A.K. Coomaraswamy
«Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem» (Quintiliano, IX, 4) **.
Esiste un'acuta e molto valida teoria estetica negli scritti dei filosofi scolastici, che pure non hanno composto alcun trattato specifico intitolato «Filosofia dell'Arte» (1). ..
E non v'è dubbio che i Sermoni di Meister Eckhart (2), che ben potrebbero definirsi una Upanishad europea, sono tra quegli scritti di gran lunga i più profondi e dotati di significato universale, sia per vigore di affermazione che per chiarezza di pensiero. La superiorità di Eckhart non è quella tipica del genio; ciò che colpisce nel suo pensiero non è l'individualità o l'originalità, ma solo una grande energia e forza volitiva che gli consentono di riassumere e concentrare in un'esposizione coerente e organica la spiritualità europea al suo massimo grado di tensione. La sua devozione al tema è totale e la qualità dello stile è creata dai suoi allenati poteri mentali; d'altronde, come egli stesso dichiara a proposito del pittore di ritratti, «non è lui a rivelarci le cose» (3).
La concezione dell'arte di Meister Eckhart*
«Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem» (Quintiliano, IX, 4) **.
Esiste un'acuta e molto valida teoria estetica negli scritti dei filosofi scolastici, che pure non hanno composto alcun trattato specifico intitolato «Filosofia dell'Arte» (1). ..
E non v'è dubbio che i Sermoni di Meister Eckhart (2), che ben potrebbero definirsi una Upanishad europea, sono tra quegli scritti di gran lunga i più profondi e dotati di significato universale, sia per vigore di affermazione che per chiarezza di pensiero. La superiorità di Eckhart non è quella tipica del genio; ciò che colpisce nel suo pensiero non è l'individualità o l'originalità, ma solo una grande energia e forza volitiva che gli consentono di riassumere e concentrare in un'esposizione coerente e organica la spiritualità europea al suo massimo grado di tensione. La sua devozione al tema è totale e la qualità dello stile è creata dai suoi allenati poteri mentali; d'altronde, come egli stesso dichiara a proposito del pittore di ritratti, «non è lui a rivelarci le cose» (3).
«Ciò che dico è dentro di
me ... come dono di Dio» (4). La concreta analogia tra la forma mentis
di Eckhart e quella che è stata a lungo consueta in India dovrebbe
renderne facile la comprensione al seguace del Vedanta o del buddismo
mahayana, mentre richiederebbe uno sforzo molto maggiore da parte del
cristiano protestante o del moderno filosofo. Per i lettori europei una
minima conoscenza della teologia cristiana e del pensiero scolastico
deve essere data per scontata. Sia a beneficio dei lettori indiani sia
perché ritengo inevitabile per studiosi di estetica e metafisica la
collazione di termini tecnici orientali ed europei, ho sistemato in
parentesi gli equivalenti sanscriti ogniqualvolta essi servivano a
chiarire o a meglio precisare il significato dei termini stessi. Per il
resto, ogni parola o passo inscritto in virgolette è di Eckhart. Non ho
ritenuto necessario distinguere le sue parole da quelle di altri
studiosi, maestri e pensatori non cristiani, che Eckhart a volte cita e
sottoscrive, non essendo questo uno studio sulle sue fonti. Ho tentato
di sistemare in modo logico il materiale disponibile e, dove è stato
necessario sviluppare l'idea originale, ho cercato di restare in stretta
armonia con le idee scolastiche in generale e con le espressioni di
Eckhart in particolare, spesso ricorrendo a parole sue anche quando ciò
non è indicato espressamente con un riferimento specifico. L'intera
concezione della vita umana, nel suo dinamismo e nella sua
realizzazione, è in Eckhart estetica: suo motivo dominante è quello
dell'uomo come artista, in analogia con «l'Artista Supremo», e la sua
idea del «bene sovrano» e della «delizia immutabile» è quella di un'arte
giunta a perfezione (5). L'arte è religione, la religione è arte, il
loro non è un semplice rapporto ma un'identità, e nessuno può
addentrarsi nella teologia senza averne esperienza. La Trinità, ad
esempio, è variamente definita «"relazione" di Dio nell'unità» (6).
«parola articolata» (7), «determinata da nozioni formali» (8),
«simmetria in sublime lucidità» (9). Eckhart non scrive un trattato
sulle arti, per quanto dimostri di conoscerle bene, ma sermoni sull'arte
di conoscere Dio. L'ignoranza è «assenza di conoscenza ... stupidità»
(10). La conoscenza è triplice: 1) dei particolari e differenziali, cioè
sensibile, empirica, letterale, indicativa (samvya vaharika-pratyaksha); 2) degli universali, cioè razionale o
intellettiva, allegorica, convenzionale (paroksha);3) dell'identità,
cioè senza la mediazione d'immagini, trascendentale, anagogica
(aparoksha = paramarthika-pratyaksha) (11). La conoscenza dei primi due
tipi è relativa (avidya), quella del terzo è immediata e assoluta
(vidya), esprimibile solo in termini di negazione. Per chiarire il suo
pensiero, Eckhart si riferisce costantemente alla pratica delle singole
arti, all'arte nell'artista e al loro perfezionamento. La comprensione
si dà attraverso la percezione, che può essere visiva o uditiva, ma che
in entrambi i casi è un processo estetico. Ad esempio: «Vedo i gigli nel
campo, la bellezza e vivacità dei colori, le loro foglie ad una ad una»
(12) come li vede un qualsiasi animale. Questo è il semplice
riconoscere e godere le «creature in quanto tali», «così come sono
naturalmente», apprezzabili rispetto alla loro funzione. Ma «il mio uomo
interiore gode delle cose non in quanto creature ma come doni di Dio»
(13), ossia come immagini intelligibili, con una connotazione di
speciale privilegio. «Di più, il mio "uomo nell'anima" non le assapora
come dono di Dio ma come eternità. Anche così, tutte le creature
annunciano Dio» (14). «Il mio esistere è come il profumo di un fiore»
(15) è come la risonanza del pensiero, è suggestione (dhvani), pura
fragranza (rasa). In sintesi, le tre funzioni estetiche della
denotazione, connotazione e implicanza, che corrispondono alla
percezione, alla interpretazione e alla comprensione intuitiva.
L'anima dispone di due potenti facoltà, intelletto e volontà, che si esprimono nella visione e nell'amore e che possono creativamente esercitarsi all'esterno e interiormente (16). La via dell'uomo è quella in cui le cose esistono come immagini intelligibili e come mezzi di comprensione e comunicazione, sia concettualmente che nell'immaginazione. È in questa condizione che le cose sono colte nella loro incomprensibile molteplicità e devono essere realizzate in un'unità comprensibile; qui se ne apprendono gli usi e poi si impara a rinunciarvi: «Per trovare l'essenza autentica delle cose tutte le somiglianze vanno infrante, riconoscendo nell'immediato il remoto» (17); ma tale infrangersi e rinunciare è anche l'essenza dell'arte che, senza attaccamento ed in completo disinteresse, contempla il creato non nella sua apparenza ma nella sua realtà (18).
L'intelletto e la volontà si estrinsecano nella sfera delle varie professioni, quali quelle dell'artista, dello studioso, del sacerdote, e nella condotta, indipendentemente dalle capacità specifiche. L'artista non è un tipo particolare di uomo bensì ogni uomo è un tipo speciale di artista. Se le professioni («saper fare questo o quello») (20) corrispondono ad altrettante discipline, la condotta «essere con l'altro e aiutarlo» è un altro tipo di disciplina, comune a tutti. Ogni attività comporta una sequenza, che vorremmo chiamare estetica, e che va dalla posizione di un problema, alla sua esecuzione e soluzione. Indipendentemente dai mezzi a disposizione, chiunque agisce si comporta allo stesso modo: la sua volontà obbedisce all'intelletto, sia che debba costruire una casa o che studi matematica, assolva un dovere o compia una buona azione. La mentalità moderna ha sostituito a tale divisione del lavoro un sistema di differenziazione che separa gli uomini in caste. Coloro che ne hanno tratto più danno sono gli artisti professionisti e la gente comune. L'artista (volendolo ancora chiamare tale) è danneggiato dall'isolamento in cui opera e dall'alterigia che esso gli procura, nonché dalla evirazione della sua arte, ritenuta un'esperienza non più intellettuale ma di pura sensazione; d'altro canto, il lavoratore (al quale si nega ormai la qualifica di artista) subisce il danno di essere asservito a una produzione brutale, in una società che valuta la merce più degli uomini. Tutti indistintamente hanno perso da quando l'arte ha cessato di essere il modello di ogni attività per divenire un lusso, sì che la maggioranza degli uomini si è abituata a vivere forzatamente nello squallore e nel disordine, al punto da non esserne più consapevole. Gli unici che oggi sopravvivono come artisti, nel senso scolastico e gotico del termine, sono gli scienziati, i chirurghi, gli ingegneri, e le uniche botteghe operanti sono i laboratori scientifici.
Proprio perché la concezione estetica di Eckhart non è volutamente personale ma inserita in una scuola, essa detiene un valore speciale, perché fu quello indubbiamente lo stile in cui gli eruditi di Parigi e di Colonia disputarono sull'arte e sulle singole arti nei secoli dodicesimo e tredicesimo, nel momento di apogeo dell'arte cristiana. Quegli stessi uomini, nella loro capacità collettiva manifesta come Chiesa, prescrissero i temi dell' arte e i dettagli della sua iconografia; l'esecutore, talvolta un monaco addestrato, o più spesso un membro esperto di una corporazione artigiana, sapeva trarre dal repertorio della tradizione un nuovo elemento da acquisire alla forma, indipendentemente dalla scontata abilità professionale nel professare la sua arte. In tal modo, l'intelletto e la volontà lavoravano di concerto. L'intenzionalità di quest'arte - quel solo fattore che in essa è comune alla mente e al prodotto, e cioè non lo stile e tanto meno alcun manierismo soggettivo, ma proprio il suo parlare per immagini - è appunto ciò che dobbiamo penetrare se vogliamo rettamente comprendere l'arte cristiana. A volte mi domando se in noi c'è davvero tale volontà. Infatti, da un lato, ci sono alcuni storici dell' arte per i quali la forma che muove l'arte dall'interno è trascurabile, mentre contano solo gli avvenimenti, le circostanze di provenienza, l'influenza e i relativi problemi di attribuzione; tutte cose che l'artigiano medioevale trascurava assolutamente. Vi sono all' opposto coloro che sostengono che il godimento dell'opera d'arte, il quale per generale ammissione costituisce il suo valore ultimo (posto che si intenda «godimento» nel giusto senso, e questo è il vero problema, non un assioma, dell'estetica), non richieda alcuna previa disciplina, essendo un'estasi inintelligibile (il che si può accettare) che può essere comunicata (e questo è inammissibile) a quanti aspirino a una visione trascendente, i quali tuttavia sono fin troppo disposti a convincersi che lo specchio dell'universo è la facoltà intrinseca della vista. (Tale «disposizione» non è che «un artificio dell' anima quando indulga in confortevoli intuizioni del divino».) (21) Studiare l'arte da un punto di vista storico può non essere dannoso in sé, ma non è esercizio migliore della soddisfazione di una curiosità; apprezzarne le opere solo in termini di piacere della vista o dell'udito può non essere dannoso in sé «che un rumore fastidioso sia gradito all'orecchio quanto i dolci accenti di una lira è un'esperienza che non riuscirò mai a cogliere») (22), ma non è niente di più di una sensazione potenziata. Se si riducesse a questo, l'estetica non sarebbe altro che una discussione sul gusto, ed è quanto infatti ritengono gli psicologi sperimentali. Parlare di arte esclusivamente in termini di sensazione è un fare violenza al soggetto spirituale della conoscenza; estrarre dal pensiero di Eckhart una teoria del gusto (ruci) sarebbe un fare violenza alla sua unità. E se tuttavia mi sono azzardato a desumerne una teoria dell'arte, non l'ho fatto per puro esercizio dialettico, ma sia perché mi è sembrato necessario in vista di una interpretazione specifica dell'arte cristiana, sia perché la concezione scolastica rappresenta qualcosa di più di una grande scuola provinciale di pensiero; essa rappresenta un modo di pensare universale il quale, gettando una luce su teorie analoghe prevalse in Asia, dovrebbe servire agli studiosi occidentali come un mezzo di accostamento e di penetrazione dell'arte asiatica.
La dottrina concernente i tipi, le forme e le immagini è di importanza essenziale per una comprensione dei riferimenti di Eckhart all'arte. Più di rado compaiono nel suo lessico termini quali sembianza, somiglianza, simbolo, effigie, modello e prototipo. Tra questi, tipo e prototipo, modello, idea e ideale sono impiegati solo con riferimento a cose conosciute e viste intellettualmente (paroksha); gli altri, o nello stesso senso o con riferimento all'immagine materialmente rappresentata (pratyaksha).
a). Cosa si intende per immagine secondo i due sensi predetti? Un'immagine "è qualsiasi cosa conosciuta o concepita" (23) o qualsiasi cosa sia vista o concepita che realizzata. Il Figlio, ad esempio, è «la stessa immagine eterna ... del Padre, la sua forma immanente», e al tempo stesso «l'esatto esemplare, l'immagine perfetta del Padre suo» (24) in distinta Persona. In modo analogo, tutte le creature «nelle loro forme preesistenti in Dio sono eterne», e solo il loro materializzarsi corporeo, «quando la natura opera nel tempo e nello spazio» (25), è soggetto a nascita, come per opera delle mani di Dio: «Tali forme preesistenti sono l'origine o principio creativo di ogni creatura, ed è in tal senso che sono tipi e rientrano nella conoscenza pratica» (26). Esse vivono nella «mente divina», il «tesoro» dell'«arte di Dio» (27): «L'intelletto è il tempio di Dio, dove egli risplende nel fulgore della sua gloria. Non v'è dimora di Dio più reale di quella del tempio divino dell'intelletto (28) (âlaya-vijnana); «La quiddità o il modo è la via che mena a questo tempio». Simile al tesoro di Dio, «vi è un potere nell'anima chiamato mente (vijnana samkalpa); essa è il ricettacolo delle forme incorporee dei concetti» (29); in questo ricettacolo dell'anima le idee possono apparire sia nuove sia ricordate (30), ma in entrambi i casi vi sono, per così dire, raccolte (31), giacché «tutte le parole effuse dalla sua essenza divina fluiscono nella parola che la mente assume come Persona distinta, al modo stesso in cui la memoria riversa nei poteri dell' anima il tesoro delle immagini» (32).
Un'altra seppure superficiale distinzione di genere tra le idee può essere quella tra idee naturali, come quando si riflette sulla «forma-rosa» (33) o sull'immagine di Conrad (34), e idee artificiali, che sorgono «teoreticamente, come la casa in legno e in pietra progettata nell'intelletto pratico dell'architetto, e realizzata il più vicino possibile al suo ideale» (35); entrambi i generi appartengono alla «facoltà pratica», sia come «idea dell'opera» (36) che si intende concretamente compiere, sia come idea stabile nella mente e che costituisce oggetto di comprensione e mezzo a priori di comunicazione razionale. Entrambi questi generi di idee sono parimenti invenzione (anuvitta), una scoperta fatta nella «somma di tutte le forme concepite dall'uomo e sussistenti in Dio, delle quali non ho possesso, in quanto non dispongo neppure dell'idea di proprietà» (37); il che è da noi inconsciamente sottoscritto ogniqualvolta diciamo che una idea è venuta a noi o che l'abbiamo scoperta (eureka), mai però che l'abbiamo noi stessi prodotta. Nella migliore delle ipotesi ci siamo predisposti a riceverla, svuotando la nostra coscienza di ogni altra immagine creata o emozione effimera e accogliendo temporaneamente il segno o l'impronta di quella sola. Pertanto l'immagine è nell'artista, e non lui in essa; essa appartiene a colui di cui è l'immagine, non a colui che la accoglie: «L'immagine, in quanto è immagine, non riceve nulla di sé dal soggetto in cui è, ma riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine» (38). Quando leggiamo: «Come l'artista, ispirato dalla sua arte, scolpisce nel legno, dipinge o affresca» (39) «arte» significa l'idea del tema come a lui si presenta. Nell'oggetto, nella mente dell'artista e nel pezzo scolpito, l'immagine è la stessa, sebbene il risultato dipenda dalle obiettive capacità e non attinga mai il massimo della sua perfezione. Un'immagine scolpita non è inventata dall'artista ma è latente nel mezzo, per l'istinto alla forma proprio della materia; ad esempio, «quando un artista realizza una statua in legno o in pietra, non vi immette l'immagine, piuttosto elimina la parte di legno che ne celava la forma. Invece che aggiungere al legno, sottrae: assottigliando, pareggiando, fino a che non emerge quanto era nascosto» (40), in analogia con l'immagine di Dio, onnipresente al fondo dell'anima sebbene impedita e nascosta (41).
