"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 21 aprile 2014

René Guénon, Il Re del Mondo. VI - «Melki-Tsedeq»

René Guénon
Il Re del Mondo

VI - «Melki-Tsedeq» 

Nelle tradizioni orientali si dice che, in una certa epoca, il Soma divenne sconosciuto sicché, nei riti sacrificali, si dovette sostituirlo con un’altra bevanda che di quel Soma primitivo era soltanto una figura[1]; tale ruolo fu svolto principalmente dal vino, e a ciò si riferisce, presso i Greci, una gran parte della leggenda di Dioniso[2].
Il vino, del resto, è spesso usato per rappresentare la vera tradizione iniziatica: in ebraico le parole iain, «vino», e sod, «mistero», possono essere sostituite l’una all’altra in quanto hanno lo stesso valore numerico[3]; presso i Sufi, il vino simboleggia la conoscenza esoterica, la dottrina riservata ai pochi e che non è adatta a tutti gli uomini, così come non tutti possono bere impunemente il vino. Risulta da ciò che l’impiego del vino in un rito gli conferisce un carattere chiaramente iniziatico; tale è segnatamente il caso del sacrificio «eucaristico» di Melchisedec[4]. Ed è questo il punto essenziale su cui dobbiamo ora soffermarci.
Il nome Melchisedec, o più esattamente Melki-Tsedeq, di fatto non è che il nome con cui la funzione stessa del «Re del Mondo» si trova espressamente designata nella tradizione giudeo-cristiana. Abbiamo un po’ esitato a enunciare questo fatto, che comporta la spiegazione di uno dei passi più enigmatici della Bibbia ebraica, ma, poiché avevamo deciso di trattare appunto la questione del «Re del Mondo», non era davvero possibile passarlo sotto silenzio. Potremmo riportare qui le parole di san Paolo: «Abbiamo molte cose da dire, a questo proposito, e cose difficili da spiegare, poiché siete divenuti lenti a capire»[5].
Ecco innanzitutto il testo del passo biblico: «E Melki-Tsedeq, re di Salem, fece portare del pane e del vino; egli era sacerdote dell’Altissimo (El Elion): E benedisse Abramo[6], dicendo: Benedetto sia Abramo dall’Altissimo, signore dei Cieli e della Terra; e benedetto sia l’Altissimo, che ha messo i tuoi nemici nelle tue mani. E Abramo gli diede le decime di tutto ciò che aveva preso»[7].
Melki-Tsedeq è dunque re e sacerdote insieme; il suo nome significa «re di Giustizia», e nello stesso tempo è re di Salem, cioè della «Pace»; ritroviamo dunque qui, innanzitutto, la «Giustizia» e la «Pace», cioè proprio i due attributi fondamentali del «Re del Mondo». Bisogna notare che la parola Salem, contrariamente all’opinione comune, in realtà non ha mai designato una città, ma che, se la si prende quale nome simbolico della residenza di Melki-Tsedeq, può essere considerata come un equivalente del termine Agarttha. In ogni caso è un errore vedere in essa il nome primitivo di Gerusalemme, perché quel nome era Jebus; al contrario, se il nome di Gerusalemme fu dato a quella città allorché gli Ebrei vi fondarono un centro spirituale, fu per indicare che da quel momento essa era come un’immagine visibile della vera Salem; bisogna notare che il Tempio fu edificato da Salomone il cui nome (Shlomoh), derivato anch’esso da Salem, significa il «Pacifico»[8].
Ed ecco ora in quali termini san Paolo commenta ciò che è detto di Melki-Tsedeq: «Questo Melchisedec, re di Salem, sacerdote dell’Altissimo, che andò incontro a Abramo quando tornava dall’aver sconfitto i re, che lo benedisse e al quale Abramo donò la decima di tutto il bottino; che è innanzitutto, secondo il significato del suo nome, re di Giustizia, poi re di Salem, cioè re di Pace; che è senza padre, senza madre, senza genealogia, la cui vita non ha né principio né fine, ma che in tal modo è reso simile al Figlio di Dio; questo Melchisedec rimane sacerdote in perpetuo»[9].
