Scritti sull’esoterismo islamico e il Taoismo
Appendice. Recensioni sull’esoterismo islamico
Appendice. Recensioni sull’esoterismo islamico
Libri
W.B. Seabrook, Aventures
en Arabie, Gallimard, Paris, 1934.
Questo libro, come gli altri dello stesso autore tradotti in precedenza (L’Île magique e Les Secrets de la jungle), si distingue per qualità dai consueti «racconti di viaggio», senza dubbio perché qui abbiamo a che fare con qualcuno che non si porta appresso ovunque vada idee preconcette e, soprattutto, non è affatto persuaso che gli Occidentali siano superiori a tutti gli altri popoli. Certo, talvolta vi sono delle ingenuità, singolari stupori di fronte a cose molto semplici ed elementari, ma questo ci sembra, tutto sommato, una garanzia di sincerità.
Per la verità il titolo è un po’ fuorviante, visto che l’autore non è stato nell’Arabia propriamente detta, ma solo nelle regioni situate immediatamente a nord di essa. Diciamo anche, per esaurire subito le critiche, che le parole arabe sono talvolta deformate in modo bizzarro, come se si fosse tentato di riprodurre in maniera approssimativa i suoni senza preoccuparsi minimamente dell’ortografia, e che alcune frasi citate sono tradotte in modo piuttosto fantasioso. Infine, abbiamo potuto constatare una volta di più un fatto curioso: nei libri occidentali destinati al «grande pubblico» la shahâdah non è mai, per così dire, riprodotta esattamente; è un fatto accidentale, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che ne impedisce la pronuncia alla massa dei lettori ostili o semplicemente indifferenti?
La prima parte, la più lunga, tratta della vita dei beduini ed è quasi esclusivamente descrittiva, il che non vuol certo dire che sia priva di interesse; ma nel seguito vi è qualcosa di più. Nella parte in cui si parla dei dervisci, si trovano in particolare alcune considerazioni di uno sheykh mawlawî, il cui senso è, senza alcun dubbio, riprodotto fedelmente: così, per dissipare l’incomprensione manifestata dall’autore riguardo a certe turuq, lo sheykh gli spiega che «per giungere a Dio non vi è una sola via stretta e diretta, ma un numero infinito di sentieri»; peccato che non abbia avuto la possibilità di fargli anche comprendere che il Sufismo non ha nulla in comune con il panteismo né con l’eterodossia... Viceversa, nelle altre due parti si tratta proprio di sette eterodosse, e anche piuttosto enigmatiche: i Drusi e gli Yezidi; sugli uni e gli altri il volume contiene informazioni interessanti, senza peraltro avere la pretesa di far tutto conoscere e tutto spiegare. Quanto ai Drusi, un punto che resta particolarmente oscuro riguarda il culto di un «vitello d’oro» o di una «testa di vitello», che viene loro attribuito; è qualcosa che potrebbe forse dar luogo a numerosi accostamenti, di cui l’autore pare aver solamente intravisto una parte; perlomeno egli ha capito che il simbolismo non è idolatria... Riguardo agli Yezidi, se ne ricaverà un’idea alquanto diversa da quella data dalla conferenza di cui abbiamo trattato ultimamente nelle nostre recensioni delle riviste (numero di novembre); qui non si parla più di «Mazdeismo», in relazione a loro, e, perlomeno sotto questo aspetto, l’informazione è senza dubbio più esatta; l’«adorazione del diavolo» potrebbe però suscitare discussioni meno facili da dirimere, e la vera natura del Malah Tâwûs rimane ancora un mistero. Ma la parte forse più interessante, all’insaputa dell’autore, il quale, malgrado ciò che ha visto, si rifiuta di crederci, è quella riguardante le «sette torri del diavolo», centri di proiezione delle influenze sataniche nel mondo; che una di queste torri sia situata presso gli Yezidi del resto non dimostra affatto che siano essi stessi dei «satanisti», ma solamente che, come accade per molte sette eterodosse, possono essere utilizzati per facilitare l’azione di forze che ignorano. A questo proposito, è significativo che i sacerdoti regolari yezidi si astengano dall’officiare qualsiasi genere di rito in quella torre, laddove alcune specie di maghi erranti vengono spesso a trascorrervi parecchi giorni; che cosa rappresentano esattamente questi personaggi? In ogni caso, non è affatto necessario che la torre sia abitata in modo permanente, se non è altro che il supporto tangibile e «localizzato» di uno dei centri della «contro-iniziazione», ai quali presiedono gli awliyâ esh-Shaytân; costoro, attraverso la costituzione di questi sette centri, pretendono di opporsi all’influenza dei sette Aqtâb o «Poli» terrestri subordinati al «Polo» supremo, sebbene tale opposizione possa peraltro essere soltanto illusoria, in quanto la sfera spirituale rimane necessariamente preclusa alla «contro-iniziazione».[1]
Khan Sahib Khaja Khan, The Secret of Ana’l Haqq, The Hogarth Press, Madras, 1926.