Pertanto, le idee di Dio e dell'uomo - i tipi - non sono le idee platoniche, esterne all'intelletto (nella essenza, non v'è immagine o somiglianza, ma solo identità, samata), immutabili e indeterminate, ma modelli attivi, forze, principi d'azione e di divenire, viventi e determinati: «Chiamare albero un albero non è definirlo, perché tutte le specie vi sono confuse» (42); né esistono due creature identiche, ché «ogni creatura è intrinsecamente una negazione, in quanto ciascuna nega di essere l'altra» (43). Il numero delle idee è pari a quello delle cose che sono state o possono essere nel tempo; «i tipi sono tanti quanti i possibili esemplari della specie nei vari gradi della natura» (44); il loro numero non può essere maggiore, perché Dio non opera scelte, né lascia nulla di non fatto; ciò che egli pensa è, e ciò che è egli lo pensa, la sua creazione è diretta e simultanea. «Ogni creatura emana dalla sua forma appropriata» (45) la nostra idea di processo e successione nel tempo è solo «dovuta alla grossolanità dei nostri sensi» (46); dal punto di vista di Dio, tutte le idee sono note immediatamente nella loro perfezione e unicità di forma; dal nostro punto di vista temporale, le idee sono libere, soggette al divenire variabile o, diremmo oggi, a evoluzione. Sotto ogni punto di vista, le idee o forme (nama) sono principi «viventi» e non puramente esistenti come modelli fissi e destinati a durare: non sono idee di forme statiche ma di atti (47).
«Un'icona in pietra o dipinta, in quanto pura forma, cioè indipendentemente dal mezzo sensibile, è la stessa forma di colui di cui è forma» (48). Sicché, in generale, l'artista è presente nell'opera unicamente con la sua perizia: «Dipingendo un buon ritratto, l'artista vi rivela la propria arte, non se stesso» (49). Se però il pittore ritrae se stesso - tale è il caso di Dio -, allora sono riflesse nel quadro sia la sua perizia sia la sua immagine, ma questa riflette la conoscenza che egli ha di se stesso, non il suo Sé reale: «Ciò fa onore al pittore che, ritraendo se stesso, incarna nel quadro il concetto più alto della sua arte, facendo di esso l'immagine di se stesso. La somiglianza in un ritratto loda l'autore senza bisogno di parole» (50). «Se dipingo su una parete la mia immagine, chi la vede non vede me; ma chiunque veda me, riconosce la mia immagine, e non essa soltanto ma mio figlio. Se realmente conosco la mia anima, chiunque vede il frutto del mio concepimento riconosce in esso mio figlio, poiché in esso partecipo la mia energia e la mia natura: questo, appunto, si verifica in Dio. Nell'atto di comprendersi perfettamente, il Padre mira la propria immagine, ossia il Figlio» (51). (Sia il ritratto sia l'uomo fisico sono il concetto che l'uomo ha di sé, «uguali» nella forma, nonostante la diversità tra la carne e la materia pittorica.)
A proposito dell'interpretazione del difficile passo del Genesi, 1, 26: «Facciamo l'uomo a immagine ed a somiglianza nostra», Eckhart afferma: «L'opera proviene dal Sé esterno e interiore dell'uomo, ma il suo più recondito Sé non vi ha parte. Quando un uomo crea, egli esterna il suo Sé più recondito» (52); in questo passo sembra esservi una contraddizione. Il senso della prima affermazione è chiaro: in quanto sostanza dotata di una forma determinata l'opera proviene dalle mani dell'uomo che plasmano la materia, ma in quanto forma essa proviene dall'idea specifica agente nel suo intelletto, la cui opera non consiste nel plasmare la materia bensi nello scegliere il meglio possibile secondo il suo temperamento personale. Poiché l'opera concreta è rèalizzata dal corpo fisico dell'uomo, è del tutto naturale che in essa resti impressa una traccia della sua fisionomia, al modo in cui la scure, «che realizza il fine desiderato dello scultore» (53), lascia nel legno la sua impronta riconoscibile (54). Cosi, dunque, nel tocco e nello stile l'opera è in qualche modo rivelatrice dell'uomo, cioè degli aspetti accidentali del suo essere. Sicché, secondo l'analogia di Eckhart, anche il Sé più recondito dell'uomo «si esterna» cosi come «quando Dio creò l'uomo, l'essenza più recondita della Divinità ebbe parte nella creazione» (55), seppure «le opere divine non racchiudano nulla di Dio, ragion per cui non possono svelarlo» (56). O ancora: «La forma è una rivelazione dell'essenza» (57), in cui non v'è immagine o somiglianza; l'essenza è in tutte le cose e, benché «immobile», «muove ciò che è mobile, tali sono le creature» (58). Come la Divinità in Dio, cosi il Sé recondito è nell'artista, perché sia l'una che l'altro sono compresenti e unificate nell'opera, non però in maniera operativa o intelligibile. Nell'opera stessa di Eckhart ravvisiamo un uomo che ha il dominio delle sue idee ma che lotta con il mezzo a disposizione, l'«intrattabile» (59) e incolta parlata tedesca del suo tempo: ma nelle idee, seppure espresse in modo tanto vigoroso, «non c'è nulla dell'uomo» quale egli è in Dio. Se l'uomo esistesse nella sua opera come Dio nella creazione, dovrebbe esistervi come vita immanente, e l'opera compiuta dovrebbe essere viva e dotata di libera volontà. Se talvolta diciamo che un'opera vive, è solo per metafora, per una sorta di animismo che proietta le nostre vive reazioni nella cosa com' è in se. L'interdizione islamica dell'iconografia vuole appunto sottolineare che l'opera dell'uomo non ha vita propria. I maestri musulmani definiscono infatti blasfema l'imitazione delle forme viventi, in quanto l'artista produrrebbe una pseudo - creazione, quasi contraffacendo Dio, il quale è l'unico a conferire la vita. Tuttavia, abbiamo visto e più avanti dimostreremo che l'arte cristiana non è un'imitazione delle forme naturali né una mera fonte di piacevoli sensazioni, ma un modo di parlare di Dio e della natura: essa non offende la dignità di Dio più di quanto non lo si faccia abitualmente nominandolo, contemplandolo o assaporandolo attraverso attributi e altre immagini (60), nella piena consapevolezza che «nulla che corrisponda al vero si può dire di Dio» (61), che «Dio è senza nome» (62), che «non c'è modo di conoscerlo per somiglianza» (63) (egli è nirabhasa, amurta), che «una macchia nera che volesse rappresentare il più alto angelo sarebbe un ritratto molto più fedele di quello che volesse rappresentare Dio nella forma del più alto angelo, perché in quest'ultimo caso la dissomiglianza sarebbe totale» (64). E tuttavia è lecito ritenere che non vi è nulla «di più giovevole all' anima del penetrare la scienza della santa e una Trinità» (65); ovviamente ricorrendo al nome e alla forma, poiché «è consentito usare i nomi con cui i suoi santi lo hanno invocato» (66). Per san Tommaso «non è contrario alla verità l'uso della Scrittura di descrivere le cose spirituali per mezzo di figure desunte dalle cose sensibili; poiché tali figure non vengono usate allo scopo di far credere che le cose spirituali sono sensibili, ma solo per farci comprendere certe proprietà delle cose spirituali per mezzo di figure sensibili, che hanno con quelle una qualche somiglianza» (67). Se un atteggiamento iconoclastico sembra trapelare da alcuni passi quali: «Essi tacquero per timore di mentire» (68); «Chiunque si accontenta di ciò che si può esprimere in parole - Dio, il cielo, sono parole - è giustamente ritenuto un miscredente» (69) si tratta tuttavia di una sorta di ascetismo e di rinuncia che si conviene solo a coloro che godono di una diretta visione di Dio, e che hanno acquisito il diritto di sostenere la vanità di ogni Scrittura; in tutti gli altri casi, negare che l'anima possa esprimere i propri poteri in opere esterne come mezzi di edificazione e illuminazione, non è in alcun modo scusabile. l'opera umana non abbia vita propria, colui che la esegue è analogo al «Sommo Artista» (70), al Divino Architetto, al Supremo Creatore (Vishvakarma). «Consideriamo il caso di un artista. Quando egli realizza un' opera, la sua arte rimane pur sempre in lui: le arti sono l'artista nell' artista» (cioè nell'uomo così chiamato), al modo in cui «le cose fluirono nei limiti del tempo pur permanendo nell'eterno», là dove sono «Dio in Dio» (71). «L'idea dell'opera esiste nell'intelletto pratico del creatore come oggetto della sua comprensione, grazie alla quale gli è dato esprimere l'idea cui in concreto conformare l'opera» (72). Il che significa che l'opera esiste nella mente dell'artista non come un modo di comprensione, ma come una realtà già nota direttamente, come è vero che «la lettera dell'alfabeto che io scrivo è identica all'immagine che la mia mente ha della lettera, non alla mente stessa» (73). Ogni minimo particolare nell'opera corrisponderà ad analoghi dettagli di forma nella mente dell'artista: «Nessun architetto contiene in testa il progetto globale di una casa, senza i progetti di ogni suo particolare» (74).
Ancora: «La forma, l'idea o l'aspetto di una cosa, per esempio di una rosa, è presente alla mia coscienza e deve esserlo per due motivi. Il primo è che in base all' aspetto della sua forma mentale (jnana-sattva-rupa) posso dipingere la rosa in concreto, dal che deduco esservi nella mia mente un'immagine della forma-rosa. Il secondo motivo è che a partire dall'idea soggettiva di rosa mi è dato riconoscere la rosa reale, anche se in realtà non la imito (ossia, non la riproduco in pittura). Così come posso avere in mente l'idea di una casa, pur non costruendola» (75). «Per plasmare un vaso, l'artigiano prende un pugno di argilla; tale è il mezzo su cui egli opera. La forma conferita al vaso è nella sua mente, ed è più nobile della materia utilizzata» (76). Per quanto poi riguarda il modo di esistere di tale forma nella mente dell'artista: «Un altro potere dell'anima è quello grazie al quale essa pensa (dhi-dhyai). Questo potere è in grado di raffigurarsi cose che non sono presenti, tanto che riesco a vederle come le vedrebbero i miei occhi, e perfino meglio. Se mi è possibile vedere una rosa d'inverno, quando non fioriscono rose (77), in virtù dello stesso potere l'anima produce (akarshati) cose traendole dal non-esistente (hrdaya-ảkảsha), al modo in cui Dio crea dal nulla (kha= xàόs)» (78). In ogni caso, «per essere giustamente realizzata, una cosa deve procedere dall'interno, mossa dalla propria forma; dall'interno all'esterno, non viceversa» (79).
In altre parole, come «l'anima è la forma del corpo», così nell'artista l'arte è la forma dell'opera: «Il taglio del legno proviene dalla sega; ma ciò che, a lavoro finito, assume la forma di un letto proviene dal progetto» (presente nella mente dell'artista); «nella sega o nell'ascia non vi è attualmente la forma del letto, ma l'impulso a una tale forma» (80); e ancora san Tommaso, citando Avicenna: «Tutte le forme nel regno della materia procedono dalla mente». Il sorgere di un'immagine proviene non da un atto di volontà, umana o divina, ma di attenzione (dharaha), quando la volontà è in stato di quiete; il semplice possesso di immagini non ha nulla di meritorio in sé (81), dato che l'immagine «riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine, ed è un prodotto naturale ... anteriore alla volontà, la quale segue all'immagine» (82). Il processo estetico che si verifica quando parlo è il seguente: qualcosa «zampilla in me, poi diventa un'idea sulla quale rifletto, quindi la esprimo» (83); o ancora: «Quando la mia mente concepisce una parola, essa è dapprima sottile e intangibile; diventa una vera parola non appena prende forma nel pensiero; e quando, infine, la mia bocca la pronuncia ad alta voce, non è che l'espressione esteriore di una parola interiore» (84); «La mente vede e formula, la volontà vuole, la memoria saldamente conserva» (85). Circa il ristare dell'intenzione, o il soffermarsi sull'idea: «Il mio desiderio di oggi è il mio scopo di domani, è l'idea di ciò che è mantenuto desto (sthita) dal mio effettivo pensarlo (vibhavayati), così come è detto: «Si compiono le opere di Dio» (86). Circa l'opera, leggiamo: «Opera e divenire sono tutt'uno. Quando il costruttore si arresta, anche la casa cessa di farsi. Se fermi la scure, arresti la crescita» (87). «L'uomo ha bisogno di molti strumenti per compiere le sue opere esterne; ed è necessaria una grande preparazione per realizzarle al modo in cui le ha immaginate» (88); la mente che investiga «può l'pendere un anno o forse più in ricerche su fenomeni della natura, per scoprire ciò che è, ma le occorre altrettanto tempo per scoprire ciò che non è» (89); invece «alle creature angeliche ... per l'opera loro occorrono meno mezzi e un minor numero di immagini» (90).
Come abbiamo visto, il processo estetico si svolge in tre fasi: l'idea nasce in germe, prende forma dinanzi all''occhio della mente, si esprime esteriormente nell'opera (91). Il primo atto è necessariamente l'effetto dell'attenzione orientata su un dato oggetto: l'artista è incaricato non di dipingere in genere, ma di dipingere qualcosa di specifico, diciamo un fiore, l'immagine di un angelo (deva) o di un altro oggetto. Eckhart ricorre all'analogia dell'ospite degli angeli, e benché non faccia esplicito riferimento alla fase pratica del processo estetico, il passaggio è facile. «Una volta un discepolo interrogò il maestro sulla gerarchia angelica. La risposta fu: Va' e immergiti nella contemplazione interiore fino a quando non vedrai: dònati alla ricerca totalmente, rifiuta di vedere tutto quanto non sarai riuscito a penetrare da te, e poi guarda! Ti sembrerà in principio di trovarti assieme agli angeli e, avendo rinunciato alla tua individualità immergendo ti nel loro essere collettivo (92), ti parrà di essere divenuto tutt'uno con l'angelica schiera» (93). Fin qui la descrizione del processo è identica a quella del dhyana-yoga seguito dall'artefice indiano; basterebbe un riferimento alla riproduzione concreta delle forme angeliche, perché al passo citato si possa aggiungere un dyatva kuryat, ossia: «Dopo aver contemplato ed esserti abbandonato alla forma che ti si è presentata, inizia l'opera». E supponendo che il dipinto sia destinato a occupare un dato spazio o che il suo schema compositivo preveda che gli angeli siano sistemati in una determinata relazione con altre figure, tutto questo, poiché costituisce una parte dell'oggetto prescritto, dovrebbe avere il suo prototipo nella compiuta e completa immagine mentale. Per quanto riguarda il dipinto concreto, nell'ipotesi che sia eseguito, esso non è altro che un accostamento di colori, né il mio occhio apprenderebbe nulla sugli angeli dalla sensazione che gli procura la riflessione della luce: solo io posso avere un'idea degli angeli, non nella mia sensazione o per suo tramite ma attraverso la loro immagine, la quale, identica a quella presente nella mente dell'artista, ora si è trasferita dal dipinto nella mia mente, giacché «l'udire e il vedere fisici si formano nella mente» (94), e «se la mia anima conosce un angelo, ciò accade attraverso certi mezzi e dentro un'immagine, un'immagine priva di forma, non del genere di quelle che percepisco qui» (95). «Prima che il mio occhio veda materialmente il dipinto, esso è dovuto passare attraverso il filtro dell' aria e di una forma più sottile che la mia immaginazione concepisce e la mia comprensione fa propria» (96).
