certe possibilità capaci di manifestarsi; ma, se essa così procede dalla possibilità, non si può affermare che venga dal «nulla», poiché è evidente che la possibilità non è «nulla»; e, si obietterà forse, questo non è appunto contrario all’idea di creazione? La risposta è facile: tutte le possibilità sono contenute nella Possibilità totale, che è tutt’uno con il Principio stesso, nel quale dunque esse sono, in definitiva, realmente contenute in stato permanente da tutta l’eternità; e d’altra parte, se così non fosse, allora davvero esse non sarebbero «nulla», e non si potrebbe nemmeno più parlare di possibilità. Quindi, se la manifestazione procede da queste possibilità o da alcune di loro (ricorderemo qui che, oltre alle possibilità di manifestazione, vi sono anche da considerare le possibilità di non-manifestazione, perlomeno nel Principio supremo, ma già non più quando ci si limita all’Essere), essa non proviene da nulla di esterno al Principio; ed è appunto questo il senso che abbiamo riconosciuto all’idea di creazione correttamente intesa, cosicché, in fondo, i due punti di vista sono non solo conciliabili, ma anzi perfettamente in accordo tra loro. Se vi è differenza, essa sta nel fatto che il punto di vista cui si rifà l’idea di creazione non contempla alcunché al di là dello stato della manifestazione, o perlomeno considera soltanto il Principio senza approfondire ulteriormente, poiché si tratta di un punto di vista ancora relativo, mentre, dal punto di vista metafisico, ciò che si trova nel Principio, vale a dire la possibilità, è in realtà l’essenziale ed è assai più importante della manifestazione in sé.
Si potrebbe dire, tutto sommato, che si tratta di due diverse espressioni di una medesima verità, a condizione di aggiungere, beninteso, che codeste espressioni corrispondono a due aspetti o punti di vista realmente differenti fra loro; ma allora ci si può chiedere se la più completa e profonda delle due espressioni non sarebbe del tutto sufficiente, e quale sia la ragion d’essere dell’altra. Si tratta, prima di tutto e in via generale, della ragion d’essere stessa di ogni punto di vista essoterico, in quanto formulazione delle verità tradizionali limitata a ciò che è al tempo stesso indispensabile e accessibile a tutti gli uomini senza distinzione. D’altra parte, per quanto riguarda il caso specifico, vi possono essere ragioni per così dire di «opportunità», tipiche di certe forme tradizionali, dovute dunque alle circostanze contingenti cui devono essere adattate: tali circostanze impongono che si guardi con sospetto a una concezione di tipo «demiurgico» dell’origine della manifestazione, mentre una simile precauzione può essere del tutto inutile in altri casi. Tuttavia, constatando che l’idea di creazione è strettamente solidale con il punto di vista propriamente religioso, si può essere spinti a pensare che ciò racchiuda anche qualcos’altro; è quel che ci resta da esaminare ora, benché non ci sia possibile addentrarci in tutti gli sviluppi cui questo aspetto della questione potrebbe dar luogo.
Che si tratti della manifestazione considerata in chiave metafisica o della creazione, in entrambi i casi la completa dipendenza degli esseri manifestati rispetto al Principio, in tutto ciò che essi sono realmente, viene affermata in modo altrettanto chiaro ed esplicito; è solo nel modo più o meno accurato di considerare tale dipendenza da una parte e dall’altra che appare una differenza caratteristica, perfettamente corrispondente alla differenza che intercorre fra i due punti di vista. Dal punto di vista metafisico, la dipendenza è allo stesso tempo una «partecipazione»: gli esseri partecipano del Principio in proporzione alla realtà che posseggono in se stessi, dato che ogni realtà è nel Principio; d’altra parte non è meno vero che questi esseri, in quanto contingenti e limitati, come pure l’intera manifestazione di cui fanno parte, sono nulla rispetto al Principio, come dicevamo; ma in tale partecipazione vi è come un legame con quest’ultimo, dunque un legame tra il manifestato e il non-manifestato, che consente agli esseri di oltrepassare la condizione relativa inerente alla manifestazione. Il punto di vista religioso, invece, insiste piuttosto sulla nullità propria degli esseri manifestati, dato che, per la sua stessa natura, non deve condurli al di là di questa condizione; esso inoltre comporta la considerazione della dipendenza sotto un aspetto al quale nella pratica corrisponde l’atteggiamento di el-ubûdiyyah, per usare il termine arabo il cui senso consueto di «servitù» senza dubbio rende solo in modo alquanto imperfetto l’accezione specificamente religiosa, abbastanza però da consentirne una comprensione migliore di quanto farebbe la parola «adorazione» (la quale poi corrisponde piuttosto a un altro termine derivato dalla medesima radice, el-ibâdah); ora, la condizione di abd, in questa prospettiva, è propriamente la condizione della «creatura» di fronte al suo «Creatore».
Poiché abbiamo preso a prestito un termine dal linguaggio della tradizione islamica, aggiungeremo questo: nessuno oserebbe certo contestare il fatto che l’Islam, nel suo aspetto religioso o essoterico, sia perlomeno tanto «creazionista» quanto può esserlo il Cristianesimo stesso; e tuttavia ciò non impedisce affatto che, nel suo aspetto esoterico, vi sia un certo livello a partire dal quale l’idea di creazione scompare. Così, vi è un aforisma secondo cui «il Sûfî [si badi bene che non si tratta qui del mero mutasawwif non è creato» (es-Sûfî lam yukhlaq); ciò equivale a dire che il suo stato è al di là della condizione di «creatura», e in effetti, in quanto egli ha realizzato l’«Identità suprema», e dunque è attualmente identificato al Principio o all’Increato, necessariamente non può che essere lui stesso increato. In questo caso, il punto di vista religioso è non meno necessariamente trasceso per far posto al punto di vista della metafisica pura; ma, se l’uno e l’altro possono così coesistere in seno alla medesima tradizione, ciascuno al rango che gli spetta e nell’ambito che propriamente gli appartiene, ciò dimostra con tutta evidenza che essi non sono opposti né si contraddicono in alcun modo.
Noi sappiamo che non vi può essere una reale contraddizione né all’interno di ciascuna tradizione né fra questa e le altre, poiché in tutto ciò non si manifestano che espressioni diverse della Verità una. Se qualcuno crede di scorgervi un’apparente contraddizione, non dovrebbe dunque concludere semplicemente che si tratta di cose che egli comprende male o non completamente, invece di pretendere di imputare alle stesse dottrine tradizionali difetti che, in realtà, esistono soltanto a causa della sua insufficienza intellettuale?

[1] «Études Traditionnelles», X, 1937, pp. 325-33.

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