Questo libro, come gli altri dello stesso autore tradotti in precedenza (L’Île magique e Les Secrets de la jungle), si distingue per qualità dai consueti «racconti di viaggio», senza dubbio perché qui abbiamo a che fare con qualcuno che non si porta appresso ovunque vada idee preconcette e, soprattutto, non è affatto persuaso che gli Occidentali siano superiori a tutti gli altri popoli. Certo, talvolta vi sono delle ingenuità, singolari stupori di fronte a cose molto semplici ed elementari, ma questo ci sembra, tutto sommato, una garanzia di sincerità.
Per la verità il titolo è un po’ fuorviante, visto che l’autore non è stato nell’Arabia propriamente detta, ma solo nelle regioni situate immediatamente a nord di essa. Diciamo anche, per esaurire subito le critiche, che le parole arabe sono talvolta deformate in modo bizzarro, come se si fosse tentato di riprodurre in maniera approssimativa i suoni senza preoccuparsi minimamente dell’ortografia, e che alcune frasi citate sono tradotte in modo piuttosto fantasioso. Infine, abbiamo potuto constatare una volta di più un fatto curioso: nei libri occidentali destinati al «grande pubblico» la shahâdah non è mai, per così dire, riprodotta esattamente; è un fatto accidentale, oppure, come sembra più probabile, c’è qualcosa che ne impedisce la pronuncia alla massa dei lettori ostili o semplicemente indifferenti?
La prima parte, la più lunga, tratta della vita dei beduini ed è quasi esclusivamente descrittiva, il che non vuol certo dire che sia priva di interesse; ma nel seguito vi è qualcosa di più. Nella parte in cui si parla dei dervisci, si trovano in particolare alcune considerazioni di uno sheykh mawlawî, il cui senso è, senza alcun dubbio, riprodotto fedelmente: così, per dissipare l’incomprensione manifestata dall’autore riguardo a certe turuq, lo sheykh gli spiega che «per giungere a Dio non vi è una sola via stretta e diretta, ma un numero infinito di sentieri»; peccato che non abbia avuto la possibilità di fargli anche comprendere che il Sufismo non ha nulla in comune con il panteismo né con l’eterodossia... Viceversa, nelle altre due parti si tratta proprio di sette eterodosse, e anche piuttosto enigmatiche: i Drusi e gli Yezidi; sugli uni e gli altri il volume contiene informazioni interessanti, senza peraltro avere la pretesa di far tutto conoscere e tutto spiegare. Quanto ai Drusi, un punto che resta particolarmente oscuro riguarda il culto di un «vitello d’oro» o di una «testa di vitello», che viene loro attribuito; è qualcosa che potrebbe forse dar luogo a numerosi accostamenti, di cui l’autore pare aver solamente intravisto una parte; perlomeno egli ha capito che il simbolismo non è idolatria... Riguardo agli Yezidi, se ne ricaverà un’idea alquanto diversa da quella data dalla conferenza di cui abbiamo trattato ultimamente nelle nostre recensioni delle riviste (numero di novembre); qui non si parla più di «Mazdeismo», in relazione a loro, e, perlomeno sotto questo aspetto, l’informazione è senza dubbio più esatta; l’«adorazione del diavolo» potrebbe però suscitare discussioni meno facili da dirimere, e la vera natura del Malah Tâwûs rimane ancora un mistero. Ma la parte forse più interessante, all’insaputa dell’autore, il quale, malgrado ciò che ha visto, si rifiuta di crederci, è quella riguardante le «sette torri del diavolo», centri di proiezione delle influenze sataniche nel mondo; che una di queste torri sia situata presso gli Yezidi del resto non dimostra affatto che siano essi stessi dei «satanisti», ma solamente che, come accade per molte sette eterodosse, possono essere utilizzati per facilitare l’azione di forze che ignorano. A questo proposito, è significativo che i sacerdoti regolari yezidi si astengano dall’officiare qualsiasi genere di rito in quella torre, laddove alcune specie di maghi erranti vengono spesso a trascorrervi parecchi giorni; che cosa rappresentano esattamente questi personaggi? In ogni caso, non è affatto necessario che la torre sia abitata in modo permanente, se non è altro che il supporto tangibile e «localizzato» di uno dei centri della «contro-iniziazione», ai quali presiedono gli awliyâ esh-Shaytân; costoro, attraverso la costituzione di questi sette centri, pretendono di opporsi all’influenza dei sette Aqtâb o «Poli» terrestri subordinati al «Polo» supremo, sebbene tale opposizione possa peraltro essere soltanto illusoria, in quanto la sfera spirituale rimane necessariamente preclusa alla «contro-iniziazione».[1]
Khan Sahib Khaja Khan, The Secret of Ana’l Haqq, The Hogarth Press, Madras, 1926.
