"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 7 aprile 2014

A.K. Coomaraswamy, Nirukta = Hermeneia*

A.K. Coomaraswamy
Nirukta = Hermeneia*

 

Sono ben note a ogni studioso dei testi vedici quelle che l'erudizione moderna designa come «etimologie popolari». A mo' d'esempio si può citare la Chandogya-Upanishad (VIII, 3,3): «In verità, quest'Atmâ è dentro il cuore[1] (êsha âtmâ hridy)».
Ed ecco, di que­sta espressione, il nirukta (in greco hermeneia): «Que­sti è dentro il cuore (hridy ayam)» è questa la ragione per cui il cuore è chiamato hridayam. Chi abbia capito ciò entra ogni giorno in Cielo».
In Yaska[2], natural­mente, gli esempi abbondano, come questo, tratto dal Nirukta, V, 14: «Pushkara significa “mondo interme­diario”, perché quest'ultimo “nutre” (poshafi) le cose che emergono all'esistenza[3]. L'acqua è anch'essa detta pushkara, in quanto è mezzo d'adorazione (pûjâkara) e “deve essere venerata” (pûjayitavya) essa stessa. In­tesa come “loto” (pushkara), la parola ha la medesima origine, poiché il loto è un ornamento (vapushkara), ed un “fiore” (pushya), perché “fiorisce” (pushyafê)». Spiegazioni simili sono in genere respinte come «gio­chetti etimologici» (Eggeling), «essenzialmente artifi­ciali» (Keith), «di alta fantasia» (Mazumdar), o più semplicemente come «giochi di parole». 
E tuttavia gli eruditi s'accorgono in qualche modo che non possono ignorarle completamente, che, come scrive l'ultimo de­gli autori citati (Indian Culture, II, p. 378), «si tro­vano in molte Upanishad spiegazioni immaginose... te­stimonianza di scarse conoscenze grammaticali e di an­cora peggiori conoscenze linguistiche; e nonostante ciò i grammatici, che pur non le tengono per corrette, al loro proposito tacciono»: in altre parole, i più antichi grammatici della lingua sanscrita, le cui capacità scien­tifiche sono universalmente riconosciute, non hanno ri­portato queste «spiegazioni» nelle loro «grammati­che», ma nel contempo non le hanno nemmeno mai condannate. 
La verità è che il nirukta non è una branca della filologia nel senso moderno della parola; una spiega­zione ermeneutica può o non coincidere con il pedigree di fatto della parola in questione. 
Il nirukta (=herme­neia) si fonda su una teoria del linguaggio di cui la filologia e la grammatica sono semplici rami; si può dire, anzi, i rami più secondari. Ciò dico, naturalmente, non senza rispetto, e il più sincero, per quei «leviatani della scienza, irreprensibili nella loro onniscienza, che attraversano senza fremere l'oceano della linguistica, l'esplorano nei suoi più tenebrosi abissi, e quando non si azzuffino tra di loro, si gettano sugli audaci pescio­lini che, pur nuotando in superficie, hanno la sfrontatezza di avventurarsi a loro rischio e pericolo tra i flutti»[4], e sarò sempre pronto ad accettare il consiglio di tali giganti su qualunque questione di genealogia verbale. L'etimologia, che è un'eccellente cosa finché sa stare al suo posto, è nondimeno proprio una di quelle «scienze moderne che altro non sono, nel senso più letterale della parola, se non “residui” di scienze antiche, oggi incomprese»[5]. Nell'India, la scienza tra­dizionale del linguaggio costituisce l'argomento della Pûrva-Mîmânsâ, della quale è caratteristico l'«insistere sul principio dell'eternità dei suoni articolati[6] e sulla conseguente dottrina secondo cui la connessione d'un suono con il suo significato non è data da una conven­zione, ma è invece connaturale alla parola stessa».
Sen­nonché quando il professor Macdonell, dopo questa ec­cellente osservazione, aggiunge (Sanskrit Literature, 1905, pag. 400) che «a motivo del suo scarso interesse filosofico, questo sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei», egli evidentemente vuol solo affermare che questo argomento non ha un parti­colare interesse per lui e per coloro che condividono le sue idee, poiché non si può supporre che abbia vo­luto deliberatamente escludere Platone dal numero dei «filosofi».