Ora, Melki-Tsedeq è rappresentato come superiore ad Abramo, poiché lo benedice, e «senza possibilità di contraddizione, è l’inferiore che è benedetto dal superiore»[10];  e, da parte sua, Abramo riconosce tale superiorità poiché gli fa dono delle decime, in segno di dipendenza. Si tratta dunque di una vera «investitura», quasi nel senso feudale della parola, con la differenza però che questa è un’investitura spirituale; e possiamo aggiungere che ci troviamo qui al punto di congiunzione fra la tradizione ebraica e la grande tradizione primordiale. La «benedizione» di cui si parla è propriamente la comunicazione di un «influsso spirituale» al quale Abramo d’ora in poi parteciperà; e si può osservare che la formula usata mette Abramo in relazione diretta con l’«Altissimo», che Abramo stesso invoca in seguito, identificandolo con Jehovah[11]. Se Melki-Tsedeq è dunque superiore ad Abramo, così è perché l’«Altissimo» (Elion), che è il Dio di Melki-Tsedeq, è a sua volta superiore all’«Onnipotente» (Shaddai), che è il Dio di Abramo, ovvero, in altri termini, perché il primo di questi due nomi rappresenta un aspetto divino più elevato del secondo. D’altra parte, cosa estremamente importante, e forse mai segnalata finora, El Elion è l’equivalente di Emmanuel, avendo questi due nomi esattamente lo stesso valore numerico[12]; ciò ricollega direttamente la storia di Melki-Tsedeq a quella dei «Re Magi», di cui abbiamo già spiegato il significato. Inoltre, vi si può vedere anche quanto segue: il sacerdozio di Melki-Tsedeq è il sacerdozio di El Elion: dunque, se El Elion è Emmanuel, questi due sacerdozi sono uno solo, e il sacerdozio cristiano, che per altro comporta essenzialmente l’offerta eucaristica del pane e del vino, è veramente «secondo l’ordine di Melchisedec»[13].
La tradizione giudeo-cristiana distingue due sacerdozi, uno «secondo l’ordine di Aronne», l’altro «secondo l’ordine di Melchisedec»; e questo è superiore a quello come Melchisedec è superiore ad Abramo, dal quale è uscita la tribù di Levi e, di conseguenza, la famiglia di Aronne[14]. Tale superiorità è decisamente affermata da san Paolo, che dice: «Levi stesso, che prende le decime [dal popolo di Israele], le ha pagate, per così dire, per mezzo di Abramo[15]. Non vogliamo dilungarci ulteriormente sul significato di questi due sacerdozi; ma citeremo ancora le parole di san Paolo: «Qui [nel sacerdozio levitico] vi sono uomini mortali che prendono le decime; ma là vi è un uomo di cui è attestato che è vivente»[16]. Tale «uomo vivente», che è Melki-Tsedeq, è Manu il quale sussiste in effetti «in perpetuo» (in ebraico le-ôlam), cioè per tutta la durata del suo ciclo (Manvantara) o del mondo che in particolare governa. Per questo egli è «senza genealogia», poiché la sua origine «non è umana», essendo egli stesso il prototipo dell’uomo; ed è realmente «fatto simile al Figlio di Dio», poiché, attraverso la Legge che formula, egli è, per questo mondo, l’espressione e l’immagine del Verbo divino[17].