Pertanto il modello dell'artista è sempre un'immagine mentale. L'occhio (mảmsa-kakshu) non è che uno specchio: si può dire che esso vede gli oggetti, una rosa, una pietra, o un'opera d'arte, in virtù di una certa loro sostanziale affinità (97), «come il simile va con il simile» (98). Ma se affermo che io vedo, è solo per modo di dire, perché «se lo specchio cade l'immagine non c'è più» (99). «lo vedo» solo indirettamente e per mezzo dell'occhio, il quale mi serve in quanto esiste nell'anima una corrispondente facoltà ad esso connessa e che è, peraltro, del tutto lontana dalla materia (100); «Sottrai la mente e l'occhio resterà aperto senza scopo» (101). Il mio occhio vede piatto ma io vedo in rilievo; tale rilievo può non essere un fatto materiale, ma un'idea di relazione che rimarrebbe valida per me anche qualora il mondo fisico esterno fosse del tutto irreale. La forma interiormente conosciuta (antarjneya-rupa), relativamente immateriale, è il mezzo per cui riconosco ciò che il mio occhio vede, il solo mezzo attraverso il quale posso aspirare a comprendere ciò che l'occhio riferisce, e anche il mezzo che mi consente di parlarne ad altri. «Non vedo la mano, la pietra, in sé; vedo l'immagine della pietra, ma non la vedo in una seconda immagine o attraverso un altro mezzo; la vedo senza mezzo e senza immagine. È questa immagine in sé, il mezzo: immagine priva di forma, simile al moto senza movimento sebbene sia causa di moto, e simile alla grandezza che non ha grandezza per quanto stia a fondamento di ogni grandezza» (102). «L'anima conosce solo in immagine» (103) non conosce le cose come sono in sé, ma idealmente, alla fonte, come sono in Dio. Non potrò mai vedere ciò che i miei occhi vedono (sensibilmente) né udire ciò che ode il mio orecchio in termini di vibrazione, posso solo conoscere razionalmente attraverso l'immagine. «Vediamo il sole attraverso il riflesso della sua luce su un albero o su altri oggetti, ma non lo percepiamo com'è in se stesso» (104) altro che nell'idea che ne abbiamo. Questo punto di vista non è affatto peregrino ma costituisce un assioma della scienza moderna, il cui contatto con la materia avviene solo attraverso formule matematiche, non per via di sensazione.
Si deve dunque dedurre che, dal punto di vista scolastico, un'arte naturalistica di pura visualità (capace cioè di produrre sensazioni il più possibile identiche a quelle evocate dal suo modello visibile), destinata alla sola esperienza visiva, deve essere considerata non solo irreligiosa e idolatrica (l'idolatria è appunto l'amore alle creature in se stesse) ma anche irrazionale e vaga. Infatti, la sola cosa che può veracemente rassomigliare al proprio modello in natura è il suo riflesso nello specchio dell'occhio, ma questo riflettersi è una sensazione, non una comprensione (l'occhio non dispone di una facoltà autonoma di comprensione ed è incomprensibile alla mente: un caso di dissimile rispetto a dissimile). Inoltre l'immagine concreta, l'opera d'arte, è commisurabile al modello in natura solo in quanto sostanza determinata, ma resta fondamentalmente incommensurabile per la intrinseca differenza tra la rappresentazione e il modello vivente, nella misura in cui sono entrambe una essenza, la quale non può essere misurata. Natura e arte sono correlate (sadrhsya) solo nell'idea, altrimenti irreconciliabili.
La riconoscibilità del modello in natura e dell'immagine concreta non si basa affatto su una supposta somiglianza tra il primo e la seconda, ma dipende dalla forma immateriale o immagine ideale (nama) presente nell'oggetto, nell''artista, nell'opera, e infine in colui che guarda, immagine ideale che viene tradotta al massimo grado possibile di visibilità nell'immagine materiale (rupa), seppure questa sia diversa per natura. Se fosse possibile realizzare cose uguali a quelle in natura, cioè dotate di movimento autonomo - cosa inconcepibile o, secondo i musulmani, proibita -, non vi sarebbe arte ma solo natura o, nella migliore delle ipotesi, pura magia. O se fosse dato all'artista di raggiungere la perfezione - il che può essere virtualmente concepibile ma impossibile nella dimensione del tempo -, egli diverrebbe uno con Dio, sarebbe l'eterno compartecipe della sua creazione, gli oggetti naturali sarebbero la sua immagine nel tempo come lo sono di Dio, e non esisterebbe altro che l'eterno quadro cosmico come è visto da Dio. Né vi sarebbero occasioni per l'arte, perché il suo fine sarebbe già stato raggiunto. Nel frattempo, cioè nella nostra dimensione attuale, un'arte realizzata nel modo più conforme possibile all'occhio (105) e solo per gli occhi non può essere considerata altro che una sovrapposizione di illusione a illusione, un volonteroso scambiate una corda per un serpente, secondo la metafora indiana analoga a quella di Eckhart della retta che nell'acqua si riflette come linea curva (106).
In che senso l'arte è necessariamente convenzionale o razionale è da Eckhart così spiegato: «Ciò che l'occhio vede deve essere trasmesso all'anima attraverso un mezzo, tramite immagini» (107). Se il pittore provetto «può dare la vita a Conrad» (108), che cosa Conrad dà alla vita? Non si tratta di produrre un'immagine che possa essere scambiata per l'uomo in carne e ossa, bensì di riprodurre «il suo volto autentico» (109) ossia, per quanto è possibile al pittore, il suo «sembiante fedele» (110) così come è riflesso nello specchio dell'essenza di Dio, «l'elemento esemplare di Conrad che è alla pari con Dio»; è «un fatto di aderenza di forma» (111). «Trarrà gioia dalle cose come sono in sé, diversamente dall'intelletto, che le gusta come sono in se stesso ... Un occhio reale è cosa migliore di un occhio dipinto. E tuttavia insisto che l'intelletto è superiore alla volontà» (112). Eckhart intende che, in una certa misura, la mente coglie la realtà al modo di Dio, sub specie aeternitatis, (113) alla fonte, in modo imparziale; infatti, «tutte le creature sono presenti alla mia mente in modo intellettivo. lo soltanto le dispongo a ritornare a Dio ... io soltanto le separo dal loro significato e, accogliendole nella mente, le rendo uno con me» (114); «L'intelletto (manas, prajna) innalza tutte le cose a Dio» (115). «Non è requie negli esseri fin quando non ottengano natura umana, là dove essi risalgono alla loro forma d'origine, Dio» (116), poiché l'umana natura «è estranea al tempo» (117). «La cosa più banale, un fiore, se percepita in Dio come Lui la scorge {ossia in ogni singolo e vero aspetto, della cosa e di Dio: svarupa), sarebbe cosa più perfetta dello stesso universo» (118). È con l'occhio dell'artista, avvezzo a osservare con la mente e secondo la forma, che l'uomo vede le cose nella loro perfezione e giovinezza eterna, «nella misura in cui il ricettacolo lo consente» (119), cioè secondo il suo temperamento personale.
Il naturalismo nell' arte non ha nulla a che vedere con la cosa in sé. Un'immagine di Dio può essere ripugnante nella sua denotazione materiale; un fiore dipinto può non avere alcuna rassomiglianza con alcunché di terreno. Eckhart non si attiene ad alcuna formula che contrassegni l'arte sacra o profana rispetto al soggetto. «Colui che, cercando Dio sotto forme stabilite, si ferma alla forma, non può incontrare Dio nascosto in quella forma» (120) e costui è per certo un idolatra. I soggetti sacri sono immagini di Dio non più valide di quanto lo siano le forme naturali: «Si parla di otto cieli e di nove schiere angeliche ... devi sapere che espressioni evocatrici del genere non sono che dei modi di allettamento verso Dio» (121); infatti, «come dice Agostino, "Ogni scrittura è vana"» (122). Eckhart non tralascia di ribadire che tutti i contenuti (non ogni intenzione) sono Dio e che si dovrebbe imparare a vederlo ovunque e dappertutto: «Colui cui Dio è caro in una Cosa piuttosto che in un'altra, quell'uomo è un barbaro, un primitivo, un bambino» (123); «trovare Dio per una via piuttosto che per un'altra ... non è questo il modo migliore», «dovremmo saper godere di Lui in ogni foggia e in ogni cosa» (124) «qualsiasi cosa sia» (125); «sono giunto come la fragranza di un fiore» (126); «ogni pulce come specchio di Dio è più nobile del più eccelso degli angeli come specchio di sé» (127). Tale è il grado di imparzialità raggiunto dall'arte: quell'angelico punto di vista (adhidaivata) donde tutto è amato d'identico amore, «però che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è da odiare» (128).
Se l'atteggiamento dell'artista appare, da quanto sopra, intellettuale e razionale, l'opera d'arte è in se stessa, per la stessa impronta che l'artista le conferisce in quanto sua «creatura», anche più convenzionale di quanto non lo sia rispetto all'oggetto; e va pertanto interpretata e compresa non come l'immagine riflessa del mondo qual è in sé, ma come un simbolo o un insieme di simboli razionalmente significanti e dotati di un più profondo contenuto, intesi non soltanto come mezzi di denotazione ma di comunicazione e di visione. Questo è il motivo per cui, sia rispetto alle Scritture e ai miti in genere, sia a proposito di qualsiasi forma di arte, «si dice che il loro contenuto materiale deve essere trasposto su un piano più alto ... tutte le storie che ne vengono tratte possiedono un significato occulto ed esoterico. La nostra comprensione di quel contenuto è tanto lontana dalla sua verità e dal suo modo di essere in Dio, da non essere più una comprensione» (129); nell'opera d'arte c'è da capire qualcos'altro; «quando tenta di penetrarla, è veramente saggio chi troverà che il suo significato va molto oltre la sua capacità di comprensione, e che tanto ancora resta da scoprire» (130). L'arte è a un tempo denotazione, connotazione e allusione; affermazione, implicazione e contenuto; letterale, allegorica e anagogica.
Se dunque l'arte è per natura razionale, perché l'opera d'arte non è immediatamente comprensibile? Perché l'artista vede solo quel tanto dell'immagine esatta che i suoi poteri gli permettono; le immagini che l'uomo coglie non sono che una ristretta selezione di una somma inesauribile di possibilità. «Le parole traggono il loro potere dalla Parola originaria» (131), e tali selezioni variano a seconda delle epoche, delle razze e, sebbene in minor grado, degli individui. Secondo una tesi ricorrente del pensiero scolastico, la conoscenza delle cose è relativa al modo soggettivo del conoscere; pertanto: «Non tutte le anime possiedono la stessa attitudine ... né la visione ... è parimenti gustata da tutti» (132). «L'arte tende, tra le cose temporali, a scegliere il meglio» (133), ossia ciò che è considerato essenziale da ogni punto di vista, che può essere il tuo, il mio, o quello invalso nel primo o tredicesimo secolo, o in qualsiasi altro ambiente o cultura. Ecco perché nell' arte, anche quando si è trattato uno stesso soggetto o «imitato» identici aspetti della natura, troviamo un'infinita varietà di trattamento che ha determinato quelli che chiamiamo gli stili. Le differenze nel linguaggio parlato sono l'esempio più ovvio di questo fenomeno; ma si inganna di molto chi ritiene che ogni arte costituisca un linguaggio universale o che il linguaggio di ogni arte sia per natura onomatopeico. La varietà degli stili e ciò che è stato spesso definito il progresso o la decadenza nell'arte, ma che altro non è che l'avvicendarsi storico degli stili, non hanno nulla in comune con l'alterna e sempre assai limitata attitudine dell'uomo alla imitazione della natura. Gli stili sono idiomi di conoscenza e di comunicazione. Essi assolvono alla comunicazione nella misura in cui e fino a quando vengono accettati e compresi per convenzione (samketa); in un altro luogo o in un diverso periodo, diventa indispensabile impararne il linguaggio per decifrare l'arte, il che richiede «diligenza e pazienza», «come uno che impari a scrivere» (134) o al modo in cui «il nominare richiede l'uso del discernimento» (135).
Abbiamo così intuito che stile e idioma rappresentano una modalità particolare o parziale di visione. I caratteri di tale modalità (lakshana) dipendono dal rapporto tra l'artista come individuo e il suo tema (136); poiché questo rapporto è irripetibile e rispecchia i poteri e i limiti dell'individuo stesso, la struttura del modello presente nella sua mente può dirsi sua. Gli aspetti accidentali dell'essere che specificano la sua individualità possono infatti ritenersi propri dell'uomo che egli impersona: «I miei sguardi non sono la mia natura ma i suoi accidenti» (137); «gli accidenti variano» (138). In questo senso ogni artista imprime nell'opera qualcosa di sé: «Supponendo che Dio abbia chiesto a un angelo di prestarsi alla creazione dell'anima, deve aver impresso nell'anima qualcosa dell'angelo, perché non accade mai che l'artista direttamente dipinga o scolpisca una figura, o scriva direttamente le lettere dell'alfabeto, piuttosto copia i modelli presenti nella sua mente» (139) non quelli esistenti nella mente universale, perché l'intelletto individuale «è assolutamente inadeguato ad essa» (140). Lo stile non si identifica necessariamente con la convenzione, sebbene ogni stile e ogni forma d'arte siano convenzionali o, secondo il linguaggio di Eckhart, «razionali»: lo stile è una classe particolare di convenzione, distinta da altre. Se dunque è vero che lo stile è l'uomo, ciò non significa che sia una virtù in sé, o per l'uomo un'occasione di vanto. Tocco e stile sono gli accidenti dell'arte. Secondo Chuang Tzu, i limiti delle cose sono appunto legati alla loro natura di cose. Ma è nella misura in cui l'arte trascende lo stile che è stimata universale: Bach supera Beethoven. Dio però non ha stile, il suo «temperamento è l'essere» (141).
L'uomo e Dio sono simili nell'intelletto, che Eckhart ritiene il vertice, il più alto potere dell' anima per il cui tramite questa prende coscienza di Dio, ma sono del tutto dissimili nella durata dell'intenzione (kratu) e nell'opera (karma), giacché l'uomo è condizionato dal tempo e dalla volontà. Mentre nella mente dell'uomo le idee vivono solo nella durata, anche se questa coincide con l'intera sua vita (142), in Dio le creature hanno necessariamente vita eterna, seppure, per avere vita propria, debbano nascere in un dato momento (143). Le cause del divenire, rispetto alla causa prima, sono poi caratterizzate dal fatto che «il loro essere nelle cose decade non appena queste attingono, venendo al mondo, una vita propria, così come, non appena la casa è eretta, non ha più bisogno del suo costruttore, anche perché la sua fisicità non dipende soltanto da lui ma dai materiali impiegati che quegli trae dalla natura. Dio, invece, conferendo alla creatura tutta la sua esistenza, qualora la abbandonasse a se stessa, questa perderebbe vita all'istante» (144) «come un quadro che, dipinto su una tela, poi si cancella» (145); non diversamente «Agostino osserva che, nel costruire la casa, l'architetto mette a frutto la sua arte, e anche se la casa crollasse, non così è dell'arte, che eternamente vive nella sua anima» (146).
Riguardo al «sostegno che Dio offre alle creature per mantenerle in essere» (147) Eckhart ricorre all' analogia della madre (i figli concepiti e procreati riflettono in se stessi entrambe le creazioni di Dio e dell'uomo); e analogamente, come Dio si prende materna cura del suo creato, l'uomo veglia, a sua volta, sulle cose che crea per preservarle nel tempo. L'intera opera creatrice, conservatrice e dissolvitrice dell'uomo è l'analogia temporale del simultaneo intervento creatore, conservatore e dissolutore di Dio (srshti, sthiti, laya). Eppure «colà non esiste alcun agire» (148); «se, nel suo lavoro, il costruttore fosse perfetto, non dovrebbe ricorrere all'uso di materiali; concepire la casa e costruirla sarebbero tutt'uno», così come avviene «per le opere di Dio che, non appena concepite, esistono» (149); o ancora: «Colui che costruisce una casa, la edifica dapprima nella mente, e quando la sua volontà l'abbia sufficientemente padroneggiata, a parte l'impiego dei materiali, la sola differenza tra il costruttore e la casa sarà quella che corre tra il concepente e ciò che è istantaneamente concepito ... (come) accade in Dio ... unica Persona, in cui il promanante (abhisrshti) e il promanato (abhisarga) non sono distinti» (150).