Non solamente infatti Platone si avvale del metodo ermeneutico nel Cratilo, allorché, per esempio, spiega che «ciò che ha chiamato» (tô kalésan) le cose con il loro nome s'identifica al «bello» (tô kalôn), ma nell'intero corso di questo stesso dialogo s'occupa del problema della relazione che unisce i suoni ai significati, e vuoi stabilire se questa relazione sia essenziale oppure accidentale.
La sua conclusione è che il vero nome di una cosa è quello che ha un senso naturale (in sanscrito sahaja), vale a dire quello che è realmente una «imitazione» (mîmesis, in sanscrito: pratikriti) della cosa stessa in termini di suono, esattamente come, nella pittura, le cose sono «imitate» in termini di colore; tuttavia, a motivo dell'imperfezione che di fatto si riscontra nell'imitazione fonetica — la quale può considerarsi conseguente ad una reminiscenza imperfetta — la formazione delle parole di cui ci serviamo ha dovuto essere facilitata da certi artifici, sicché il loro significato è in parte convenzionale. Un passaggio del Cratilo ci dice cosa bisogna intendere per «significato naturale»: esso è quello sul quale Socrate e Cratilo si trovano d'accordo quando affermano che «la lettera rho (in sanscrito ri, r) esprime le idee di rapidità, movimento e durezza».
Cratilo sostiene del resto che «colui che conosce i nomi, conosce anche le cose che essi esprimono»; il che equivale ad asserire che «colui che per primo diede i nomi alle cose» l'ha fatto con una certa conoscenza della loro natura; egli afferma pertanto che questo primo «impositore di nomi» (in sanscrito nâmadhâh) dev'essere stato «una potenza più che umana» e che i nomi dati in origine alle cose erano necessariamente i loro veri nomi.
Viene inoltre spiegato che vi sono due specie di nomi, quelli che si riferiscono al movimento e quelli che concernono il riposo, e tutti designano piuttosto degli atti che delle cose agenti. Socrate, a sua volta, riconosce che la riscoperta dell'essere reale, astraendo dalle sue denominazioni, può «superare sia la mia che la tua capacità».
La dottrina indù ugualmente insegna (Bridad-dêvatâ, I, 27; Nirukta, I, 1 e 12, ecc.) che «i nomi sono tutti derivati da azioni»: se indicano un'azione, i nomi sono dei verbi, e sono sostantivi allorquando qualcuno, o una cosa, è considerato come l'agente d'una azione. Non bisogna scordare che il termine sanscrito nâma non significa solamente «nome», ma anche «forma» (in senso aristotelico e scolastico), «idea», «ragione eterna»[7]. «Il suono e il significato» (sbabdârtha) sono strettamente connessi; troviamo anzi questa stessa espressione impiegata come un'immagine dell'unione perfetta, qual'è quella tra Shiva e Shakti, tra l'essenza e la natura, tra l'atto e la potenza in divinis. I nomi sono la causa dell'esistenza; si può affermare che in ogni cosa composta (sattva, nâmarûpa) il «nome» (nâma) è «la forma» del «fenomeno» (rûpa), nel senso in cui si dice che «l'anima è la forma del corpo». Nello stato di non-essere (asat) o d'oscurità (tamas), i nomi dei princìpi individuali non sono ancora proferiti, essi sono «nascosti» (nâmâni gubyâ, apâchyâ, ecc.; Rig-Vêda, passim)[8]; l'essere nominati corrisponde al passaggio dalla morte alla vita. Lo stesso eterno Avatâra, come il bambino (kumâra) d'un padre senza bontà, domanda un nome, poiché «è mediante il nome che s'allontana il male (pâpmânam apahanti)» (Shatapatha- Bràhmana, VI, 1-3, 9); ciò che gli esseri più temono nel loro cammino è di venire privati dei loro nomi da parte delle potenze della Morte, che sta in agguato, pronta a carpire (Krivir nâmâni provanê mushayati - Rig-Vêda, V, 44). «È grazie al suo nome immortale (amartyêna nâmnâ) che Indra sopravvive alle generazioni umane» (ibid., VI, 18). Fintantoché un principio individuale rimane in atto, questi conserva un nome; il mondo dei «nomi» è il mondo della «vita»: «Quando un uomo muore, ciò che non lo abbandona è il nome ; il nome è senza fine , e poiché "senza fine sono gli Angeli Molteplici (vishvêdêvas), grazie al nome egli conquista il mondo senza fine (Brihadaranyaka-Upanishad, III, 2, 12)».