Si possono fare altre osservazioni, e prima di tutto questa: nella storia dei «Re Magi» noi vediamo tre personaggi distinti, che sono i tre capi della gerarchia iniziatica; in quella di Melki-Tsedeq ne vediamo uno solo, che però unisce in sé aspetti corrispondenti alle medesime tre funzioni. È così che taluni hanno potuto distinguere Adoni-Tsedeq, il «Signore di Giustizia», che si sdoppia in qualche modo in Kohen-Tsedeq, il «Sacerdote di Giustizia» e Melki-Tsedeq, il «Re di Giustizia»; questi tre aspetti possono di fatto essere considerati come riferentisi rispettivamente alle funzioni del Brahâtmâ, del Mahâtmâ e del Mahânga[18]. Benché il nome Melki-Tsedeq designi propriamente solo il terzo aspetto, il suo significato generalmente si estende all’insieme dei tre, quindi, se è usato a preferenza degli altri, ciò avviene perché la funzione che esprime è la più vicina al mondo esterno, dunque quella che è manifestata nel modo più immediato. Del resto, si può notare che l’espressione «Re del Mondo», come quella di «Re di Giustizia», allude direttamente solo al potere regale; e, d’altra parte, si ritrova anche in India la designazione di Dharma-Râja, che è letteralmente equivalente a quella di Melki-Tsedeq[19].
Considerando il nome di Melki-Tsedeq nel suo significato più rigoroso, gli attributi propri del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; e tali appunto sono gli attributi di Mikael, considerato come l’«Angelo del Giudizio»[20]. Nell’ordine sociale, questi due emblemi rappresentano rispettivamente le due funzioni, amministrativa e militare, proprie degli Kshatriya, funzioni che sono i due elementi costitutivi del potere regale. Sono anche, geroglificamente, i due caratteri che formano la radice ebraica e araba Haq, la quale significa al tempo stesso «Giustizia» e «Verità»[21] ed è servita, presso vari popoli antichi, a designare appunto la regalità[22]. Haq è la potenza che fa regnare la Giustizia, cioè l’equilibrio simboleggiato dalla bilancia, mentre la potenza stessa è simboleggiata dalla spada[23], ed è proprio questo che caratterizza il ruolo essenziale del potere regale; d’altra parte, nell’ordine spirituale, è anche la forza della Verità. Bisogna aggiungere poi che esiste una forma attenuata della radice Haq, ottenuta sostituendo il segno della forza spirituale a quello della forza materiale; tale forma Hak designa propriamente la «Sapienza» (in ebraico Hokmah), sicché essa si addice particolarmente all’autorità sacerdotale, come l’altra al potere regale. Ciò è confermato anche dal fatto che le due forme corrispondenti si ritrovano, con significati similari, nel caso della radice kan, la quale, in lingue molto diverse, significa «potere» o «potenza» e anche «conoscenza»[24]: kan è soprattutto il potere spirituale o intellettuale, identico alla Sapienza (da cui Kohen, «sacerdote» in ebraico), e qan è il potere materiale (da cui parole diverse che esprimono l’idea di «possesso» e, particolarmente, il nome di Qain)[25]. Queste radici e i loro derivati potrebbero senza dubbio dar luogo a molte altre considerazioni; ma noi dobbiamo limitarci a ciò che riguarda direttamente l’argomento del presente studio.
Per completare il discorso, citeremo quel che la Cabbala ebraica dice della Shekinah: essa è rappresentata nel «mondo inferiore» dall’ultima delle dieci Sephiroth, chiamata Malkuth, cioè il «Regno», designazione abbastanza interessante dal nostro attuale punto di vista. Ma è ancor più rilevante che, fra i sinonimi dati talora a Malkuth, si trovi Tsedeq, il «Giusto»[26]. L’accostamento di Malkuth e di Tsedeq, ossia della Regalità (il governo del Mondo) e della Giustizia, si ritrova nel nome di Melki-Tsedeq. Si tratta qui della Giustizia distributiva e propriamente equilibratrice, nella «colonna di mezzo» dell’albero sephirotico, che va distinta dalla Giustizia opposta alla Misericordia e identificata col Rigore, nella «colonna di sinistra», perché si tratta di due aspetti diversi (e del resto in ebraico vi sono due parole per designarli: la prima è Tsedaqah e la seconda è Din). Di questi due aspetti, il primo è la Giustizia nel senso più stretto e più completo insieme, implicante essenzialmente l’idea di equilibrio e di armonia, e legata indissolubilmente alla Pace.
