"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 23 aprile 2014

René Guénon, Il Re del Mondo. VII - «Luz» o il soggiorno d’immortalità

René Guénon
Il Re del Mondo
VII - «Luz» o il soggiorno d’immortalità

Le tradizioni riguardanti il «mondo sotterraneo» si ritrovano presso moltissimi popoli; non abbiamo intenzione di ricordarle tutte, anche perché alcune di esse non sembrano avere un rapporto diretto con l’argomento di cui ci occupiamo.
Tuttavia si potrebbe osservare, in linea generale, che il «culto delle caverne» è sempre connesso all’idea di «luogo interiore» o di «luogo centrale», e che il simbolo della caverna e quello del cuore, sotto questo aspetto, sono assai vicini l’uno all’altro[1]. D’altra parte, esistono realmente, in Asia centrale come in America e forse anche altrove, caverne e sotterranei dove alcuni centri iniziatici hanno potuto sussistere per secoli; ma, a prescindere da questo fatto, vi è, in tutto quanto viene riferito su questo argomento, una parte di simbolismo che non è difficile individuare; e possiamo ritenere persino che siano state ragioni di ordine simbolico a determinare la scelta di luoghi sotterranei dove installare tali centri iniziatici, piuttosto che ragioni di semplice prudenza. Forse Saint-Yves avrebbe potuto spiegare tale simbolismo, ma non lo ha fatto, e ciò dà a certe parti del suo libro un’apparenza fantasiosa[2]; quanto a Ossendowski, egli era sicuramente incapace di andare di là dalla lettera e di vedere in quanto gli veniva detto qualcosa di più del significato più immediato.
Fra le tradizioni a cui alludevamo, ve n’è una che presenta un interesse particolare: la troviamo nel Giudaismo e concerne una città misteriosa chiamata Luz[3]. Questo nome, in origine, era quello del luogo dove Giacobbe ebbe il sogno in seguito al quale lo chiamò Beith-El, cioè «casa di Dio»[4]; torneremo più avanti su questo punto. È detto che l’«Angelo della Morte» non può penetrare in questa città e non vi ha alcun potere; e, con un raffronto piuttosto singolare ma molto significativo, alcuni la situano vicino all’Alborj, che, anche per i Persiani, è il «soggiorno d’immortalità».
Vicino a Luz, vi è, si dice, un mandorlo (chiamato luz in ebraico) alla base del quale si trova una cavità attraverso cui si penetra in un sotterraneo[5]; e questo sotterraneo conduce alla città, che è completamente nascosta. La parola luz, nelle sue diverse accezioni, sembra per altro derivare da una radice che designa tutto ciò che è nascosto, coperto, avviluppato, silenzioso, segreto; è da notare che anche le parole che designano il Cielo hanno in origine lo stesso significato. Si avvicina di solito cœlum al greco koilon, «cavo» (il che può anche avere un rapporto con la caverna, tanto più che Varrone indica tale accostamento in questi termini: a cavo cœlum); ma bisogna osservare però che la forma più antica e più corretta sembra essere cælum, che ricorda da vicino la parola cælare, «nascondere». D’altra parte, in sanscrito, Varuna deriva dalla radice var, «coprire» (che è anche il significato della radice kal alla quale si ricollegano il latino celare, altra forma di cælare, e il suo sinonimo greco kaluptein)[6]; e il greco Ouranos è un’altra forma dello stesso nome, poiché var si trasforma facilmente in ur. Tali parole dunque possono significare «ciò che copre»[7], «ciò che nasconde»[8], ma anche «ciò che è nascosto», e quest’ultimo significato è duplice: ciò che è nascosto ai sensi, il regno sovrasensibile; e, nei periodi di occultamento o di oscuramento, la tradizione che cessa di essere manifestata esteriormente e apertamente, allorché il «mondo celeste» diviene il «mondo sotterraneo».