È con l'enunciazione dei nomi che una «potenza più che umana» non solo designa correttamente le cose esistenti, ma da anche loro l'essere; e se il Creatore è capace di ciò è perché conosce tutti i nomi nascosti, o «titanici» delle cose che non si sono ancora manifestate nel loro proprio dominio; è mediante questa prescienza dei nomi delle cause seconde che egli compie quanto dev'essere compiuto, compresa la creazione di tutti gli esseri individuali[9].
Leggiamo per esempio nel Rig-Vêda: «Mediante i nomi delle Quattro (Stagioni) ha messo in movimento la ruota (dell'Anno), che è trainata da novanta corsieri» (I, 15.5-6) «Tu, o Maghavan (Indra), conosci certamente tutti i tuoi nomi di Titano mediante i quali hai compiuto le tue potenti imprese» (X, 54-4); «Varuna conosce i nomi segreti e nascosti; fa fiorire ogni locuzione (kâvyâ purû pushyati), così come la luce del cielo fa fiorire ogni specie (pushyati rûpam)» (VIII, 41-5). È per la stessa influenza che i mantra sono efficaci; cfr. per esempio il Panchavirmasha-Brâhmana (VI, 9, 5 e 10-3): «Con la parola “nato” (jata) egli fa nascere (jîjamat)... Dicendo “le vite” egli anima tutti i “viventi”», e la Brihadâranyaka Upanishad (I, 5, 18): «In verità è la Parola divina, in virtù della quale qualsiasi cosa egli dica viene all'esistenza».
È dunque in virtù d'un atto di «previdenza» divina che tutte le cose vengono prodotte: «Varuna conosce tutte le cose nel loro principio intellettuale (vishvam sa vêda varuno yathâ dhiyâ)» (Rig-Vêda, X, 11, 1). «II Creatore dell'universo, il Veggente celeste che percepisce ogni cosa con uno sguardo (samdrik), e che è chiamato "l'Unico di là dai sette rishis"... e che è chiamato l’unico Dominatore degli Angeli (yo dêvânâm êka êva) verso il quale si rivolgono tutti gli altri esseri per la loro istruzione (samprashna)» (ibid., X, 82, 2-3). Quest'ultimo passaggio dev'essere confrontato con quel (i devâ) «grazie ai servigi da loro resi nel corso dei sacrifici, ottennero i loro nomi rituali e produssero i loro nobili corpi». Essere nominati, ricevere un nome, equivale a nascere, ad essere in vita. Questa creazione per via di denominazione può essere considerata sotto due aspetti: per l'«unico Denominatore» l'enunciazione è, come egli stesso, unica; per i principi individuali questo Significato unico, che contiene tutti i significati, è verbalmente diviso: «Con le loro parole lo resero molteplice, lui che è Uno» (Rig-Vêda, X, 114). Ma, nella misura in cui questa divisione sacrificale è una contrazione ed una identificazione alla diversità, deve essere ben chiaro che il nome, anche se indispensabile per il cammino da percorrere, non rappresenta la meta finale: «La Parola (vach) è la corda, e i nomi sono i nodi coi quali tutti gli esseri sono legati» (Aitarêya-Aranyaka, II, 1, 6). La fine è essenzialmente identica al principio: è solamente quando «non è più nutrito dal nome e dalla forma (nâma-rûpâd-vibhuktah) che il Conoscitore (vidvân) raggiunge quell'Uomo celeste che è di là dall'aldilà; conoscendo Brahma, egli diventa Brahma» (Mundaka-Upanishad, III, 18-19), «Così com'è dei fiumi che scorrendo si dirigono verso il mare... là dove il loro nome e la loro forma sono distrutti e non si parla più che del mare» (Prashna-Upanishad, VI, 5). «L'anima esigente — dice Eckhart - non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome». «Quando ci si perde nella Divinità, ogni definizione sparisce», e per questo aggiunge: «Signore, la mia fortuna proviene dal fatto che voi non pensate mai a me»: di tutte queste affermazioni si potrebbero trovare molti altri equivalenti, tratti dalle fonti cristiane, islamiche o indù.