Malkuth è «il serbatoio in cui si riuniscono le acque che vengono dal fiume che sta in alto, cioè tutte le emanazioni (grazie o influssi spirituali) che essa poi diffonde in abbondanza»[27]. Tale «fiume che sta in alto» e le acque che ne discendono ricordano stranamente il ruolo attribuito al fiume celeste Gangâ nella tradizione indù: e si potrebbe anche osservare che la Shakti, di cui Gangâ è un aspetto, presenta indubbiamente alcune analogie con la Shekinah, se non altro per quanto riguarda la funzione «provvidenziale» che è loro comune. Il serbatoio delle acque celesti è naturalmente identico al centro spirituale del nostro mondo: da lì partono i quattro fiumi del Pardes, dirigendosi verso i quattro punti cardinali. Per gli Ebrei, questo centro spirituale si identifica con la collina di Sion alla quale danno l’appellativo di «Cuore del Mondo», comune per altro a tutte le «Terre Sante»». Essa diventa così, per loro, in certo modo, l’equivalente del Mêru degli Indù o dell’Alborj dei Persiani[28]. «Il Tabernacolo della Santità di Jehovah, la residenza della Shekinah, è il Santo dei Santi che è il cuore del Tempio, il quale è esso stesso il centro di Sion (Gerusalemme), come la santa Sion è il centro della Terra d’Israele, come la Terra d’Israele è il centro del mondo»[29]. Ma ci possiamo spingere ancora oltre: non solo tutto ciò che è enumerato qui, prendendolo nell’ordine inverso, ma anche, dopo il Tabernacolo nel Tempio, l’Arca dell’Alleanza nel Tabernacolo e, sull’Arca dell’Alleanza, il luogo dove si manifesta la Shekinah (fra i due Kerubim), rappresentano altrettante approssimazioni successive al «Polo spirituale».
In modo analogo Dante presenta proprio Gerusalemme quale «Polo spirituale», come abbiamo avuto occasione di spiegare in altra sede[30]; ma, se appena si esce dal punto di vista propriamente giudaico, ciò diviene soprattutto simbolico e non costituisce più una localizzazione in senso stretto. Tutti i centri spirituali secondari, costituiti in vista di adattamenti della tradizione primordiale a condizioni determinate, sono, come già abbiamo mostrato, immagini del centro supremo; Sion, in realtà, potrebbe non essere altro che uno di questi centri secondari e tuttavia identificarsi simbolicamente col centro supremo in virtù di tale similitudine. Come indica il suo nome, Gerusalemme è effettivamente un’immagine della vera Salem; ciò che abbiamo detto e che ancora diremo della «Terra Santa», la quale non è soltanto la Terra d’Israele, permetterà di capirlo senza difficoltà.
A questo proposito è assai significativa, quale sinonimo di «Terra Santa», l’espressione «Terra dei Viventi»: tale espressione designa chiaramente il «soggiorno d’immortalità», sicché, nel suo significato più vero, può essere attribuita al Paradiso Terrestre o ai suoi equivalenti simbolici; ma tale appellativo è stato esteso anche alle «Terre Sante» secondarie, e in particolare alla Terra d’Israele. Si dice che la «Terra dei Viventi comprende sette terre», e, secondo il Vulliaud, «questa terra è Chanaan, dove si trovavano sette popoli»[31]. Questo è indubbiamente esatto in senso letterale; ma, simbolicamente, queste terre potrebbero benissimo corrispondere, come d’altronde quelle di cui si parla nella tradizione islamica, ai sette dwîpa che, secondo la tradizione indù, hanno il Mêru come centro comune. Ma di essi torneremo a parlare più avanti. Parimenti, quando i mondi antichi o le creazioni anteriori alla nostra sono raffigurati mediante i «sette re di Edom» (il numero settenario è qui in rapporto con i sette «giorni» del Genesi), vi è una rassomiglianza, troppo evidente per essere casuale, con le ere dei sette Manu contate dall’inizio del Kalpa fino all’epoca attuale[32].