Da un altro punto di vista, va fatto anche un altro raffronto col Cielo: Luz è chiamata la «città azzurra», e questo colore, che è quello dello zaffiro[9], è il colore celeste. In India si dice che il colore azzurro dell’atmosfera sia prodotto dal riflesso della luce su una delle facce del Mêru, quella meridionale che guarda lo Jambu-dwîpa ed è fatta di zaffiro; è facile capire che ciò si riferisce allo stesso simbolismo. Lo Jambu-dwîpa non è soltanto l’India, come si crede comunemente, ma rappresenta in realtà tutto l’insieme del mondo terrestre nel suo stato attuale; tale mondo può essere infatti considerato come situato tutto quanto a sud del Mêru, dato che questo è identificato col polo settentrionale[10]. I sette dwîpa (letteralmente «isole» o «continenti») emergono successivamente nel corso di certi periodi ciclici, in modo che ciascuno di essi è il mondo terrestre considerato nel periodo corrispondente; i dwîpa formano un loto il cui centro è il Mêru, in rapporto al quale sono orientati secondo le sette regioni dello spazio[11]. Vi è dunque una faccia del Mêru volta verso ciascuno dei sette dwîpa; se ogni faccia ha uno dei colori dell’arcobaleno[12],  la sintesi di questi sette colori è il bianco, colore che è attribuito universalmente all’autorità spirituale suprema[13], ed è anche quello del Mêru considerato in se stesso (come vedremo, esso è effettivamente designato come «la montagna bianca»), mentre gli altri rappresentano solo i suoi aspetti in rapporto ai vari dwîpa. Sembra che, nel periodo di manifestazione di ciascun dwîpa, il Mêru assuma una posizione diversa; ma in realtà esso è immutabile, poiché è il centro. mentre è l’orientamento del mondo terrestre in rapporto a esso che cambia da un periodo all’altro.
Torniamo alla parola ebraica luz, i cui diversi significati vanno esaminati con la massima attenzione: la parola ha comunemente il significato di «mandorla» (e anche di «mandorlo», poiché designa, per estensione, sia l’albero sia il frutto) o di «nocciolo»; ora il nocciolo è quanto vi è di più interiore e di più nascosto, ed è completamente chiuso, dal che deriva l’idea di «inviolabilità»[14] (che si ritrova nel nome dell’Agarttha). La parola luz, inoltre, è il nome che viene dato a una particella corporea indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, particella alla quale l’anima rimarrebbe legata dopo la morte e fino alla resurrezione[15]. Come il nocciolo contiene il germe, e come l’osso contiene il midollo, questo luz contiene gli elementi virtuali necessari alla restaurazione dell’essere; essa si opererà sotto l’influsso della «rugiada celeste», rivivificando le ossa disseccate; a questo alludono le parole di san Paolo: «Seminato nella corruzione, risusciterà nella gloria»[16]. Anche qui, come sempre, la «gloria» si riferisce alla Shekinah, considerata nel mondo superiore. La «rugiada celeste» è in stretta relazione con essa, come si è potuto vedere prima. Essendo imperituro[17], il Luz è nell’essere umano il «nocciolo d’immortalità», così come il luogo designato con lo stesso nome è il «soggiorno d’immortalità»: là si arresta, in entrambi i casi, il potere dell’«Angelo della Morte». È in certo senso l’uovo o l’embrione dell’Immortale[18]; può essere paragonato anche alla crisalide da cui deve uscire la farfalla[19]; tale paragone traduce esattamente il suo ruolo in rapporto alla resurrezione.
Si usa situare il luz verso l’estremità inferiore della colonna vertebrale, il che può sembrare abbastanza strano, ma può essere spiegato rifacendosi a ciò che la tradizione indù dice della forza chiamata Kundalinî[20], che è una forma della Shakti considerata come immanente all’essere umano[21]. Tale forza è rappresentata dalla figura di un serpente arrotolato su se stesso, in una regione dell’organismo sottile corrispondente all’estremità inferiore della colonna vertebrale. Così, almeno, nell’uomo comune; ma, per effetto di pratiche come quelle dello Hatha-Yoga, essa si risveglia, si dispiega e si eleva attraverso le «ruote» (chakra) o «loti» (kamala) che corrispondono ai diversi plessi, per raggiungere la regione corrispondente al «terzo occhio», cioè l’occhio frontale di Shiva. Questo stadio rappresenta la restaurazione dello «stato primordiale», in cui l’uomo ritrova il «senso dell’eternità» e, in tal modo, ottiene quello che altrove abbiamo chiamato l’immortalità virtuale. Fino a quel punto siamo ancora nello stato umano; in una fase ulteriore, Kundalinî raggiunge finalmente la corona della testa[22], e quest’ultima fase si riferisce alla conquista effettiva degli stati superiori dell’essere. Da tale accostamento sembra risultare che la localizzazione del luz nella parte inferiore dell’organismo si riferisce soltanto alla condizione dell’«uomo decaduto»; e, per l’umanità terrestre considerata nel suo insieme, lo stesso vale per la localizzazione del centro spirituale supremo nel «mondo sotterraneo»[23].