Si può così intravedere una teoria dell'espressione secondo cui la denominazione e resistenza individuale appaiono come aspetti inseparabili, e possono essere dissociate dal pensiero solo se considerate «obiettivamente», ma coincidono nel soggetto. Teoria che è quella di un'unica Lingua vivente che nessun individuo può conoscere nella sua totalità, ma che rappresenta la sintesi di tutti i suoni articolati e corrisponde nello stesso tempo a tutte le forme d'esistenza. Il «Verbo proferito» da Dio è precisamente questa «somma di tutte le lingue» (vachikam sarvamayan; Abhinaya Darpana)[10]. Tutte le lingue esistenti sono delle eco di questa lingua universale; queste eco rappresentano dei ricordi parziali e sono più o meno frammentarie, così come tutte le visioni sono rifrazioni più o meno opache del «Quadro del Mondo» (jagach-chitra: Shankarâchârya, Svâtmanirûpana, 95) o dello «Specchio eterno» (speculum seternum: S. Agostino, De Civitate Dei, XII, 29): conoscere questa lingua universale, o percepire questo Quadro del Mondo, nella sua totalità ed in modo simultaneo, equivale ad essere onniscienti. L'enunciazione originaria, inesauribile ed indistruttibile (akshara) (il mantra «om»), è pregna di tutti i significati possibili ed è ritenuta non solo un suono, ma anche una «luce onniforme» (jyotir visha-rûpam; Vâjasanêyi-Samhitâ, V, 35). Essa è la «forma esemplare» delle cose più diverse e, sia sotto il suo aspetto sonoro che sotto quello luminoso, è precisamente «quella sola cosa che, una volta conosciuta, le cose tutte sono conosciute» (Mundaka-Upanishad, I, 3; cfr. Brihadâranyaka-Upanishad, II, 4-5).
L'Idea - l'aspetto «paterno» - e il linguaggio o il mezzo d'espressione - l'aspetto «materno» -, i quali formano nella loro identità originaria il principio primo della conoscenza, sono evidentemente inaccessibili all'osservazione dei sensi[11]: fintantoché una coscienza individuale può ancora considerarsi tale, fintantoché può essere «distinta», non può aversi onniscenza, e la sol cosa che possiamo fare è «rivolgerci per la nostra istruzione al Denominatore unico» (Rig-Vêda, X, 82), cioè verso quella «potenza più che umana» alla quale accenna Platone, affinchè con degli atti di «reminiscenza» ci sia dato di riacquistare le nostre potenzialità perdute, elevando il livello della nostra conoscenza con tutti i mezzi a nostra disposizione. La dottrina metafisica d'una Lingua universale non dev'essere intesa nel senso che sia stata effettivamente parlata da un qualche popolo della terra; l'idea metafisica d'una Lingua universale è in realtà l'idea del Suono unico, non quella di gruppi di suoni che sarebbero stati proferiti successivamente; ed è proprio a questi gruppi che noi pensiamo quando impieghiamo l'espressione «lingua parlata». Tale lingua non ci fornisce infatti alcuna conoscenza a priori del pensiero da esprimere, e certe volte «è difficile stabilire se sia il pensiero ad essere difettoso o se lo sia invece il linguaggio che non è riuscito ad esprimerlo» (Keith, op.cit., pag. 54).