[1] Secondo la tradizione dei Persiani, vi furono due specie di Haoma: quello bianco, che poteva essere raccolto soltanto sulla «Montagna sacra», da essi chiamata Alborj, e quello giallo, che sostituì il primo dopo che gli antenati degli Iraniani ebbero abbandonato il loro habitat primitivo, ma che poi, a sua volta, andò perduto. Si tratta di due fasi successive dell’oscuramento spirituale che avviene gradualmente attraverso le varie età del ciclo umano. 
[2] Dioniso o Bacco ha molti nomi, corrispondenti ad altrettanti aspetti diversi; sotto almeno uno di questi aspetti la tradizione lo fa venire dall’India. Il racconto secondo cui egli nacque dalla coscia di Zeus poggia su una assimilazione verbale estremamente curiosa: la parola greca méros, «coscia», è stata sostituita al nome del Mêru, la «montagna polare», al quale foneticamente è quasi identica. 
[3] Il numero di ciascuna di queste due parole è 70. 
[4] Il sacrificio di Melchisedec è abitualmente considerato come una «prefigurazione» dell’Eucarestia; e il sacerdozio cristiano si identifica così col sacerdozio stesso di Melchisedec, applicando a Cristo le seguenti parole dei Salmi: «Tu es sacerdos in æternum secundum ordinem Melchisedec» (Salmi, CX, 4). 
[5] Epistola agli Ebrei, v, 11. 
[6] Il nome Abram non era ancora stato cambiato in Abraham; nello stesso tempo (Genesi, XVII), il nome della sua sposa, Sarai, fu cambiato in Sarah, in modo che la somma dei numeri di questi due nomi rimase la stessa. 
[7] Genesi, XIV, 19-20. 
[8] Va anche notato che la stessa radice si ritrova nelle parole Islam e moslem (musulmano); la «sottomissione alla Volontà divina» (che è il senso proprio della parola Islam) è la condizione necessaria della «Pace»; l’idea qui espressa deve essere accostata a quella del dharma indù. 
[9] Epistola agli Ebrei, VII, 1-3. 
[10] Ib., VII, 7. 
[11] Genesi, XIV, 22. 
[12] Il numero di ciascuno di questi nomi è 197. 
[13] Questa è la giustificazione completa dell’identità che abbiamo indicato sopra; si badi però che la partecipazione alla tradizione può non essere sempre cosciente; in tal caso essa tuttavia non è meno reale, come mezzo di trasmissione degli «influssi spirituali», ma non implica però l’accesso effettivo a un qualche rango della gerarchia iniziatica. 
[14] Sulla base di quanto precede, si può dire che tale superiorità corrisponde a quella della Nuova Alleanza sull’Antica Legge (Epistola agli Ebrei, VII, 22). Sarebbe opportuno spiegare perché Cristo è nato dalla tribù regale di Giuda e non dalla tribù sacerdotale di Levi (si veda ib., VII, 11-17); ma tali considerazioni ci porterebbero troppo lontano. ‑ L’organizzazione delle dodici tribù, discendenti dai dodici figli di Giacobbe, si ricollega naturalmente alla costituzione duodenaria dei centri spirituali. 
[15] Epistola agli Ebrei, VII, 8. 
[16] Ib., VII, 8. 
[17] Nella Pistis Sophia degli Gnostici alessandrini, Melchisedec è qualificato come «Grande Ricevitore della Luce eterna»; ciò si addice alla funzione di Manu, che riceve infatti la Luce intelligibile mediante un raggio direttamente emanato dal Principio, per rifletterla nel mondo che è il suo regno; perciò Manu è detto «figlio del Sole». 
[18] Esistono anche altre tradizioni relative a Melki-Tsedeq; secondo una di queste, egli sarebbe stato consacrato nel Paradiso terrestre dall’Angelo Mikael, all’età di 52 anni. Il numero simbolico 52, d’altra parte, ha un ruolo molto importante nella tradizione indù, dove è considerato come il numero totale dei significati inclusi nel Véda; si dice inoltre che a tali significati corrispondano altrettante pronunce diverse del monosillabo Om. 