Nell'uomo come in Dio, l'«arte» (intuizione-espressione) è e rimane interamente nell'artista; tuttavia, «non pensare che Dio si comporti come l'artigiano, il quale sceglie a suo arbitrio di fare o non fare. Non cos1 Dio; se tu sei pronto, egli non può agire insufflando su di te, come necessariamente il sole scotta quando l'aria è tersa» (151). La «disponibilità» è altrimenti espressa nella tensione «insaziabile alla forma» (152) propria della materia; parimenti, Dio «deve agire, volente o nolente» (153), così vuole la sua natura, senza un perché. Questa necessità diventa nell'uomo la cosiddetta gratuità dell'arte: «L'uomo dovrebbe produrre senza motivo, né per Dio né per la sua gloria, né per alcun altro scopo a sé estraneo, ma in nome di ciò che è il suo vero essere spirituale, la sua autentica vita interiore» (154); «Non dare alla tua opera alcun altro scopo» (155) «Opera come se nessuno fosse mai esistito o venuto sulla terra» (156) «Sia ogni felicità a quanti hanno udito questo sermone. E qualora non vi fosse stato alcuno, avrei parlato alla cassetta per i poveri» (157). «Dio e la sua volontà sono tutt'uno, sicché se sono un uomo e intendo agire in modo del tutto libero da volontà ... devo comportarmi in modo che le mie azioni siano estranee alla mia volontà ... nel compierle, devo rimettermi alla volontà di Dio» (158) «Prima di tutto, non avere attaccamento a nulla. Abbandònati, e lascia che Dio agisca per te» (159). C'è nell'artista un vago «riflesso» (160) del modo di operare di Dio, «spontaneamente ma non con volontà, naturalmente ma non per natura» (161) e ciò accade quando, raggiunta la piena padronanza della sua opera, divenuta una sorta di seconda natura (habitus, shlishtatva), egli non esita ma «procede con sicurezza, senza chiedersi, faccio bene o faccio male? Se il pittore dovesse programmare in anticipo ogni pennellata, non dipingerebbe più» (162); «l'opera del Cielo è più grande di quella dell'uomo che costruisce una casa» (163).
Espressioni come «ispirato dall' arte» (164) «il più vicino possibile al suo ideale» (165) «creare per creare», suonano a orecchi moderni come riscontri di una teoria dell'arte per l'arte. Ma ci sbagliamo. «Arte» e «ideale», nel senso qui inteso, lungi dall'avere la connotazione sentimentale odierna, stanno a indicare la piena comprensione del tema da parte dell'artista, e dunque la necessità dell'opera (krtartha); lavorare per «il vero intento della causa prima dell'opera» (166) non è lavorare per il gusto di produrre, come implica la concezione moderna dell'arte; «lavorare per lavorare» significa fare in libertà, senza scopo, agilmente (167). Lavorare conforme alla «idea dilettissima della propria arte» (168), ossia impegnandosi al massimo, è semplicemente onesto, e «per onesto, intendo fare del proprio meglio in questo istante» (169), avendo «buone ragioni di ritenere che nessun altro lavorerebbe altrettanto bene» (170), e adoperandosi per «la perfezione nelle opere temporali» (171); i «diligenti» sono infatti «coloro che non si lasciano intralciare da nulla nell'opera» (172).
L'utilità dell'opera e la sua causa prima coincidono, «lo scopo ultimo (prayojana) dell'opera coincide sempre con il vero intento (artha) della sua causa prima» (173); «quando l'architetto costruisce una casa, il suo primo proposito è il tetto (per l'implicita idea di rifugio), che è poi (effettivamente) il culmine della casa» (174). In quanto essere razionale, nessun uomo lavora senza scopo: «Per il costruttore che taglia legno e pietra perché vuole edificare una casa che lo protegga dall'afa estiva e dal gelo invernale, il primo e ultimo pensiero è la casa, e se non mirasse alla casa egli non taglierebbe una sola pietra né muoverebbe un dito» (175). L'utilità dell'opera consiste nel suo vantaggio fisico immediato, non nel suo scopo edificante. I requisiti di chi compie un'opera concreta sono: conoscenza del mondo, diligenza e acume, da non confondersi con l'intuizione, una effettiva competenza che tenga conto del mezzo (176): per esempio, «il celebrante (della messa) troppo raccolto in se stesso facilmente sbaglia. La via migliore è di concentrare la mente prima e dopo, ma sul momento deve celebrare speditamente e scioltamente» (177). Un'opera può essere intrapresa ad majorem gloriam Dei o per qualsiasi scopo più prossimo, ma il fine si può godere solo in vista o nel completamento dell'opera. Quando lavora, l'uomo non è che uno strumento, e come tale deve usare se stesso, preoccupandosi del fare e non del suo esito, totalmente assorto nell'opera come «il filosofo pagano che studiava matematica ... per seguire la sua arte ... troppo assorto per vedere o udire il suo nemico» (178). Lavorare dunque non per amore di abilità o per esibirla, ma per servire e glorificare la causa prima dell'opera, cioè il soggetto immaginato nella mente dell'artista «senza idea di possesso» (179). Ciò che può essere l'opera, non conta, ma è essenziale che l'artista vi si doni totalmente: «gli è tutto eguale ciò che ama» (180); lavora, comunque, per amore di Dio, perché la perfezione dell'opera sta «nel preparare tutte le creature a tornare a Dio» (181), là dove «si trovano naturalmente esemplate nell''essenza divina» (182). Tale atteggiamento non può che dare buon frutto, anche se il soggetto del quadro sia il ritratto del pittore, l'immagine di Dio in lui (183). Non è un artista onesto ma un borioso esibizionista colui che vuole stupire con la sua abilità: «Qualsiasi uomo retto si vergognerebbe se la gente dabbene ravvedesse in lui un tale intento» (184); data l'arte di cui dispone, e che è normale che pratichi, sia l'abilità sia l'acume sono sottintesi. Se, grazie alla sua perizia, gli accade di ottenere fama nel mondo, lo consideri un «dono di Dio» (185), non come un frutto dovutogli, e lavori «come se nessuno esistesse» (186). Lo stesso è per il salario: è indubbio che chi lavora deve essere compensato, ma se la sua «sollecitudine» va a tutto tranne che al bene dell'opera cui attende, costui non è più un lavoratore ma uno «schiavo e un mercenario» (187).
Dedicarsi nel mondo «a qualche utile occupazione» (188) non è ad alcun effetto un ostacolo al perfezionamento dell'uomo e, sebbene «pregare sia atto migliore che filare» (189), l'uomo deve saper rinunziare all'«estasi» per impegnarsi in qualsiasi attività che possa essergli richiesta come una forma di servizio (190); e anche ciò «che è imprescindibile per entrare in contatto con Dio è lavoro, vocazione, chiamata nel tempo, che non interferisce di un briciolo con l'eterna salvezza» (191). «Per essere nel giusto, deve accadere una di queste due cose: o l'uomo trova e impara a possedere Dio nelle sue opere, oppure cose e opere vanno abbandonate del tutto. Ma poiché nessuno in questa vita può non agire, l'uomo deve dunque imparare a trovare il suo Dio in tutte le cose» (192). Anche per il religioso «la vita attiva colma i vuoti della vita contemplativa», e «sono in grande difetto e sulla pista errata coloro che conducono vita contemplativa senza mai compiere azioni all'esterno»; «nessuno in questa vita può raggiungere lo stadio in cui sia dispensato dall'agire» (193); pertanto «opera in tutto» e «compi il tuo destino» (194). Ciò tanto più vale per chi «non sa nulla della verità dall'interno; se la cerca all'esterno, la troverà anche dentro» (195). In ogni caso, «lo scopo di Dio nell'unione (yoga) della contemplazione è la fecondità delle opere» (196).
L'artista gode naturalmente della sua opera, via via che l'immagine prende forma nella sua mente al modo in cui in Dio la visione di tutte le creature non è che l'immagine di sé in se stesso; questo piacere alla vista della materia colta nell' atto del suo prender forma è, per l'uomo impegnato nel lavoro, un'esperienza estetica. Ma la natura vera di tale esperienza può essere meglio valutata dal punto di vista dello spettatore, il quale vede l'opera non nel suo divenire ma nel suo risultato finale, come sottratta al tempo; giacché «nessuna azione è tanto perfetta da non intralciare la concentrazione. L'ascolto della messa consente il raccoglimento più di quanto lo procuri il celebrarla» (197). Cosa è dunque l'esperienza estetica o quell'evento definito da Eckhart concentrazione, contemplazione, illuminazione (avabhiisa), punto culminante della visione, estasi, quiete? Nella misura in cui è accessibile all'uomo come una voce (198), una pregustazione (199), o un subitaneo bagliore (200), essa è la visione del quadro cosmico come è visto da Dio, nell'atto del suo amare tutte le creature di identico amore, non considerandole rispetto alloro uso ma come l'immagine di sé in sé (201), ognuna partecipe in completezza della natura divina; lo sguardo di Dio è come di chi, scrutando in uno specchio (202), vede interamente tutte le cose indipendentemente dal tempo e dallo spazio, ognuna come se fosse l'unica, senza vagare dall'una all'altra (203), e senza bisogno di luce, ma contemplandole in quell'eterno fulgore creatore di immagini dove «a tutte le cose sensibili sovrasta il velo immoto dell'unità». Viste così, esse appaiono perfette, fresche, eternamente giovani (204): «Avere tutto ciò che,esistendo, è oggetto d'intenso desiderio e procura gioia; averlo subito, in toto, nell'anima indivisa in uno con Dio, cogliendolo nella sua perfezione, nel primo sbocciare alla radice della sua esistenza ... questo è felicità» (205), «uno stupore singolare» (206), «vissuto non nella mente né nella volontà, ... non un pensiero, ma un'estasi» (207), non dialetticamente ma come se si avesse tanto potere e conoscenza da fissare tutte le fasi del tempo in un eterno adesso (208) come è proprio della gioia di Dio (209).
Un altro modo di intendere l'esperienza estetica consiste nel paragonarla a uno spettacolo o a un gioco (lila) che si rappresenta in eterno di fronte a tutte le creature, dove attore e pubblico, gioco e giocatori si identificano, nella misura in cui la loro natura si esprime in trasparenza e allegrezza (210); oppure a un'azione concertata in Dio dove l'atto compiuto coincide con tutto l'esistere. Questa partecipazione alla visione che Dio ha di sé nella sua «opera» e che, nella misura in cui possiamo averne un «sentore», è quanto riteniamo un'esperienza estetica, è anche ciò che intendiamo per Bellezza rispetto alla mera gradevolezza e al gradimento, che sono condizionati dai loro opposti. Secondo Dionigi, la Bellezza è ordine e simmetria suprema. In questo senso, «la Divinità è la bellezza delle tre Persone» (211), «bellezza con cui neppure il sole è paragonabile» (212); «ogni Persona irradia sulle altre come su se stessa. Questa illuminazione è la perfezione della bellezza». «Tutte le cose tendono verso la loro finale perfezione» (213). Tanto si può dire della pura esperienza estetica raggiungibile da chiunque ne faccia il pegno dell'ultima perfezione e della perfetta felicità. È nella doppia veste di artista e discente che l'uomo prepara tutte le cose a ritornare a Dio, nella misura in cui apprende a vederle simbolicamente (parokshat) e non soltanto nella loro apparenza sensibile (pratyakshena). Tale è, dal punto di vista di Eckhart, il «significato» dell'arte. «Cioè nella misura in cui arrivo a comprenderla» (214).
L'anima dispone di due potenti facoltà, intelletto e volontà, che si esprimono nella visione e nell'amore e che possono creativamente esercitarsi all'esterno e interiormente (16). La via dell'uomo è quella in cui le cose esistono come immagini intelligibili e come mezzi di comprensione e comunicazione, sia concettualmente che nell'immaginazione. È in questa condizione che le cose sono colte nella loro incomprensibile molteplicità e devono essere realizzate in un'unità comprensibile; qui se ne apprendono gli usi e poi si impara a rinunciarvi: «Per trovare l'essenza autentica delle cose tutte le somiglianze vanno infrante, riconoscendo nell'immediato il remoto» (17); ma tale infrangersi e rinunciare è anche l'essenza dell'arte che, senza attaccamento ed in completo disinteresse, contempla il creato non nella sua apparenza ma nella sua realtà (18).
L'intelletto e la volontà si estrinsecano nella sfera delle varie professioni, quali quelle dell'artista, dello studioso, del sacerdote, e nella condotta, indipendentemente dalle capacità specifiche. L'artista non è un tipo particolare di uomo bensì ogni uomo è un tipo speciale di artista. Se le professioni («saper fare questo o quello») (20) corrispondono ad altrettante discipline, la condotta «essere con l'altro e aiutarlo» è un altro tipo di disciplina, comune a tutti. Ogni attività comporta una sequenza, che vorremmo chiamare estetica, e che va dalla posizione di un problema, alla sua esecuzione e soluzione. Indipendentemente dai mezzi a disposizione, chiunque agisce si comporta allo stesso modo: la sua volontà obbedisce all'intelletto, sia che debba costruire una casa o che studi matematica, assolva un dovere o compia una buona azione. La mentalità moderna ha sostituito a tale divisione del lavoro un sistema di differenziazione che separa gli uomini in caste. Coloro che ne hanno tratto più danno sono gli artisti professionisti e la gente comune. L'artista (volendolo ancora chiamare tale) è danneggiato dall'isolamento in cui opera e dall'alterigia che esso gli procura, nonché dalla evirazione della sua arte, ritenuta un'esperienza non più intellettuale ma di pura sensazione; d'altro canto, il lavoratore (al quale si nega ormai la qualifica di artista) subisce il danno di essere asservito a una produzione brutale, in una società che valuta la merce più degli uomini. Tutti indistintamente hanno perso da quando l'arte ha cessato di essere il modello di ogni attività per divenire un lusso, sì che la maggioranza degli uomini si è abituata a vivere forzatamente nello squallore e nel disordine, al punto da non esserne più consapevole. Gli unici che oggi sopravvivono come artisti, nel senso scolastico e gotico del termine, sono gli scienziati, i chirurghi, gli ingegneri, e le uniche botteghe operanti sono i laboratori scientifici.
Proprio perché la concezione estetica di Eckhart non è volutamente personale ma inserita in una scuola, essa detiene un valore speciale, perché fu quello indubbiamente lo stile in cui gli eruditi di Parigi e di Colonia disputarono sull'arte e sulle singole arti nei secoli dodicesimo e tredicesimo, nel momento di apogeo dell'arte cristiana. Quegli stessi uomini, nella loro capacità collettiva manifesta come Chiesa, prescrissero i temi dell' arte e i dettagli della sua iconografia; l'esecutore, talvolta un monaco addestrato, o più spesso un membro esperto di una corporazione artigiana, sapeva trarre dal repertorio della tradizione un nuovo elemento da acquisire alla forma, indipendentemente dalla scontata abilità professionale nel professare la sua arte. In tal modo, l'intelletto e la volontà lavoravano di concerto. L'intenzionalità di quest'arte - quel solo fattore che in essa è comune alla mente e al prodotto, e cioè non lo stile e tanto meno alcun manierismo soggettivo, ma proprio il suo parlare per immagini - è appunto ciò che dobbiamo penetrare se vogliamo rettamente comprendere l'arte cristiana. A volte mi domando se in noi c'è davvero tale volontà. Infatti, da un lato, ci sono alcuni storici dell' arte per i quali la forma che muove l'arte dall'interno è trascurabile, mentre contano solo gli avvenimenti, le circostanze di provenienza, l'influenza e i relativi problemi di attribuzione; tutte cose che l'artigiano medioevale trascurava assolutamente. Vi sono all' opposto coloro che sostengono che il godimento dell'opera d'arte, il quale per generale ammissione costituisce il suo valore ultimo (posto che si intenda «godimento» nel giusto senso, e questo è il vero problema, non un assioma, dell'estetica), non richieda alcuna previa disciplina, essendo un'estasi inintelligibile (il che si può accettare) che può essere comunicata (e questo è inammissibile) a quanti aspirino a una visione trascendente, i quali tuttavia sono fin troppo disposti a convincersi che lo specchio dell'universo è la facoltà intrinseca della vista. (Tale «disposizione» non è che «un artificio dell' anima quando indulga in confortevoli intuizioni del divino».) (21) Studiare l'arte da un punto di vista storico può non essere dannoso in sé, ma non è esercizio migliore della soddisfazione di una curiosità; apprezzarne le opere solo in termini di piacere della vista o dell'udito può non essere dannoso in sé «che un rumore fastidioso sia gradito all'orecchio quanto i dolci accenti di una lira è un'esperienza che non riuscirò mai a cogliere») (22), ma non è niente di più di una sensazione potenziata. Se si riducesse a questo, l'estetica non sarebbe altro che una discussione sul gusto, ed è quanto infatti ritengono gli psicologi sperimentali. Parlare di arte esclusivamente in termini di sensazione è un fare violenza al soggetto spirituale della conoscenza; estrarre dal pensiero di Eckhart una teoria del gusto (ruci) sarebbe un fare violenza alla sua unità. E se tuttavia mi sono azzardato a desumerne una teoria dell'arte, non l'ho fatto per puro esercizio dialettico, ma sia perché mi è sembrato necessario in vista di una interpretazione specifica dell'arte cristiana, sia perché la concezione scolastica rappresenta qualcosa di più di una grande scuola provinciale di pensiero; essa rappresenta un modo di pensare universale il quale, gettando una luce su teorie analoghe prevalse in Asia, dovrebbe servire agli studiosi occidentali come un mezzo di accostamento e di penetrazione dell'arte asiatica.