[1] La caverna o la grotta rappresenta la cavità del cuore, considerato come centro dell’essere, e anche l’interno dell’«Uovo del Mondo». 
[2] Citeremo come esempio il passo in cui si tratta della «discesa agli Inferi»; chi ne avrà occasione, potrà paragonarlo con quanto abbiamo detto a questo proposito nell’Esotérisme de Dante. 
[3] Le informazioni che utilizziamo qui sono tratte in parte dalla Jewish Encyclopedia (VIII, 219). 
[4] Genesi, XXVIII, 19. 
[5] Nelle tradizioni di alcuni popoli dell’America del Nord si parla di un albero per mezzo del quale certi uomini che vivevano primitivamente all’interno della terra sarebbero giunti alla sua superficie, mentre altri, della stessa razza, sarebbero rimasti nel mondo sotterraneo. È verosimile che Bulwer-Lytton si sia ispirato a queste tradizioni in The Coming Race. 
[6] Dalla radice kal derivano anche altre parole latine come caligo e forse il composto occultus. D’altra parte è possibile che la forma cælare provenga originariamente da una radice diversa, cæd, che ha il significato di «tagliare» oppure «dividere» (da cui anche cædere), e di conseguenza quello di «separare» e «nascondere»; ma, in ogni caso, le idee espresse da tali radici sono, come si vede, molto vicine tra loro, il che può aver facilmente prodotto l’assimilazione di cælare e celare, anche se queste due forme, etimologicamente, sono indipendenti. 
[7] Il «Tetto del Mondo», assimilabile alla «Terra celeste» o «Terra dei Viventi», nelle tradizioni dell’Asia centrale, ha stretti rapporti con il «Cielo Occidentale» dove regna Avalokitêshwara. ‑ A proposito del significato di «coprire», bisogna ricordare anche l’espressione massonica «essere al coperto»: il soffitto stellato della Loggia rappresenta la volta celeste. 
[8] Presso gli Egizi, è il velo di Iside o di Neith, il «velo azzurro» della Madre universale nella tradizione estremo-orientale (Tao-tê-king, cap. VI); se si attribuisce tale significato al cielo visibile, vi si può scorgere un’allusione al ruolo del simbolismo astronomico che nasconde o «rivela» le verità superiori. 
[9] Lo zaffiro ha un ruolo importante nel simbolismo biblico; in particolare, appare frequentemente nelle visioni dei profeti. 
[10] Il Nord è chiamato in sanscrito Uttara, cioè la regione più alta; il Sud è chiamato Dakshina, la regione della destra, cioè quella che si ha alla propria destra volgendosi a Oriente. Uttarâyana è il cammino ascendente del Sole verso il Nord, che inizia al solstizio d’inverno e termina col solstizio d’estate; dakshinâyana è il cammino discendente del Sole verso il Sud, che comincia col solstizio d’estate e termina col solstizio d’inverno. 