Questo libro è la traduzione di un testo persiano, Irshâdah el-Ârifîn, dello Sheykh Ibrâhim
Gazur-i-Elahi di Shakarkote, una traduzion che però è stata divisa in capitoli,
in modo da riunire insieme tutto ciò che si riferisce a un medesimo argomento,
per renderne più agevole la comprensione. L’autore, illustrando le sue
intenzioni, parla assai inopportunamente di «propaganda degli insegnamenti
esoterici dell’Islam», come se l’esoterismo potesse prestarsi a una qualunque
forma di propaganda; se questo è stato realmente il suo obiettivo, non possiamo
però dire che egli l’abbia raggiunto, poiché i lettori sprovvisti di qualunque
previa conoscenza del tasawwuf senza
dubbio avranno difficoltà a coglierne il vero significato in una versione
inglese che è, troppo spesso, terribilmente carente e più che inesatta. Questo
difetto, cui si aggiunge, per quel che riguarda le citazioni dall’arabo, quello
di una trascrizione che le deforma in modo bizzarro, è assai deprecabile,
poiché, per chi già sa di che si tratta, sono qui esposti precetti di grande
importanza. Il punto centrale di essi è la dottrina dell’«Identità suprema»,
come suggerisce del resto il titolo, che ha il solo torto di volerla
ricollegare a una particolare formulazione, quella di el-Hallâj, mentre nel
testo non vi è traccia di niente del genere. Tale dottrina chiarisce e in
qualche modo determina tutte le considerazioni che si riferiscono ad argomenti
diversi, come i gradi dell’Esistenza, gli attributi divini, el-fanâ e el-baqâ, i metodi e gli stadi dello sviluppo iniziatico, e molti
altri ancora. La lettura di quest’opera va raccomandata non certo a coloro ai
quali si vorrebbe indirizzare una «propaganda» che sarebbe poi del tutto fuori
luogo, ma al contrario a coloro che già possiedono conoscenze sufficienti per
trarne un reale profitto.[2]
Edward Jabra Jurji, Illumination in Islamic Mysticism; a translation, with an introduction and notes, based upon a critical edition of Abû’l-Mawâhib al-Shâdhili’s treatise entitled Qawânîn Hikam al-Ishrâq, Princeton University Press, New Jersey, 1938.
La denominazione di «misticismo islamico», diffusa da Nicholson e da qualche altro orientalista, è una grossolana inesattezza, come abbiamo già spiegato in diverse occasioni: di fatto si tratta di tasawwuf, cioè di qualcosa che è di ordine essenzialmente iniziatico e nient’affatto mistico. L’autore di questo libro sembra del resto seguire con troppa facilità le «autorità» occidentali, ciò che a volte lo induce ad affermazioni un po’ strane, per esempio a dire che «è stato ormai stabilito» che il Sufismo possiede questo o quel carattere. Si direbbe davvero che si tratti di studiare qualche dottrina antica e scomparsa da lunga data, ma il Sufismo esiste tuttora e, di conseguenza, può sempre essere conosciuto direttamente, così che non vi è nulla da «stabilire» al suo riguardo. Allo stesso modo è insieme ingenua e urtante l’affermazione che «membri della confraternita shâdhilita sono stati osservati recentemente in Siria»; credevamo fosse risaputo che questa tarîqah, in una o nell’altra delle sue numerose ramificazioni, è più o meno diffusa in tutti i paesi islamici, tanto più che essa non ha certo mai voluto nascondersi; ma questa infelice «osservazione» potrebbe legittimamente indurre a domandarsi a quale singolare genere di spionaggio si dedichino certi orientalisti! Vi sono «sfumature» che probabilmente sfuggiranno ai lettori americani o europei; ma da parte di un siriano che, sebbene cristiano, è pur sempre un ibn el-Arab, ci saremmo aspettati un po’ più di «sensibilità» orientale... Passando poi ad altri punti in fondo più importanti, è spiacevole constatare che l’autore ammette la teoria dei «prestiti» e del «sincretismo»; se è «difficile determinare gli inizi del Sufismo nell’Islam», è perché, tradizionalmente, esso non ha né può avere altro «inizio» che quello dell’Islam medesimo, ed è in questioni di tal genere che converrebbe in special modo diffidare degli abusi del moderno «metodo storico». D’altra parte, la dottrina ishrâqiyyah, nel senso proprio del termine, non rappresenta che un punto di vista piuttosto particolare, quello di una certa scuola che si ricollega principalmente ad Abû’l-Futûh es-Suhrawardî (da non confondere con il capostipite della tarîqah omonima), scuola che non può essere considerata del tutto