La dottrina concernente i tipi, le forme e le immagini è di importanza essenziale per una comprensione dei riferimenti di Eckhart all'arte. Più di rado compaiono nel suo lessico termini quali sembianza, somiglianza, simbolo, effigie, modello e prototipo. Tra questi, tipo e prototipo, modello, idea e ideale sono impiegati solo con riferimento a cose conosciute e viste intellettualmente (paroksha); gli altri, o nello stesso senso o con riferimento all'immagine materialmente rappresentata (pratyaksha).
a). Cosa si intende per immagine secondo i due sensi predetti? Un'immagine "è qualsiasi cosa conosciuta o concepita" (23) o qualsiasi cosa sia vista o concepita che realizzata. Il Figlio, ad esempio, è «la stessa immagine eterna ... del Padre, la sua forma immanente», e al tempo stesso «l'esatto esemplare, l'immagine perfetta del Padre suo» (24) in distinta Persona. In modo analogo, tutte le creature «nelle loro forme preesistenti in Dio sono eterne», e solo il loro materializzarsi corporeo, «quando la natura opera nel tempo e nello spazio» (25), è soggetto a nascita, come per opera delle mani di Dio: «Tali forme preesistenti sono l'origine o principio creativo di ogni creatura, ed è in tal senso che sono tipi e rientrano nella conoscenza pratica» (26). Esse vivono nella «mente divina», il «tesoro» dell'«arte di Dio» (27): «L'intelletto è il tempio di Dio, dove egli risplende nel fulgore della sua gloria. Non v'è dimora di Dio più reale di quella del tempio divino dell'intelletto (28) (âlaya-vijnana); «La quiddità o il modo è la via che mena a questo tempio». Simile al tesoro di Dio, «vi è un potere nell'anima chiamato mente (vijnana samkalpa); essa è il ricettacolo delle forme incorporee dei concetti» (29); in questo ricettacolo dell'anima le idee possono apparire sia nuove sia ricordate (30), ma in entrambi i casi vi sono, per così dire, raccolte (31), giacché «tutte le parole effuse dalla sua essenza divina fluiscono nella parola che la mente assume come Persona distinta, al modo stesso in cui la memoria riversa nei poteri dell' anima il tesoro delle immagini» (32).
Un'altra seppure superficiale distinzione di genere tra le idee può essere quella tra idee naturali, come quando si riflette sulla «forma-rosa» (33) o sull'immagine di Conrad (34), e idee artificiali, che sorgono «teoreticamente, come la casa in legno e in pietra progettata nell'intelletto pratico dell'architetto, e realizzata il più vicino possibile al suo ideale» (35); entrambi i generi appartengono alla «facoltà pratica», sia come «idea dell'opera» (36) che si intende concretamente compiere, sia come idea stabile nella mente e che costituisce oggetto di comprensione e mezzo a priori di comunicazione razionale. Entrambi questi generi di idee sono parimenti invenzione (anuvitta), una scoperta fatta nella «somma di tutte le forme concepite dall'uomo e sussistenti in Dio, delle quali non ho possesso, in quanto non dispongo neppure dell'idea di proprietà» (37); il che è da noi inconsciamente sottoscritto ogniqualvolta diciamo che una idea è venuta a noi o che l'abbiamo scoperta (eureka), mai però che l'abbiamo noi stessi prodotta. Nella migliore delle ipotesi ci siamo predisposti a riceverla, svuotando la nostra coscienza di ogni altra immagine creata o emozione effimera e accogliendo temporaneamente il segno o l'impronta di quella sola. Pertanto l'immagine è nell'artista, e non lui in essa; essa appartiene a colui di cui è l'immagine, non a colui che la accoglie: «L'immagine, in quanto è immagine, non riceve nulla di sé dal soggetto in cui è, ma riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine» (38). Quando leggiamo: «Come l'artista, ispirato dalla sua arte, scolpisce nel legno, dipinge o affresca» (39) «arte» significa l'idea del tema come a lui si presenta. Nell'oggetto, nella mente dell'artista e nel pezzo scolpito, l'immagine è la stessa, sebbene il risultato dipenda dalle obiettive capacità e non attinga mai il massimo della sua perfezione. Un'immagine scolpita non è inventata dall'artista ma è latente nel mezzo, per l'istinto alla forma proprio della materia; ad esempio, «quando un artista realizza una statua in legno o in pietra, non vi immette l'immagine, piuttosto elimina la parte di legno che ne celava la forma. Invece che aggiungere al legno, sottrae: assottigliando, pareggiando, fino a che non emerge quanto era nascosto» (40), in analogia con l'immagine di Dio, onnipresente al fondo dell'anima sebbene impedita e nascosta (41).
Pertanto, le idee di Dio e dell'uomo - i tipi - non sono le idee platoniche, esterne all'intelletto (nella essenza, non v'è immagine o somiglianza, ma solo identità, samata), immutabili e indeterminate, ma modelli attivi, forze, principi d'azione e di divenire, viventi e determinati: «Chiamare albero un albero non è definirlo, perché tutte le specie vi sono confuse» (42); né esistono due creature identiche, ché «ogni creatura è intrinsecamente una negazione, in quanto ciascuna nega di essere l'altra» (43). Il numero delle idee è pari a quello delle cose che sono state o possono essere nel tempo; «i tipi sono tanti quanti i possibili esemplari della specie nei vari gradi della natura» (44); il loro numero non può essere maggiore, perché Dio non opera scelte, né lascia nulla di non fatto; ciò che egli pensa è, e ciò che è egli lo pensa, la sua creazione è diretta e simultanea. «Ogni creatura emana dalla sua forma appropriata» (45) la nostra idea di processo e successione nel tempo è solo «dovuta alla grossolanità dei nostri sensi» (46); dal punto di vista di Dio, tutte le idee sono note immediatamente nella loro perfezione e unicità di forma; dal nostro punto di vista temporale, le idee sono libere, soggette al divenire variabile o, diremmo oggi, a evoluzione. Sotto ogni punto di vista, le idee o forme (nama) sono principi «viventi» e non puramente esistenti come modelli fissi e destinati a durare: non sono idee di forme statiche ma di atti (47).
«Un'icona in pietra o dipinta, in quanto pura forma, cioè indipendentemente dal mezzo sensibile, è la stessa forma di colui di cui è forma» (48). Sicché, in generale, l'artista è presente nell'opera unicamente con la sua perizia: «Dipingendo un buon ritratto, l'artista vi rivela la propria arte, non se stesso» (49). Se però il pittore ritrae se stesso - tale è il caso di Dio -, allora sono riflesse nel quadro sia la sua perizia sia la sua immagine, ma questa riflette la conoscenza che egli ha di se stesso, non il suo Sé reale: «Ciò fa onore al pittore che, ritraendo se stesso, incarna nel quadro il concetto più alto della sua arte, facendo di esso l'immagine di se stesso. La somiglianza in un ritratto loda l'autore senza bisogno di parole» (50). «Se dipingo su una parete la mia immagine, chi la vede non vede me; ma chiunque veda me, riconosce la mia immagine, e non essa soltanto ma mio figlio. Se realmente conosco la mia anima, chiunque vede il frutto del mio concepimento riconosce in esso mio figlio, poiché in esso partecipo la mia energia e la mia natura: questo, appunto, si verifica in Dio. Nell'atto di comprendersi perfettamente, il Padre mira la propria immagine, ossia il Figlio» (51). (Sia il ritratto sia l'uomo fisico sono il concetto che l'uomo ha di sé, «uguali» nella forma, nonostante la diversità tra la carne e la materia pittorica.)
A proposito dell'interpretazione del difficile passo del Genesi, 1, 26: «Facciamo l'uomo a immagine ed a somiglianza nostra», Eckhart afferma: «L'opera proviene dal Sé esterno e interiore dell'uomo, ma il suo più recondito Sé non vi ha parte. Quando un uomo crea, egli esterna il suo Sé più recondito» (52); in questo passo sembra esservi una contraddizione. Il senso della prima affermazione è chiaro: in quanto sostanza dotata di una forma determinata l'opera proviene dalle mani dell'uomo che plasmano la materia, ma in quanto forma essa proviene dall'idea specifica agente nel suo intelletto, la cui opera non consiste nel plasmare la materia bensi nello scegliere il meglio possibile secondo il suo temperamento personale. Poiché l'opera concreta è rèalizzata dal corpo fisico dell'uomo, è del tutto naturale che in essa resti impressa una traccia della sua fisionomia, al modo in cui la scure, «che realizza il fine desiderato dello scultore» (53), lascia nel legno la sua impronta riconoscibile (54). Cosi, dunque, nel tocco e nello stile l'opera è in qualche modo rivelatrice dell'uomo, cioè degli aspetti accidentali del suo essere. Sicché, secondo l'analogia di Eckhart, anche il Sé più recondito dell'uomo «si esterna» cosi come «quando Dio creò l'uomo, l'essenza più recondita della Divinità ebbe parte nella creazione» (55), seppure «le opere divine non racchiudano nulla di Dio, ragion per cui non possono svelarlo» (56). O ancora: «La forma è una rivelazione dell'essenza» (57), in cui non v'è immagine o somiglianza; l'essenza è in tutte le cose e, benché «immobile», «muove ciò che è mobile, tali sono le creature» (58). Come la Divinità in Dio, cosi il Sé recondito è nell'artista, perché sia l'una che l'altro sono compresenti e unificate nell'opera, non però in maniera operativa o intelligibile. Nell'opera stessa di Eckhart ravvisiamo un uomo che ha il dominio delle sue idee ma che lotta con il mezzo a disposizione, l'«intrattabile» (59) e incolta parlata tedesca del suo tempo: ma nelle idee, seppure espresse in modo tanto vigoroso, «non c'è nulla dell'uomo» quale egli è in Dio. Se l'uomo esistesse nella sua opera come Dio nella creazione, dovrebbe esistervi come vita immanente, e l'opera compiuta dovrebbe essere viva e dotata di libera volontà. Se talvolta diciamo che un'opera vive, è solo per metafora, per una sorta di animismo che proietta le nostre vive reazioni nella cosa com' è in se. L'interdizione islamica dell'iconografia vuole appunto sottolineare che l'opera dell'uomo non ha vita propria. I maestri musulmani definiscono infatti blasfema l'imitazione delle forme viventi, in quanto l'artista produrrebbe una pseudo - creazione, quasi contraffacendo Dio, il quale è l'unico a conferire la vita. Tuttavia, abbiamo visto e più avanti dimostreremo che l'arte cristiana non è un'imitazione delle forme naturali né una mera fonte di piacevoli sensazioni, ma un modo di parlare di Dio e della natura: essa non offende la dignità di Dio più di quanto non lo si faccia abitualmente nominandolo, contemplandolo o assaporandolo attraverso attributi e altre immagini (60), nella piena consapevolezza che «nulla che corrisponda al vero si può dire di Dio» (61), che «Dio è senza nome» (62), che «non c'è modo di conoscerlo per somiglianza» (63) (egli è nirabhasa, amurta), che «una macchia nera che volesse rappresentare il più alto angelo sarebbe un ritratto molto più fedele di quello che volesse rappresentare Dio nella forma del più alto angelo, perché in quest'ultimo caso la dissomiglianza sarebbe totale» (64). E tuttavia è lecito ritenere che non vi è nulla «di più giovevole all' anima del penetrare la scienza della santa e una Trinità» (65); ovviamente ricorrendo al nome e alla forma, poiché «è consentito usare i nomi con cui i suoi santi lo hanno invocato» (66). Per san Tommaso «non è contrario alla verità l'uso della Scrittura di descrivere le cose spirituali per mezzo di figure desunte dalle cose sensibili; poiché tali figure non vengono usate allo scopo di far credere che le cose spirituali sono sensibili, ma solo per farci comprendere certe proprietà delle cose spirituali per mezzo di figure sensibili, che hanno con quelle una qualche somiglianza» (67). Se un atteggiamento iconoclastico sembra trapelare da alcuni passi quali: «Essi tacquero per timore di mentire» (68); «Chiunque si accontenta di ciò che si può esprimere in parole - Dio, il cielo, sono parole - è giustamente ritenuto un miscredente» (69) si tratta tuttavia di una sorta di ascetismo e di rinuncia che si conviene solo a coloro che godono di una diretta visione di Dio, e che hanno acquisito il diritto di sostenere la vanità di ogni Scrittura; in tutti gli altri casi, negare che l'anima possa esprimere i propri poteri in opere esterne come mezzi di edificazione e illuminazione, non è in alcun modo scusabile. l'opera umana non abbia vita propria, colui che la esegue è analogo al «Sommo Artista» (70), al Divino Architetto, al Supremo Creatore (Vishvakarma). «Consideriamo il caso di un artista. Quando egli realizza un' opera, la sua arte rimane pur sempre in lui: le arti sono l'artista nell' artista» (cioè nell'uomo così chiamato), al modo in cui «le cose fluirono nei limiti del tempo pur permanendo nell'eterno», là dove sono «Dio in Dio» (71). «L'idea dell'opera esiste nell'intelletto pratico del creatore come oggetto della sua comprensione, grazie alla quale gli è dato esprimere l'idea cui in concreto conformare l'opera» (72). Il che significa che l'opera esiste nella mente dell'artista non come un modo di comprensione, ma come una realtà già nota direttamente, come è vero che «la lettera dell'alfabeto che io scrivo è identica all'immagine che la mia mente ha della lettera, non alla mente stessa» (73). Ogni minimo particolare nell'opera corrisponderà ad analoghi dettagli di forma nella mente dell'artista: «Nessun architetto contiene in testa il progetto globale di una casa, senza i progetti di ogni suo particolare» (74).
Ancora: «La forma, l'idea o l'aspetto di una cosa, per esempio di una rosa, è presente alla mia coscienza e deve esserlo per due motivi. Il primo è che in base all' aspetto della sua forma mentale (jnana-sattva-rupa) posso dipingere la rosa in concreto, dal che deduco esservi nella mia mente un'immagine della forma-rosa. Il secondo motivo è che a partire dall'idea soggettiva di rosa mi è dato riconoscere la rosa reale, anche se in realtà non la imito (ossia, non la riproduco in pittura). Così come posso avere in mente l'idea di una casa, pur non costruendola» (75). «Per plasmare un vaso, l'artigiano prende un pugno di argilla; tale è il mezzo su cui egli opera. La forma conferita al vaso è nella sua mente, ed è più nobile della materia utilizzata» (76). Per quanto poi riguarda il modo di esistere di tale forma nella mente dell'artista: «Un altro potere dell'anima è quello grazie al quale essa pensa (dhi-dhyai). Questo potere è in grado di raffigurarsi cose che non sono presenti, tanto che riesco a vederle come le vedrebbero i miei occhi, e perfino meglio. Se mi è possibile vedere una rosa d'inverno, quando non fioriscono rose (77), in virtù dello stesso potere l'anima produce (akarshati) cose traendole dal non-esistente (hrdaya-ảkảsha), al modo in cui Dio crea dal nulla (kha= xàόs)» (78). In ogni caso, «per essere giustamente realizzata, una cosa deve procedere dall'interno, mossa dalla propria forma; dall'interno all'esterno, non viceversa» (79).