Una supposizione che più naturalmente deriva dall'ermeneutica tradizionale (nirukta), è che sussistano nelle lingue parlate diverse tracce d'universalità e, in particolare, tracce d'una mimêsis naturale (con ciò, ovviamente, non intendiamo una semplice rassomiglianza onomatopeica, bensì una vera e propria analogia); e che, anche nelle lingue ampiamente modificate dall’artificio e dalla convenzione, sussista una parte importante di simbolismo, e d'un simbolismo naturalmente adeguato. In altri termini, basterebbe infatti constatare che certe consonanze, che possono solo eventualmente corrispondere al pedigree di fatto delle parole, offrono nondimeno svariate indicazioni sulle loro affinità e significati: proprio come quando riscontriamo certe somiglianze, sia fisiche che di carattere, al di fuori d'una linea di discendenza diretta. Tutto ciò differisce enormemente dalla concezione corrente delle «etimologie popolari»: non si tratta infatti di etimologie in senso stretto, ma piuttosto di assonanze significative[12]; e, in tutti i casi, se proprio si vuole parlare d'una tradizione «popolare», questa tradizione concerne il popolo unicamente per la sua trasmissione e non certo per la sua origine; il folk-lore e la philosophia perennis provengono da una fonte comune.
Ignorare il nirukta equivale a porsi inutilmente in uno stato d'inferiorità nell'affrontare l'esegesi di testi tradizionali. Si osservi, al contrario, l'atteggiamento molto più intelligente di Omikron: «Cambiando opinione mi misi a consultare costantemente tutti gli anti chi lessici e frammenti lessicali che potei procurarmi, poiché ritenevo che, in questi primi dizionari ellenici, gli antichi saggi avessero raccolto diversi significati esatti, nonché svariate indicazioni riguardanti le espressioni simboliche ed allegoriche. Una particolare attenzione accordai alla strana Hermeneia degli antichi grammatici, ritenendo che le loro interpretazioni fossero basate su valide ragioni, anche quando, come fanno generalmente, diverse sono le spiegazioni che danno per la stessa parola»[13]. Non si può pretendere che le relazioni esistenti tra i suoni ed i significati vengano seriamente studiate nell'epoca moderna, anche solo in modo puramente empirico; abbiamo infatti avuto modo di constatare, come testimonia Macdonell, che «il sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei». Anche se ricerche del genere sono state tentate con risultati incerti o negativi, ciononostante resterà pur sempre vero che l'ermeneutica (nirukta), com'è stata effettivamente praticata dagli autori dell'antichità, ci fornisce un aiuto inestimabile per la comprensione del senso dei simboli verbali di cui da la spiegazione.
I termini impiegati nelle Scritture tradizionali hanno quasi sempre un carattere eminentemente tecnico e racchiudono tanti significati, corrispondenti a diversi gradi d'approfondimento, che lo stesso «nominalista» dovrebbe, dal punto di vista della semantica, sentirsi debitore dell'ermeneuta.

* Pubblicato sul n° 10 della Rivista di Studi Tradizionali del 1964, traduzione di Ubaldo Zalino.


[1] Cioè «in voi », nel senso dell'espressione evangelica «In voi è il Regno dei Cieli ». 
[2] L'autore del Nirukta, raccolta di spiegazioni ermeneutiche, che può considerarsi il più antico commentario del Rig-Veda a noi pervenuto. 
[3] Lo spazio situato tra il Cielo e la Terra, l'essere ed il nonessere, la luce e l'oscurità, l'essenza e la natura, è precisamente il «luogo dei possibili », la «terra promessa» di ogni nascita e divenire. 
[4] Standish Hayes O'Grady, Silva Gadelica, I892, II, V. 
[5] René Guénon, La Crise du Monde moderne, I927, pago 103. 
[6] L'« eternità del Veda» viene talvolta mal compresa. «Eterno» vuoI dire «senza durata », «fuori dal tempo» (akr11a) e quindi « sempre presente ». L'« eternità» della tradizione non ha niente a che vedere con l'assegnazione d'una data ad una Scrittura, cosÌ come avviene per un'opera letteraria. Secondo un'espressione di S. Tommaso, «Il Verbo divino è eterno, e lo è pure l'atto col quale è scritto il Libro della Vita, anche se la sua promulgazione, dal punto di vista di chi ascolta o legge, non è sempiterna » (Summa, I, II, 9I, art. I, 2). 
[7] Vedere il mio articolo «Vedic Exemplarism» nel Haward Journal 01 Asiatic Studies, 1936. 