[19] Il nome o piuttosto il titolo di Dharma-Râja è attribuito, nel Mahâbhârata, a Yudhishthira; ma dapprima fu attribuito a Yama, il «Giudice dei morti», che è in stretto rapporto con Manu, come già abbiamo osservato. 
[20] Nell’iconografia cristiana, l’angelo Mikael è raffigurato con questi due attributi nelle rappresentazioni del «Giudizio universale». 
[21] Parimenti, presso gli antichi Egizi, o Maât era nello stesso tempo la «Giustizia» e la «Verità»; la si vede raffigurata in uno dei piatti della bilancia del Giudizio, mentre nell’altro sta un vaso, geroglifico del cuore. ‑ In ebraico, hoq significa «decreto» (Salmi, II, 7). 
[22] La parola Haq ha per valore numerico 108, che è uno dei numeri ciclici fondamentali. ‑ In India, il rosario shivaita è composto di 108 grani; e, nel suo significato primo, il rosario simboleggia la «catena dei mondi», cioè il concatenarsi causale dei cicli o degli stati d’esistenza. 
[23] Tale significato potrebbe riassumersi in questa formula: «la forza al servizio del diritto», se i moderni non avessero troppo abusato di tale formula prendendola in un senso del tutto esteriore. 
[24] Si veda L’Ésotérisme de Dante, 1957, p. 58. 
[25] La parola Khan, titolo dato ai capi dei popoli dell’Asia centrale, si ricollega forse alla medesima radice. 
[26] Tsedeq è anche il nome del pianeta Giove, il cui angelo è chiamato Tsadqiel-Melek; la somiglianza col nome di Melki-Tsedeq (cui è soltanto aggiunto El, il nome divino che forma la desinenza comune a tutti i nomi angelici) è troppo evidente per insistervi. In India, il medesimo pianeta porta il nome di Brihaspati, che ha anch’esso il significato di «Pontefice Celeste». Altro sinonimo di Malkuth è Sabbath, il cui significato di «riposo» si riferisce evidentemente all’idea della «Pace», tanto più che tale idea esprime, come abbiamo già visto, l’aspetto esterno della Shekinah, mediante il quale essa si comunica al «mondo inferiore». 
[27] P. Vulliaud, La Kabbale juive, I, p. 509. 
[28] Presso i Samaritani, il nome Garizim ha il medesimo ruolo e gli vengono dati gli stessi appellativi: è la «Montagna benedetta», la «Collina eterna», il «Monte del Retaggio», la «Casa di Dio» e il Tabernacolo dei suoi Angeli, la dimora della Shekinah; è anche identificato con la «Montagna primordiale» (Har Qadim) dove era l’Eden e che non fu sommersa dalle acque del diluvio. 
[29] P. Vulliaud, La Kabbale juive, I, p. 509. 
[30] L’Ésotérisme de Dante, 1957, p. 64. 
[31] P. Vulliaud, La Kabbale juive, II, p. 116. 
[32] Un Kalpa comprende quattordici Manvantara; Vaivaswata, il presente Manu, è il settimo di questo Kalpa, detto Shrî-Shwêta-Varâha-Kalpa o «Era del Cinghiale bianco». Altra osservazione curiosa: gli Ebrei danno a Roma l’appellativo di Edom; ora, la tradizione parla di sette re di Roma, il secondo dei quali, Numa, considerato il legislatore della città, porta un nome che è l’inversione sillabica esatta di Manu, e può essere anche avvicinato alla parola greca nomos, «legge». Si può dunque pensare che i sette re di Roma altro non siano che una rappresentazione particolare dei sette Manu per una particolare civiltà, come i sette saggi della Grecia sono, d’altra parte, in condizioni similari, una rappresentazione dei sette Rishi nei quali si sintetizza la saggezza del ciclo immediatamente anteriore al nostro.

Nessun commento:

Posta un commento