In altre parole, come «l'anima è la forma del corpo», così nell'artista l'arte è la forma dell'opera: «Il taglio del legno proviene dalla sega; ma ciò che, a lavoro finito, assume la forma di un letto proviene dal progetto» (presente nella mente dell'artista); «nella sega o nell'ascia non vi è attualmente la forma del letto, ma l'impulso a una tale forma» (80); e ancora san Tommaso, citando Avicenna: «Tutte le forme nel regno della materia procedono dalla mente». Il sorgere di un'immagine proviene non da un atto di volontà, umana o divina, ma di attenzione (dharaha), quando la volontà è in stato di quiete; il semplice possesso di immagini non ha nulla di meritorio in sé (81), dato che l'immagine «riceve tutto l'esser suo dall'oggetto di cui è immagine, ed è un prodotto naturale ... anteriore alla volontà, la quale segue all'immagine» (82). Il processo estetico che si verifica quando parlo è il seguente: qualcosa «zampilla in me, poi diventa un'idea sulla quale rifletto, quindi la esprimo» (83); o ancora: «Quando la mia mente concepisce una parola, essa è dapprima sottile e intangibile; diventa una vera parola non appena prende forma nel pensiero; e quando, infine, la mia bocca la pronuncia ad alta voce, non è che l'espressione esteriore di una parola interiore» (84); «La mente vede e formula, la volontà vuole, la memoria saldamente conserva» (85). Circa il ristare dell'intenzione, o il soffermarsi sull'idea: «Il mio desiderio di oggi è il mio scopo di domani, è l'idea di ciò che è mantenuto desto (sthita) dal mio effettivo pensarlo (vibhavayati), così come è detto: «Si compiono le opere di Dio» (86). Circa l'opera, leggiamo: «Opera e divenire sono tutt'uno. Quando il costruttore si arresta, anche la casa cessa di farsi. Se fermi la scure, arresti la crescita» (87). «L'uomo ha bisogno di molti strumenti per compiere le sue opere esterne; ed è necessaria una grande preparazione per realizzarle al modo in cui le ha immaginate» (88); la mente che investiga «può l'pendere un anno o forse più in ricerche su fenomeni della natura, per scoprire ciò che è, ma le occorre altrettanto tempo per scoprire ciò che non è» (89); invece «alle creature angeliche ... per l'opera loro occorrono meno mezzi e un minor numero di immagini» (90).
Come abbiamo visto, il processo estetico si svolge in tre fasi: l'idea nasce in germe, prende forma dinanzi all''occhio della mente, si esprime esteriormente nell'opera (91). Il primo atto è necessariamente l'effetto dell'attenzione orientata su un dato oggetto: l'artista è incaricato non di dipingere in genere, ma di dipingere qualcosa di specifico, diciamo un fiore, l'immagine di un angelo (deva) o di un altro oggetto. Eckhart ricorre all'analogia dell'ospite degli angeli, e benché non faccia esplicito riferimento alla fase pratica del processo estetico, il passaggio è facile. «Una volta un discepolo interrogò il maestro sulla gerarchia angelica. La risposta fu: Va' e immergiti nella contemplazione interiore fino a quando non vedrai: dònati alla ricerca totalmente, rifiuta di vedere tutto quanto non sarai riuscito a penetrare da te, e poi guarda! Ti sembrerà in principio di trovarti assieme agli angeli e, avendo rinunciato alla tua individualità immergendo ti nel loro essere collettivo (92), ti parrà di essere divenuto tutt'uno con l'angelica schiera» (93). Fin qui la descrizione del processo è identica a quella del dhyana-yoga seguito dall'artefice indiano; basterebbe un riferimento alla riproduzione concreta delle forme angeliche, perché al passo citato si possa aggiungere un dyatva kuryat, ossia: «Dopo aver contemplato ed esserti abbandonato alla forma che ti si è presentata, inizia l'opera». E supponendo che il dipinto sia destinato a occupare un dato spazio o che il suo schema compositivo preveda che gli angeli siano sistemati in una determinata relazione con altre figure, tutto questo, poiché costituisce una parte dell'oggetto prescritto, dovrebbe avere il suo prototipo nella compiuta e completa immagine mentale. Per quanto riguarda il dipinto concreto, nell'ipotesi che sia eseguito, esso non è altro che un accostamento di colori, né il mio occhio apprenderebbe nulla sugli angeli dalla sensazione che gli procura la riflessione della luce: solo io posso avere un'idea degli angeli, non nella mia sensazione o per suo tramite ma attraverso la loro immagine, la quale, identica a quella presente nella mente dell'artista, ora si è trasferita dal dipinto nella mia mente, giacché «l'udire e il vedere fisici si formano nella mente» (94), e «se la mia anima conosce un angelo, ciò accade attraverso certi mezzi e dentro un'immagine, un'immagine priva di forma, non del genere di quelle che percepisco qui» (95). «Prima che il mio occhio veda materialmente il dipinto, esso è dovuto passare attraverso il filtro dell' aria e di una forma più sottile che la mia immaginazione concepisce e la mia comprensione fa propria» (96).
Pertanto il modello dell'artista è sempre un'immagine mentale. L'occhio (mảmsa-kakshu) non è che uno specchio: si può dire che esso vede gli oggetti, una rosa, una pietra, o un'opera d'arte, in virtù di una certa loro sostanziale affinità (97), «come il simile va con il simile» (98). Ma se affermo che io vedo, è solo per modo di dire, perché «se lo specchio cade l'immagine non c'è più» (99). «lo vedo» solo indirettamente e per mezzo dell'occhio, il quale mi serve in quanto esiste nell'anima una corrispondente facoltà ad esso connessa e che è, peraltro, del tutto lontana dalla materia (100); «Sottrai la mente e l'occhio resterà aperto senza scopo» (101). Il mio occhio vede piatto ma io vedo in rilievo; tale rilievo può non essere un fatto materiale, ma un'idea di relazione che rimarrebbe valida per me anche qualora il mondo fisico esterno fosse del tutto irreale. La forma interiormente conosciuta (antarjneya-rupa), relativamente immateriale, è il mezzo per cui riconosco ciò che il mio occhio vede, il solo mezzo attraverso il quale posso aspirare a comprendere ciò che l'occhio riferisce, e anche il mezzo che mi consente di parlarne ad altri. «Non vedo la mano, la pietra, in sé; vedo l'immagine della pietra, ma non la vedo in una seconda immagine o attraverso un altro mezzo; la vedo senza mezzo e senza immagine. È questa immagine in sé, il mezzo: immagine priva di forma, simile al moto senza movimento sebbene sia causa di moto, e simile alla grandezza che non ha grandezza per quanto stia a fondamento di ogni grandezza» (102). «L'anima conosce solo in immagine» (103) non conosce le cose come sono in sé, ma idealmente, alla fonte, come sono in Dio. Non potrò mai vedere ciò che i miei occhi vedono (sensibilmente) né udire ciò che ode il mio orecchio in termini di vibrazione, posso solo conoscere razionalmente attraverso l'immagine. «Vediamo il sole attraverso il riflesso della sua luce su un albero o su altri oggetti, ma non lo percepiamo com'è in se stesso» (104) altro che nell'idea che ne abbiamo. Questo punto di vista non è affatto peregrino ma costituisce un assioma della scienza moderna, il cui contatto con la materia avviene solo attraverso formule matematiche, non per via di sensazione.
Si deve dunque dedurre che, dal punto di vista scolastico, un'arte naturalistica di pura visualità (capace cioè di produrre sensazioni il più possibile identiche a quelle evocate dal suo modello visibile), destinata alla sola esperienza visiva, deve essere considerata non solo irreligiosa e idolatrica (l'idolatria è appunto l'amore alle creature in se stesse) ma anche irrazionale e vaga. Infatti, la sola cosa che può veracemente rassomigliare al proprio modello in natura è il suo riflesso nello specchio dell'occhio, ma questo riflettersi è una sensazione, non una comprensione (l'occhio non dispone di una facoltà autonoma di comprensione ed è incomprensibile alla mente: un caso di dissimile rispetto a dissimile). Inoltre l'immagine concreta, l'opera d'arte, è commisurabile al modello in natura solo in quanto sostanza determinata, ma resta fondamentalmente incommensurabile per la intrinseca differenza tra la rappresentazione e il modello vivente, nella misura in cui sono entrambe una essenza, la quale non può essere misurata. Natura e arte sono correlate (sadrhsya) solo nell'idea, altrimenti irreconciliabili.
La riconoscibilità del modello in natura e dell'immagine concreta non si basa affatto su una supposta somiglianza tra il primo e la seconda, ma dipende dalla forma immateriale o immagine ideale (nama) presente nell'oggetto, nell''artista, nell'opera, e infine in colui che guarda, immagine ideale che viene tradotta al massimo grado possibile di visibilità nell'immagine materiale (rupa), seppure questa sia diversa per natura. Se fosse possibile realizzare cose uguali a quelle in natura, cioè dotate di movimento autonomo - cosa inconcepibile o, secondo i musulmani, proibita -, non vi sarebbe arte ma solo natura o, nella migliore delle ipotesi, pura magia. O se fosse dato all'artista di raggiungere la perfezione - il che può essere virtualmente concepibile ma impossibile nella dimensione del tempo -, egli diverrebbe uno con Dio, sarebbe l'eterno compartecipe della sua creazione, gli oggetti naturali sarebbero la sua immagine nel tempo come lo sono di Dio, e non esisterebbe altro che l'eterno quadro cosmico come è visto da Dio. Né vi sarebbero occasioni per l'arte, perché il suo fine sarebbe già stato raggiunto. Nel frattempo, cioè nella nostra dimensione attuale, un'arte realizzata nel modo più conforme possibile all'occhio (105) e solo per gli occhi non può essere considerata altro che una sovrapposizione di illusione a illusione, un volonteroso scambiate una corda per un serpente, secondo la metafora indiana analoga a quella di Eckhart della retta che nell'acqua si riflette come linea curva (106).
In che senso l'arte è necessariamente convenzionale o razionale è da Eckhart così spiegato: «Ciò che l'occhio vede deve essere trasmesso all'anima attraverso un mezzo, tramite immagini» (107). Se il pittore provetto «può dare la vita a Conrad» (108), che cosa Conrad dà alla vita? Non si tratta di produrre un'immagine che possa essere scambiata per l'uomo in carne e ossa, bensì di riprodurre «il suo volto autentico» (109) ossia, per quanto è possibile al pittore, il suo «sembiante fedele» (110) così come è riflesso nello specchio dell'essenza di Dio, «l'elemento esemplare di Conrad che è alla pari con Dio»; è «un fatto di aderenza di forma» (111). «Trarrà gioia dalle cose come sono in sé, diversamente dall'intelletto, che le gusta come sono in se stesso ... Un occhio reale è cosa migliore di un occhio dipinto. E tuttavia insisto che l'intelletto è superiore alla volontà» (112). Eckhart intende che, in una certa misura, la mente coglie la realtà al modo di Dio, sub specie aeternitatis, (113) alla fonte, in modo imparziale; infatti, «tutte le creature sono presenti alla mia mente in modo intellettivo. lo soltanto le dispongo a ritornare a Dio ... io soltanto le separo dal loro significato e, accogliendole nella mente, le rendo uno con me» (114); «L'intelletto (manas, prajna) innalza tutte le cose a Dio» (115). «Non è requie negli esseri fin quando non ottengano natura umana, là dove essi risalgono alla loro forma d'origine, Dio» (116), poiché l'umana natura «è estranea al tempo» (117). «La cosa più banale, un fiore, se percepita in Dio come Lui la scorge {ossia in ogni singolo e vero aspetto, della cosa e di Dio: svarupa), sarebbe cosa più perfetta dello stesso universo» (118). È con l'occhio dell'artista, avvezzo a osservare con la mente e secondo la forma, che l'uomo vede le cose nella loro perfezione e giovinezza eterna, «nella misura in cui il ricettacolo lo consente» (119), cioè secondo il suo temperamento personale.
Il naturalismo nell' arte non ha nulla a che vedere con la cosa in sé. Un'immagine di Dio può essere ripugnante nella sua denotazione materiale; un fiore dipinto può non avere alcuna rassomiglianza con alcunché di terreno. Eckhart non si attiene ad alcuna formula che contrassegni l'arte sacra o profana rispetto al soggetto. «Colui che, cercando Dio sotto forme stabilite, si ferma alla forma, non può incontrare Dio nascosto in quella forma» (120) e costui è per certo un idolatra. I soggetti sacri sono immagini di Dio non più valide di quanto lo siano le forme naturali: «Si parla di otto cieli e di nove schiere angeliche ... devi sapere che espressioni evocatrici del genere non sono che dei modi di allettamento verso Dio» (121); infatti, «come dice Agostino, "Ogni scrittura è vana"» (122). Eckhart non tralascia di ribadire che tutti i contenuti (non ogni intenzione) sono Dio e che si dovrebbe imparare a vederlo ovunque e dappertutto: «Colui cui Dio è caro in una Cosa piuttosto che in un'altra, quell'uomo è un barbaro, un primitivo, un bambino» (123); «trovare Dio per una via piuttosto che per un'altra ... non è questo il modo migliore», «dovremmo saper godere di Lui in ogni foggia e in ogni cosa» (124) «qualsiasi cosa sia» (125); «sono giunto come la fragranza di un fiore» (126); «ogni pulce come specchio di Dio è più nobile del più eccelso degli angeli come specchio di sé» (127). Tale è il grado di imparzialità raggiunto dall'arte: quell'angelico punto di vista (adhidaivata) donde tutto è amato d'identico amore, «però che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è da odiare» (128).
Se l'atteggiamento dell'artista appare, da quanto sopra, intellettuale e razionale, l'opera d'arte è in se stessa, per la stessa impronta che l'artista le conferisce in quanto sua «creatura», anche più convenzionale di quanto non lo sia rispetto all'oggetto; e va pertanto interpretata e compresa non come l'immagine riflessa del mondo qual è in sé, ma come un simbolo o un insieme di simboli razionalmente significanti e dotati di un più profondo contenuto, intesi non soltanto come mezzi di denotazione ma di comunicazione e di visione. Questo è il motivo per cui, sia rispetto alle Scritture e ai miti in genere, sia a proposito di qualsiasi forma di arte, «si dice che il loro contenuto materiale deve essere trasposto su un piano più alto ... tutte le storie che ne vengono tratte possiedono un significato occulto ed esoterico. La nostra comprensione di quel contenuto è tanto lontana dalla sua verità e dal suo modo di essere in Dio, da non essere più una comprensione» (129); nell'opera d'arte c'è da capire qualcos'altro; «quando tenta di penetrarla, è veramente saggio chi troverà che il suo significato va molto oltre la sua capacità di comprensione, e che tanto ancora resta da scoprire» (130). L'arte è a un tempo denotazione, connotazione e allusione; affermazione, implicazione e contenuto; letterale, allegorica e anagogica.