[11] Nel simbolismo indù (che il Buddismo ha poi conservato nella leggenda dei «sette passi»), le sette regioni dello spazio sono i quattro punti cardinali, più lo Zenit e il Nadir e infine il centro stesso; si può osservare che la loro rappresentazione forma una croce tridimensionale (sei direzioni opposte a due a due partendo dal centro). Parimenti, nel simbolismo cabbalistico, il «Santo Palazzo» o «Palazzo interiore» sta al centro delle sei direzioni, con le quali forma il settenario; e Clemente d’Alessandria dice che da Dio, «Cuore dell’Universo», si dipartono le distese infinite che si dirigono l’una in alto, l’altra in basso, l’una a destra e l’altra a sinistra, l’una in avanti e l’altra indietro; volgendo lo sguardo verso le sei distese come verso un numero sempre uguale, egli porta a compimento il mondo; egli è il principio e la fine (l’alpha e l’omega), in lui si compiono le sei fasi del tempo, e da lui ricevono la loro estensione indefinita; tale è il segreto del numero 7 (passo citato da P. Vulliaud, La Kabbale juive, I, pp. 215-216). Tutto ciò si riferisce allo sviluppo del punto primordiale nello spazio e nel tempo; le sei fasi del tempo, corrispondenti rispettivamente alle sei direzioni dello spazio, sono sei periodi ciclici, suddivisioni di un altro periodo più generale, e talvolta rappresentate simbolicamente come sei millenni; sono anche assimilabili ai primi sei giorni del Genesi, il settimo o Sabbath essendo la fase di ritorno al Principio, cioè al centro. Si hanno così sette periodi ai quali può essere riferita la manifestazione rispettiva dei sette dwîpa; se ciascuno di questi periodi è un Manvantara, il Kalpa comprende due serie settenarie complete; s’intende che il medesimo simbolismo può essere applicato in diversi gradi, secondo si considerino periodi ciclici più o meno estesi. 
[12] Si veda ciò che si è detto prima sul simbolismo dell’arcobaleno. ‑ Vi sono in realtà solo sei colori, complementari a due a due, e corrispondenti alle sei direzioni opposte a due a due; il settimo colore è il bianco, come la settima regione si identifica col centro. 
[13] Non è senza ragione, dunque, che nella gerarchia cattolica il Papa è vestito di bianco. 
[14] Per questo il mandorlo è stato preso come simbolo della Vergine. 
[15] È curioso notare che questa tradizione giudaica molto probabilmente ha ispirato certe teorie di Leibnitz sull’«animale» (cioè sull’essere vivente) sussistente in perpetuo con un corpo, ma «ridotto in piccolo» dopo la morte. 
[16] Prima Epistola ai Corinzi, XV, 42. ‑ Vi è in queste parole un’applicazione stretta della legge d’analogia: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, ma in senso inverso». 
[17] In sanscrito, la parola akshara significa «indissolubile» e quindi «imperituro» o «indistruttibile»; designa la sillaba, elemento primo e germe del linguaggio, e si applica per eccellenza al monosillabo Om, di cui si dice che contiene in se stesso l’assenza del triplice Vêda. 
[18] Se ne trova l’equivalente, sotto un’altra forma, nelle diverse tradizioni, e in particolare, con importanti sviluppi, nel Taoismo. ‑ A tale riguardo, è l’analogo, nell’ordine «microcosmico», di ciò che è l’«Uovo del Mondo» nell’ordine «macrocosmico», perché racchiude le possibilità del «ciclo futuro» (la vita venturi sæculi del Credo cattolico). 
[19] Qui ci si può riferire al simbolismo greco di Psiche che poggia in gran parte su questa somiglianza (si veda Psyché, di F. Pron). 
[20] La parola kundalî (al femminile kundalinî) significa arrotolato in forma di anello o di spirale; tale arrotolamento simboleggia lo stato embrionale e «non sviluppato». 
[21] A questo riguardo, e per un certo rapporto, la sua dimora è anche identificata con la cavità del cuore; abbiamo già accennato alla relazione esistente fra la Shakti indù e la Shekinah ebraica. 
[22] È il Brahma-randhra od orifizio di Brahma, punto di contatto della sushumnâ o «arteria coronaria» con il «raggio solare»; abbiamo già esposto interamente questo simbolismo ne L’Homme et son devenir selon le Vêdânta. 
[23] Tutto ciò è in relazione col significato reale della ben nota frase ermetica: «Visita inferiora terræ, rectificando invenies occultum lapidem, veram medicinam», che dà per acrostico la parola Vitriolum. La «pietra filosofale», sotto un altro aspetto, è nello stesso tempo la «vera medicina», cioè l’«elisir di lunga vita» ossia la «bevanda d’immortalità». ‑ Talvolta si scrive interiora in luogo di inferiora, ma il senso generale non ne viene modificato e rimane sempre la stessa evidente allusione al «mondo sotterraneo».

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