[8] «Quando i nomi ancora non erano, né v'era segno d'una esistenza dotata d'un nome» (DjellàleddIn-Runll, Diwan-i-Shams-i-Tabriz, XVII, trad. Nicholson). 
[9] È per noi del tutto normale considerare «i nomi come le conseguenze delle cose» (Aristotile, citato da Dante nella Vita Nuova), perché la nostra conoscenza delle cose non è quella dell'essenza, ma quella degli accidenti; nella nostra aspirazione verso la conoscenza dell'essenza, i nomi rappresentano un mezzo per arrivarvi e non dovrebbero venir confusi con la conoscenza stessa. Non si dimentichi tuttavia che, dal punto di vista del Creatore, cioè quella «potenza più che umana» di cui parla Platone, sono i nomi ad aver preceduto le cose, quelle stesse cose che erano da Lui conosciute già prima che fossero; questa «prescienza» (in sanscrito prajna, nel greco degli Gnostici prognosis) è « anteriore» alle cose non in un senso temporale, ma nel senso che, non essendo derivata dalle cose, è la causa della loro esistenza. Per Lui che già possiede la conoscenza dell'essenza, nominare è la stessa cosa che creare. Dal punto di vista dello « Spirito primordiale », «le cose sono le conseguenze dei no~i». Cfr. Baynes, A coptic Gnostic Treatise, 1933, pago 30: «Gli Gnostici con "l'enunciazione del nome" intendevano la manifestazione dei caratteri distintivi e delle qualità essenziali di un essere; la forma, nel senso metafisico della parola, era in tal modo conferita all'essere che veniva a trovarsi imprigionato, per cosi dire, nei . limiti della sua propria natura, quella stessa natura che era stata definita per effetto dell'" enunciazione del nome" ». 
[10] Di là dal non-manifestato (avyakta, cioè Prakriti), secondo il commento di Shankaracharya. 
[11] E quindi, secondo il dire d'uno studioso moderno, «esse non hanno per noi senso alcuno, né possono essere considerate oggetti di conoscenza» (Keith, Aitaréya-Aranyaka, 1909, pago 42). Ma questa « conoscenza» è proprio ciò che corrisponde al sanscrito avidya, poiché si tratta d'una conoscenza relativa o d'una «opinione », intesa come distinta dalla certezza. Se «il sistema (della Pt1rva-Mimansa) non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei» non è perché, come ritiene Macdonell, la teoria del suono sia priva d'ogni interesse filosofico (o meglio, metafisico), ma piuttosto perché lo studioso moderno non s'interessa ai princìpi ma solo ai «fatti », non alla verità ma a certe predizioni globali basate sulla probabilità. E queste considerazioni valgono nei confronti di qualsiasi altra scienza tradizionale. Ogni tradizione ci propone i mezzi più appropriati per incamminarci verso 1'« esperienza assoiuta ». Chi non si preoccupa di utilizzare questi mezzi non può poi mettersi a negare che conducono, come s'afferma, a un Principio, che è precisamente anirukta, che non è una cosa e che non è qui o là, e nello stesso tempo è fonte di tutte le cose ed è ovunque presente. Ciò che maggiormente ripugna al nominali sta è che, una volta ammessa la possibilità d'una « esperienza assoluta », non se ne può fornire una dimostrazione razionale in un'aula universitaria, né è possibile un controllo sperimentale. Si tratta d'un caso del tutto simile a quello del Cogito ergo sum, che può rappresentare per ogni individuo una prova sufficiente della sua esistenza cosciente, mentre che nessuna prova di questa esistenza può essere portata al solipsista, non potendo quest'ultimo conoscere per intuizione diretta la coscienza di un'altra «persona». 
[12] Cfr., per esempio, René Guénon, L'Esotérisme de Dante, 1925, pago 92, nota 2: «Non pretendiamo che vi sia tra i termini Agnus e Ignis (equivalente latino di Agni) qualche cosa di più di quelle similitudini fonetiche alle quali abbiamo accennato in precedenza, le quali pur non corrispondendo a nessuna parentela linguistica propriamente detta, tuttavia non sono puramente accidentali ». 
[13] Omikron, Letters from Paulos, London, 1920, Introduzione.