Se dunque l'arte è per natura razionale, perché l'opera d'arte non è immediatamente comprensibile? Perché l'artista vede solo quel tanto dell'immagine esatta che i suoi poteri gli permettono; le immagini che l'uomo coglie non sono che una ristretta selezione di una somma inesauribile di possibilità. «Le parole traggono il loro potere dalla Parola originaria» (131), e tali selezioni variano a seconda delle epoche, delle razze e, sebbene in minor grado, degli individui. Secondo una tesi ricorrente del pensiero scolastico, la conoscenza delle cose è relativa al modo soggettivo del conoscere; pertanto: «Non tutte le anime possiedono la stessa attitudine ... né la visione ... è parimenti gustata da tutti» (132). «L'arte tende, tra le cose temporali, a scegliere il meglio» (133), ossia ciò che è considerato essenziale da ogni punto di vista, che può essere il tuo, il mio, o quello invalso nel primo o tredicesimo secolo, o in qualsiasi altro ambiente o cultura. Ecco perché nell' arte, anche quando si è trattato uno stesso soggetto o «imitato» identici aspetti della natura, troviamo un'infinita varietà di trattamento che ha determinato quelli che chiamiamo gli stili. Le differenze nel linguaggio parlato sono l'esempio più ovvio di questo fenomeno; ma si inganna di molto chi ritiene che ogni arte costituisca un linguaggio universale o che il linguaggio di ogni arte sia per natura onomatopeico. La varietà degli stili e ciò che è stato spesso definito il progresso o la decadenza nell'arte, ma che altro non è che l'avvicendarsi storico degli stili, non hanno nulla in comune con l'alterna e sempre assai limitata attitudine dell'uomo alla imitazione della natura. Gli stili sono idiomi di conoscenza e di comunicazione. Essi assolvono alla comunicazione nella misura in cui e fino a quando vengono accettati e compresi per convenzione (samketa); in un altro luogo o in un diverso periodo, diventa indispensabile impararne il linguaggio per decifrare l'arte, il che richiede «diligenza e pazienza», «come uno che impari a scrivere» (134) o al modo in cui «il nominare richiede l'uso del discernimento» (135).
Abbiamo così intuito che stile e idioma rappresentano una modalità particolare o parziale di visione. I caratteri di tale modalità (lakshana) dipendono dal rapporto tra l'artista come individuo e il suo tema (136); poiché questo rapporto è irripetibile e rispecchia i poteri e i limiti dell'individuo stesso, la struttura del modello presente nella sua mente può dirsi sua. Gli aspetti accidentali dell'essere che specificano la sua individualità possono infatti ritenersi propri dell'uomo che egli impersona: «I miei sguardi non sono la mia natura ma i suoi accidenti» (137); «gli accidenti variano» (138). In questo senso ogni artista imprime nell'opera qualcosa di sé: «Supponendo che Dio abbia chiesto a un angelo di prestarsi alla creazione dell'anima, deve aver impresso nell'anima qualcosa dell'angelo, perché non accade mai che l'artista direttamente dipinga o scolpisca una figura, o scriva direttamente le lettere dell'alfabeto, piuttosto copia i modelli presenti nella sua mente» (139) non quelli esistenti nella mente universale, perché l'intelletto individuale «è assolutamente inadeguato ad essa» (140). Lo stile non si identifica necessariamente con la convenzione, sebbene ogni stile e ogni forma d'arte siano convenzionali o, secondo il linguaggio di Eckhart, «razionali»: lo stile è una classe particolare di convenzione, distinta da altre. Se dunque è vero che lo stile è l'uomo, ciò non significa che sia una virtù in sé, o per l'uomo un'occasione di vanto. Tocco e stile sono gli accidenti dell'arte. Secondo Chuang Tzu, i limiti delle cose sono appunto legati alla loro natura di cose. Ma è nella misura in cui l'arte trascende lo stile che è stimata universale: Bach supera Beethoven. Dio però non ha stile, il suo «temperamento è l'essere» (141).
L'uomo e Dio sono simili nell'intelletto, che Eckhart ritiene il vertice, il più alto potere dell' anima per il cui tramite questa prende coscienza di Dio, ma sono del tutto dissimili nella durata dell'intenzione (kratu) e nell'opera (karma), giacché l'uomo è condizionato dal tempo e dalla volontà. Mentre nella mente dell'uomo le idee vivono solo nella durata, anche se questa coincide con l'intera sua vita (142), in Dio le creature hanno necessariamente vita eterna, seppure, per avere vita propria, debbano nascere in un dato momento (143). Le cause del divenire, rispetto alla causa prima, sono poi caratterizzate dal fatto che «il loro essere nelle cose decade non appena queste attingono, venendo al mondo, una vita propria, così come, non appena la casa è eretta, non ha più bisogno del suo costruttore, anche perché la sua fisicità non dipende soltanto da lui ma dai materiali impiegati che quegli trae dalla natura. Dio, invece, conferendo alla creatura tutta la sua esistenza, qualora la abbandonasse a se stessa, questa perderebbe vita all'istante» (144) «come un quadro che, dipinto su una tela, poi si cancella» (145); non diversamente «Agostino osserva che, nel costruire la casa, l'architetto mette a frutto la sua arte, e anche se la casa crollasse, non così è dell'arte, che eternamente vive nella sua anima» (146).
Riguardo al «sostegno che Dio offre alle creature per mantenerle in essere» (147) Eckhart ricorre all' analogia della madre (i figli concepiti e procreati riflettono in se stessi entrambe le creazioni di Dio e dell'uomo); e analogamente, come Dio si prende materna cura del suo creato, l'uomo veglia, a sua volta, sulle cose che crea per preservarle nel tempo. L'intera opera creatrice, conservatrice e dissolvitrice dell'uomo è l'analogia temporale del simultaneo intervento creatore, conservatore e dissolutore di Dio (srshti, sthiti, laya). Eppure «colà non esiste alcun agire» (148); «se, nel suo lavoro, il costruttore fosse perfetto, non dovrebbe ricorrere all'uso di materiali; concepire la casa e costruirla sarebbero tutt'uno», così come avviene «per le opere di Dio che, non appena concepite, esistono» (149); o ancora: «Colui che costruisce una casa, la edifica dapprima nella mente, e quando la sua volontà l'abbia sufficientemente padroneggiata, a parte l'impiego dei materiali, la sola differenza tra il costruttore e la casa sarà quella che corre tra il concepente e ciò che è istantaneamente concepito ... (come) accade in Dio ... unica Persona, in cui il promanante (abhisrshti) e il promanato (abhisarga) non sono distinti» (150).
Nell'uomo come in Dio, l'«arte» (intuizione-espressione) è e rimane interamente nell'artista; tuttavia, «non pensare che Dio si comporti come l'artigiano, il quale sceglie a suo arbitrio di fare o non fare. Non cos1 Dio; se tu sei pronto, egli non può agire insufflando su di te, come necessariamente il sole scotta quando l'aria è tersa» (151). La «disponibilità» è altrimenti espressa nella tensione «insaziabile alla forma» (152) propria della materia; parimenti, Dio «deve agire, volente o nolente» (153), così vuole la sua natura, senza un perché. Questa necessità diventa nell'uomo la cosiddetta gratuità dell'arte: «L'uomo dovrebbe produrre senza motivo, né per Dio né per la sua gloria, né per alcun altro scopo a sé estraneo, ma in nome di ciò che è il suo vero essere spirituale, la sua autentica vita interiore» (154); «Non dare alla tua opera alcun altro scopo» (155) «Opera come se nessuno fosse mai esistito o venuto sulla terra» (156) «Sia ogni felicità a quanti hanno udito questo sermone. E qualora non vi fosse stato alcuno, avrei parlato alla cassetta per i poveri» (157). «Dio e la sua volontà sono tutt'uno, sicché se sono un uomo e intendo agire in modo del tutto libero da volontà ... devo comportarmi in modo che le mie azioni siano estranee alla mia volontà ... nel compierle, devo rimettermi alla volontà di Dio» (158) «Prima di tutto, non avere attaccamento a nulla. Abbandònati, e lascia che Dio agisca per te» (159). C'è nell'artista un vago «riflesso» (160) del modo di operare di Dio, «spontaneamente ma non con volontà, naturalmente ma non per natura» (161) e ciò accade quando, raggiunta la piena padronanza della sua opera, divenuta una sorta di seconda natura (habitus, shlishtatva), egli non esita ma «procede con sicurezza, senza chiedersi, faccio bene o faccio male? Se il pittore dovesse programmare in anticipo ogni pennellata, non dipingerebbe più» (162); «l'opera del Cielo è più grande di quella dell'uomo che costruisce una casa» (163).
Espressioni come «ispirato dall' arte» (164) «il più vicino possibile al suo ideale» (165) «creare per creare», suonano a orecchi moderni come riscontri di una teoria dell'arte per l'arte. Ma ci sbagliamo. «Arte» e «ideale», nel senso qui inteso, lungi dall'avere la connotazione sentimentale odierna, stanno a indicare la piena comprensione del tema da parte dell'artista, e dunque la necessità dell'opera (krtartha); lavorare per «il vero intento della causa prima dell'opera» (166) non è lavorare per il gusto di produrre, come implica la concezione moderna dell'arte; «lavorare per lavorare» significa fare in libertà, senza scopo, agilmente (167). Lavorare conforme alla «idea dilettissima della propria arte» (168), ossia impegnandosi al massimo, è semplicemente onesto, e «per onesto, intendo fare del proprio meglio in questo istante» (169), avendo «buone ragioni di ritenere che nessun altro lavorerebbe altrettanto bene» (170), e adoperandosi per «la perfezione nelle opere temporali» (171); i «diligenti» sono infatti «coloro che non si lasciano intralciare da nulla nell'opera» (172).
L'utilità dell'opera e la sua causa prima coincidono, «lo scopo ultimo (prayojana) dell'opera coincide sempre con il vero intento (artha) della sua causa prima» (173); «quando l'architetto costruisce una casa, il suo primo proposito è il tetto (per l'implicita idea di rifugio), che è poi (effettivamente) il culmine della casa» (174). In quanto essere razionale, nessun uomo lavora senza scopo: «Per il costruttore che taglia legno e pietra perché vuole edificare una casa che lo protegga dall'afa estiva e dal gelo invernale, il primo e ultimo pensiero è la casa, e se non mirasse alla casa egli non taglierebbe una sola pietra né muoverebbe un dito» (175). L'utilità dell'opera consiste nel suo vantaggio fisico immediato, non nel suo scopo edificante. I requisiti di chi compie un'opera concreta sono: conoscenza del mondo, diligenza e acume, da non confondersi con l'intuizione, una effettiva competenza che tenga conto del mezzo (176): per esempio, «il celebrante (della messa) troppo raccolto in se stesso facilmente sbaglia. La via migliore è di concentrare la mente prima e dopo, ma sul momento deve celebrare speditamente e scioltamente» (177). Un'opera può essere intrapresa ad majorem gloriam Dei o per qualsiasi scopo più prossimo, ma il fine si può godere solo in vista o nel completamento dell'opera. Quando lavora, l'uomo non è che uno strumento, e come tale deve usare se stesso, preoccupandosi del fare e non del suo esito, totalmente assorto nell'opera come «il filosofo pagano che studiava matematica ... per seguire la sua arte ... troppo assorto per vedere o udire il suo nemico» (178). Lavorare dunque non per amore di abilità o per esibirla, ma per servire e glorificare la causa prima dell'opera, cioè il soggetto immaginato nella mente dell'artista «senza idea di possesso» (179). Ciò che può essere l'opera, non conta, ma è essenziale che l'artista vi si doni totalmente: «gli è tutto eguale ciò che ama» (180); lavora, comunque, per amore di Dio, perché la perfezione dell'opera sta «nel preparare tutte le creature a tornare a Dio» (181), là dove «si trovano naturalmente esemplate nell''essenza divina» (182). Tale atteggiamento non può che dare buon frutto, anche se il soggetto del quadro sia il ritratto del pittore, l'immagine di Dio in lui (183). Non è un artista onesto ma un borioso esibizionista colui che vuole stupire con la sua abilità: «Qualsiasi uomo retto si vergognerebbe se la gente dabbene ravvedesse in lui un tale intento» (184); data l'arte di cui dispone, e che è normale che pratichi, sia l'abilità sia l'acume sono sottintesi. Se, grazie alla sua perizia, gli accade di ottenere fama nel mondo, lo consideri un «dono di Dio» (185), non come un frutto dovutogli, e lavori «come se nessuno esistesse» (186). Lo stesso è per il salario: è indubbio che chi lavora deve essere compensato, ma se la sua «sollecitudine» va a tutto tranne che al bene dell'opera cui attende, costui non è più un lavoratore ma uno «schiavo e un mercenario» (187).
Dedicarsi nel mondo «a qualche utile occupazione» (188) non è ad alcun effetto un ostacolo al perfezionamento dell'uomo e, sebbene «pregare sia atto migliore che filare» (189), l'uomo deve saper rinunziare all'«estasi» per impegnarsi in qualsiasi attività che possa essergli richiesta come una forma di servizio (190); e anche ciò «che è imprescindibile per entrare in contatto con Dio è lavoro, vocazione, chiamata nel tempo, che non interferisce di un briciolo con l'eterna salvezza» (191). «Per essere nel giusto, deve accadere una di queste due cose: o l'uomo trova e impara a possedere Dio nelle sue opere, oppure cose e opere vanno abbandonate del tutto. Ma poiché nessuno in questa vita può non agire, l'uomo deve dunque imparare a trovare il suo Dio in tutte le cose» (192). Anche per il religioso «la vita attiva colma i vuoti della vita contemplativa», e «sono in grande difetto e sulla pista errata coloro che conducono vita contemplativa senza mai compiere azioni all'esterno»; «nessuno in questa vita può raggiungere lo stadio in cui sia dispensato dall'agire» (193); pertanto «opera in tutto» e «compi il tuo destino» (194). Ciò tanto più vale per chi «non sa nulla della verità dall'interno; se la cerca all'esterno, la troverà anche dentro» (195). In ogni caso, «lo scopo di Dio nell'unione (yoga) della contemplazione è la fecondità delle opere» (196).
L'artista gode naturalmente della sua opera, via via che l'immagine prende forma nella sua mente al modo in cui in Dio la visione di tutte le creature non è che l'immagine di sé in se stesso; questo piacere alla vista della materia colta nell' atto del suo prender forma è, per l'uomo impegnato nel lavoro, un'esperienza estetica. Ma la natura vera di tale esperienza può essere meglio valutata dal punto di vista dello spettatore, il quale vede l'opera non nel suo divenire ma nel suo risultato finale, come sottratta al tempo; giacché «nessuna azione è tanto perfetta da non intralciare la concentrazione. L'ascolto della messa consente il raccoglimento più di quanto lo procuri il celebrarla» (197). Cosa è dunque l'esperienza estetica o quell'evento definito da Eckhart concentrazione, contemplazione, illuminazione (avabhiisa), punto culminante della visione, estasi, quiete? Nella misura in cui è accessibile all'uomo come una voce (198), una pregustazione (199), o un subitaneo bagliore (200), essa è la visione del quadro cosmico come è visto da Dio, nell'atto del suo amare tutte le creature di identico amore, non considerandole rispetto alloro uso ma come l'immagine di sé in sé (201), ognuna partecipe in completezza della natura divina; lo sguardo di Dio è come di chi, scrutando in uno specchio (202), vede interamente tutte le cose indipendentemente dal tempo e dallo spazio, ognuna come se fosse l'unica, senza vagare dall'una all'altra (203), e senza bisogno di luce, ma contemplandole in quell'eterno fulgore creatore di immagini dove «a tutte le cose sensibili sovrasta il velo immoto dell'unità». Viste così, esse appaiono perfette, fresche, eternamente giovani (204): «Avere tutto ciò che,esistendo, è oggetto d'intenso desiderio e procura gioia; averlo subito, in toto, nell'anima indivisa in uno con Dio, cogliendolo nella sua perfezione, nel primo sbocciare alla radice della sua esistenza ... questo è felicità» (205), «uno stupore singolare» (206), «vissuto non nella mente né nella volontà, ... non un pensiero, ma un'estasi» (207), non dialetticamente ma come se si avesse tanto potere e conoscenza da fissare tutte le fasi del tempo in un eterno adesso (208) come è proprio della gioia di Dio (209).
Un altro modo di intendere l'esperienza estetica consiste nel paragonarla a uno spettacolo o a un gioco (lila) che si rappresenta in eterno di fronte a tutte le creature, dove attore e pubblico, gioco e giocatori si identificano, nella misura in cui la loro natura si esprime in trasparenza e allegrezza (210); oppure a un'azione concertata in Dio dove l'atto compiuto coincide con tutto l'esistere. Questa partecipazione alla visione che Dio ha di sé nella sua «opera» e che, nella misura in cui possiamo averne un «sentore», è quanto riteniamo un'esperienza estetica, è anche ciò che intendiamo per Bellezza rispetto alla mera gradevolezza e al gradimento, che sono condizionati dai loro opposti. Secondo Dionigi, la Bellezza è ordine e simmetria suprema. In questo senso, «la Divinità è la bellezza delle tre Persone» (211), «bellezza con cui neppure il sole è paragonabile» (212); «ogni Persona irradia sulle altre come su se stessa. Questa illuminazione è la perfezione della bellezza». «Tutte le cose tendono verso la loro finale perfezione» (213). Tanto si può dire della pura esperienza estetica raggiungibile da chiunque ne faccia il pegno dell'ultima perfezione e della perfetta felicità. È nella doppia veste di artista e discente che l'uomo prepara tutte le cose a ritornare a Dio, nella misura in cui apprende a vederle simbolicamente (parokshat) e non soltanto nella loro apparenza sensibile (pratyakshena). Tale è, dal punto di vista di Eckhart, il «significato» dell'arte. «Cioè nella misura in cui arrivo a comprenderla» (214).
Note
* In: La Trasfigurazione della Natura nell'Arte, edizioni Rusconi, 1975, trad. G. Marchianò.
** "I dotti comprendono le ragioni dell'arte, i non dotti ne comprendono solo il diletto che essa dà" (Institutio Oratoria, IX, 4, 116)
l J. MARITAIN, Art et Scholastique, Parigi 1920 e 1947.
2 Meister
Eckhart nacque in Turingia intorno al 1260. Divenne professore a Parigi e
in seguito ricopri cariche o:clesiastiche eminenti in Boemia e in
Germania. Sospettato di eresia, fu condannato nel 1329, due anni dopo la
morte. Insegnò in alto tedesco, non in latino, ed è stato definito il
padre della lingua tedesca. Ancora giovane all'epoca della morte di san
Tommaso (1274), gli furono contemporanei Tauler e Ruysbroeck, che
probabilmente udirono i suoi sermoni.
I passi da noi citati sono tratti da Meister Eckhart, 2
voll., Londra 1924-1931, trad. di C. de B. Evans dalla edizione tedesca
delle opere di Eckhart curata da Franz Pfeiffer nel 1857, ed. 4, 1924. A
meno di ulteriore indicazione, i riferimenti di pagina sono quelli del
primo volume; tali riferimenti sono contrassegnati dalla sigla M.E. (=
Meister Eckhart). (Per la traduzione italiana dei passi di Eckhart si è
tenuto conto della versione antologica, con testo originale a fronte,
curata da GIUSEPPE FAGGIN, Maestro Eckhart, LA nascita eterna, Sansoni, Firenze 1974: N.d.T.).
Il pensiero di Eckart rivela una
sorprendente aflinità con quello indiano, e sia interi passi sia
numerose singole frasi sembrano una diretta traduzione dal sanscrito. Si
confrontino a questo riguardo R. OTTO, Mysticism East and West, New York 1931, e il mio New Approach to the Vedas, Londra 1931.
Con ciò non si vuole suggerire, ovviamente,
la effettiva presenza di elementi indiani negli scritti di Eckhart
benché, peraltro, ne esista qualche traccia nella tradizione europea
attraverso fonti neoplatoniche e arabe. Ma ciò che le analogie
dimostrano non è la reciproca influenza dei diversi sistemi di pensiero,
bensì la coerenza della tradizione metafisica nel mondo e in ogni
tempo.
3 M.E., 37.
4 M.E., 143.
5 In questo
senso, l'erede più diretto e naturale di Eckhart è BIake; si mediti
sulle seguenti espressioni: Gesù e i suoi discepoli furono tutti
artisti; la lode è la pratica dell'arte; Israele liberato dall'Egitto è
arte liberata dalla natura e dall'imitazione; il corpo eterno dell'uomo è
l'immaginazione; le divinità della Grecia e dell'Egitto furono
diagrammi matematici; l'eternità ama i prodotti del tempo; l'uomo non ha
un corpo distinto dall'anima; se le porte della percezione si
schiudessero, tutte le cose apparirebbero all'uomo come sono, infinite;
nell'eternità tutto è visione.
6 Cfr. tridhii, samhitii nelle Upani~ad, p. es. Brhadiira1Jyaka Up., I, 2,3 e Taittiriya Up., I, 3, 1-3.
7 M.E., 369.
8 M.E., 268.
9 M.E., 366.
10 M.E., 13.
11 M.E." 13, 32, 87-88, 166, 228; II, 183, ecc.; v. c. V.
12 M.E., 143.
13 Ivi.
14 Ivi
15 M.E., 284.
16 M.E., 166.
17 M.E., 259. 18 Tutti i riti, culti e sacramenti (pu;ii, ya;iia, samskiira) sono arte.
18 Per la transustanziazione, dr. M.E., 87,477:
«Il sacramento nutre come qualsiasi altro cibo. Ma non ha nulla della
natura del pane» (477), cos1 come le altre opere d'arte, pur potendo
dilettare i sensi, vanno prese in un senso diverso, allegorico o
anagogico. Secondo la prospettiva cattolica, benché l'uomo possa essere
attirato verso un'opera d'arte (p. es., la Scrittura) causa voluptatis, è opportuno che egli proceda a rationem artis intelligere. Cfr. Lankavatiira Sutra, II,
118, 119, dove si dice che se un dipinto è a colori « per attrane
(kar~a1Ja) lo spettatore », il vero quadro non è nei colori (range na citram) ma esiste come arte nell'artista, non· ché nello spettatore che si sforza di capirlo.
19 M.E., 16.
20 Ivi.
21 M.E., 447.
22 M.E., II, 97.
23 M.E., 258.
24 Ivi.
25 M.E., 71.
25 M.E., 71.
26 M.E., 253.
27 M.E., 461.
28 M.E., 212.
29 M.E., 402.
30 M.E., 105.
31 M.E., 226, 295.
32 M.E., 402.
33 M.E., 251.
34 M.E., 128.
35 M.E., 252.
36 lvi.
37 M.E., 35; dr. 17.
38 M.E., 51-52.
39 M.E., II, 211.
40 M.E., II, 82.
41 M.E., II, 81.
42 M.E., 117.
43 M.E., 249.
44 M.E., 252, 253.
45 M.E., 477.
46 M.E., 365.
47 M.E., 16.
48 M.E., 64.
49 M.E., 37.
50 M.E., 97.
51 M.E., 408.
52 M.E., 195.
53 M.E., II, 178.
54 V. sopra, nota 18.
55 M.E., 195, 436.
56 M.E., 87; dr. Bhagavad Gitii, IX, 4 e 5.
57 M.E., 38.
58 M.E., 284.
59 M.E., 119.
60 «Il pittore
pinge se stesso» di Leonardo, forse la prima enunciazione del principio
da cui dipende la validità del moderno giuoco di attribuzione.
61 M.E., 8.
62 M.E., 246.
63 M.E., 55.
64 M.E., 46.
65 M.E., 392.
66 M.E., 70
67 S. Th., I, 51, 3; «Non
est contra veritatem quod in Scriptura intelligibilia sub figuris
sensibilibus describuntur, quia hoc non dicitur ad adstruendum quod
intelligibilia sint sensibilia, sed per figuras sensibilium proprietates
intelligibilium secundum similitudinem quondam dantur intelligi ».
68 M.E., 237.
69 M.E., 339.
70 M.E., 376.
71 M.E., 285.
72 M.E., 252.
73 M.E., 235.
74 M.E., 252.
75 Ivi.
76 M.E., 68.
77 M.E., cfr. 116.
78 M.E., 212; dr. 445.
79 M.E., 108.
80 S. Th., I, 110, 2; I, 118, 1: «Quod
secetur lignum, pertinet ad serram; sed quod perveniatur ad formam
lecti, est ex ratione artis »; «In serra vel securi non est forma lecti,
sed motio quaedam ad talem formam ».
81 M.E., 17.
82 M.E., 51; cfr. 17.
83 M.E., 222.
84 M.E., 80.
85 M.E., 16.
86 M.E., 238.
87 M.E., 163.
88 M.E., 5.
89 M.E., 17.
90 M.E., 5.
91 M.E., 80, 228.
92 Concetto che ancora sopravvive nel «Chi pinge figura, si non può esser lei, non la può porre» di Dante (Convivio, III, 53-54).
93 M.E., 216.
94 M.E., 93.
95 M.E., ll2.
96 M.E., lll.
97 M.E., 104, 105, ll6, 152, 212, 240.
98 M.E., 258.
99 M.E., 105.
100 M.E., 104.
101 M.E., 288.
102 M.E., 114.
103 M.E., 243.
104 M.E., 72.
105 M.E., 253.
106 M .E., II, 77.
107 M.E., lll; çfr. 82.
108 M.E., 128.
109 Ivi.
110 M .E., 253.
111 M.E., 157.
112 M.E., 213.
113 M .E., 47.
114 M .E., 143.
115 M.E., 86.
116 M.E., 380.
117 M.E., 206.
118 Ivi.
119 M.E., 212.
120 M.E., 49.
121 M.E., 328.
122 M.E., 69.
123 M.E., 419.
124 M .E., 482, 483.
125 M.E., 419.
126 M .E., 284.
127 M.E., 240.
128 DANTE, Convivio, IV, l, 25.
129 M.E., 257.
130 Ivi.
131 M.E., 99.
132 M.E., 301.
133 M.E., 461. La convenzionalità deliberata, la ricerca calcolata dell'astratto e di ciò che si definisce ideale, quali sono praticate nel designing moderno e nell'arte arcaizzante, rispecchiano in e1Ietti un tipo diverso di attività, non «lo sceverare il meglio che posso », ma ciò che più mi piace.
134 M.E., lO, 9.
135 M .E., II, 93.
136 Cfr. Sukranitisiira, IV, 4, 159-160.
137 M.E., 94.
138 M.E., 253.
139 M.E., II, 203.
140 M.E., 17.
141 M.E., 206.
142 M .E., 238.
143 M .E., 352; cfr. Pafiçavifitia Briihamat;za, VI, 9, 18.
144 M.E., 427.
145 M .E., 237.
146 M.E., 129.
147 M.E., 427; cfr. 261.
148 M .E., 238.
149 M.E., 238.
150 M.E., 72; II, 290: «Dice il pagano
Aristotele: "Se non vi fosse né casa né luogo della casa né i materiali
per costruirla, vi sarebbe un unico essere, una sola materia la quale, essendo separata, è come un'altra anima" »; SAN TOMMASO, S. Th., 23,
3: «La struttura d'una casa riproduce esternàmente il verbo mentale o
idea dell'architettò, ma non lo riproduce come forma intelligibile,
perché la forma o struttura della casa nella materia non è una realtà
intelligibile come lo era invece nella mente dell'architetto (Forma
domus exterius constitutae assimilatur verbo mentali artificis secundum
speciem formae, non autem secundum intelligibilitatem, quia forma domus
in materia non est intelligibilis, sicut erat in mente artificis) ».
151 M.E., 23.
152 M .E., 18.
153 M.E., 162.
154 M.E., 163; cfr. Brhadiirat;zyalea Upani~ad, IV, 5, 6.
155 M .E., 149.
156 M.E., 308.
157 M.E., 143.
158 M.E., 308.
159 Ivi.
160 M.E., 47.
161 M.E., 225.
162 M.E., 141.
163 M.E., II, 209.
164 M .E., II, 211.
165 M.E., 252.
166 Ivi.
167 Cfr. Bhagavad Gîtâ, passim.
168 M.E., 97.
169 M.E., II, 95.
170 M.E., II, 90
171 M.E., II, 92.
172 M .E., II, 90.
173 M .E., 252.
174 M.E., 196.
175 M .E., II, 72.
176 M.E., II, 93.
177 M.E., II, 175.
178 M .E., 12.
179 M.E., 35.
180 M .E., II, 66.
181 M.E., 143.
182 M.E., 253.
183 La natura umana com'è in Dio « non appare nello specchio ... solo le sue caratteristiche vi sono visibili» (M.E., 51);
le caratteristiche sono infatti gli accidenti dell'essere, non l'uomo
in quanto tale. Per la « ritrattistica », cfr. l'espressione cinese fu-shen, «raffigurare l'immagine divina in un uomo ».
La storia della ritrattistica in Europa
offre un interessante ma forse infelice contrasto con le nozioni cinesi e
indiane di fu-sben, «ritrarre l'anima» e di sva-rupa, « aspetto intrinseco ». Traggo le seguenti citazioni da JITTA-ZADOKS, Ancestral Portraiture in Rome, Amsterdam
1932, pp. 87, 92 s. La tendenza al realismo e l'uso delle maschere
funebri sono «due connesse conseguenze di una identica mentalità ...
Essa darà luogo sia a una ritrattistica fortemente realista (il
cosiddetto verismo), sia alla pratica di modellare la maschera del
volto» sul modello vivo. Ebbene, le effigi tombali entrarono in uso
intorno al 1200: «Queste statue rappresentavano le fattezze del morto
non nel suo ultimo, reale aspetto, ma in quello che egli sperava e
confidava di avere nel giorno del Giudizio. Ciò ... traspare evidente
dall'espressione serena e felice di tutti i volti, parimenti giovani e
avvenenti e privi di qualsiasi traccia di individualità. Ma verso la
fine del secolo XIII... l'interesse si stornò dal futuro celeste al
presente mondano. Le fattezze del morto, ora, non erano più quelle che
egli avrebbe potuto avere un giorno, ma quelle che lo avevano realmente
contraddistinto in vita. Occorreva dunque badare alla maggiore o minore
rassomiglianza ... L'ultimo risultato di questo progressivo interesse al
realismo fu l'entrata in uso della maschera ricavata direttamente sul
volto ... razionalismo e realismo subentravano a un tempo ... La
maschera mortuaria fu realmente di aiuto all'artista per accostarsi alla
natura, insegnandogli come costruire il volto ... (infine)... si passò
alla scultura vera e propria, il volto fu modellato dall'interno come un
facsimile di quello reale ». La storia dell'arte europea
postrinascimentale mostra più la volontà di procedere a una rianimazione
di cadaveri nel loro ostello di carne (cfr. « Speculum », aprile 1933,
tav. XI) che a una risurrezione dalla morte in una forma più gloriosa. E
si comincia a comprendere perché Sukràciirya aveva potuto definire asvargya l'arte del ritratto. «La ritrattistica appartiene alle civiltà che temono la morte» (KRAMRISCH, Indian Sculpture, p. 134).
Con riferimento alla raffigurazione
dell'aspetto dei defunti non come apparivano in vita ma come « speravano
di apparire nel giorno del Giudizio », si confrontino: l) in India, ma
soprattutto in Cambogia e a Giava, la pratica di rappresentare gli
antenati nell'aspetto della divinità cui erano stati devoti in vita; 2)
nel Saddharma PU1Jq,arika, la risurrezione dei passati Buddha e
Bodhisattva in corpi gloriosi, di cui l'iconografia riproduce sempre
gli «elementi esemplari», cioè i lineamenti (laksana),
trascurando invece gli aspetti individuali accidentali dai quali l'uomo
avrebbe potuto riconoscere le fattezze terrene al tempo della loro
attività nel mondo.
184 M.E., II, 51.
185 M.E., 143.
186 M.E., 308.
187 M.E., 149.
188 M.E., 22.
189 M.E., II, 8.
190 M.E., II, 14, eccetera.
191 M.E., Il, 93.
192 M.E., Il, 11; dr. Bhagavad Gita, III, 33.
193 M.E., 425; cfr. Bhagavad Gita, III, 16 e 25.
194 M.E., 165.
195 M.E., 440.
196 M.E., 16.
197 M.E., II, 174.
198 M.E., 95.
199 M.E., 479.
200 M.E., 255.
201 M.E., 360.
202 M.E., 253, 384.
203 M.E., 12.
204 ' M.E., 36.
205 M.E., 82.
206 M.E. , 47.
207 M.E., 200.
208 M.E., 81.
209 M.E., 142, 240.
210 M.E., 147, 148.
211 M.E., 366.
212 M.E., 399.
213 M.E., 72.
214 M.E., 282.