ortodossa, e alla quale certuni negano persino ogni legame reale con il tasawwuf, sia pure quale deviazione, considerandola piuttosto semplicemente «filosofica»; è alquanto sorprendente che si pretenda di farla risalire allo stesso Mohyiddîn ibn Arabî, né lo è di meno il fatto che si voglia farne discendere, per quanto indirettamente, la tarîqah shâdhilita. Quando capita di imbattersi nel termine ishrâq, come nel saggio qui tradotto, non per questo è lecito concludere che si tratta della dottrina ishrâqiyyah, così come non si ha il diritto di parlare di «illuminismo» ogniqualvolta si incontra l’equivalente occidentale di «illuminazione»; a maggior ragione un’idea come quella di tawhîd non è stata «ricavata» da questa particolare dottrina, poiché si tratta di un’idea assolutamente essenziale all’Islam in generale, anche nel suo aspetto essoterico (vi è un ramo di studi chiamato ilm et-tawhîd fra gli ulûm ez-zâhir, vale a dire le scienze insegnate pubblicamente nelle università islamiche). Tutta l’introduzione insomma è costruita su di un malinteso generato dall’uso del termine ishrâq; e lo stesso contenuto del trattato non giustifica affatto una simile interpretazione, poiché, in realtà, non vi si trova nulla che non sia tasawwuf perfettamente ortodosso.
Fortunatamente la traduzione, la parte più importante del libro, è decisamente migliore delle considerazioni che la precedono; in mancanza del testo, è senza dubbio difficile verificarne interamente l’esattezza, tuttavia è possibile averne un’idea abbastanza precisa grazie ai numerosissimi termini arabi riportati, che generalmente sono resi molto bene. Vi sono però alcune parole che possono suscitare delle riserve: così, mukâshafah non è propriamente «rivelazione», ma piuttosto «intuizione»; più precisamente, si tratta di una percezione d’ordine sottile (mulâtafah, tradotto qui in modo piuttosto sorprendente con amiability), inferiore, almeno quando il termine è inteso in senso stretto, alla contemplazione pura (mushâhadah). Non riusciamo a comprendere la traduzione di muthûl, che implica essenzialmente un’idea di «similitudine», con attendance, tanto più che âlam el-muthûl di solito è il «mondo degli archetipi»; baqâ è più «permanenza» che «sussistenza»; dîn non può essere reso con «fede», che in arabo è îmân; kanz el-asrâr er-rabbâniyyah non significa «i segreti del tesoro divino» (che sarebbe asrar el-kanz el-ilâhî), ma «il tesoro dei segreti dominicali» (esiste una differenza importante, nella terminologia «tecnica», fra ilâhî e rabbânî). Sarebbe senza dubbio possibile rilevare ancora qualche altra inesattezza dello stesso genere, ma in fin dei conti tutto ciò è poca cosa nell’insieme e, avendo la traduzione del trattato un interesse incontestabile, il libro, eccezion fatta per l’introduzione, merita in definitiva di essere raccomandato a tutti coloro che studiano l’esoterismo islamico.[3]
Émile Dermenghem, Contes Kabyles, Charlot, Algeri, 1945.
Edward Jabra Jurji, Illumination in Islamic Mysticism; a translation, with an introduction and notes, based upon a critical edition of Abû’l-Mawâhib al-Shâdhili’s treatise entitled Qawânîn Hikam al-Ishrâq, Princeton University Press, New Jersey, 1938.
La denominazione di «misticismo islamico», diffusa da Nicholson e da qualche altro orientalista, è una grossolana inesattezza, come abbiamo già spiegato in diverse occasioni: di fatto si tratta di tasawwuf, cioè di qualcosa che è di ordine essenzialmente iniziatico e nient’affatto mistico. L’autore di questo libro sembra del resto seguire con troppa facilità le «autorità» occidentali, ciò che a volte lo induce ad affermazioni un po’ strane, per esempio a dire che «è stato ormai stabilito» che il Sufismo possiede questo o quel carattere. Si direbbe davvero che si tratti di studiare qualche dottrina antica e scomparsa da lunga data, ma il Sufismo esiste tuttora e, di conseguenza, può sempre essere conosciuto direttamente, così che non vi è nulla da «stabilire» al suo riguardo. Allo stesso modo è insieme ingenua e urtante l’affermazione che «membri della confraternita shâdhilita sono stati osservati recentemente in Siria»; credevamo fosse risaputo che questa tarîqah, in una o nell’altra delle sue numerose ramificazioni, è più o meno diffusa in tutti i paesi islamici, tanto più che essa non ha certo mai voluto nascondersi; ma questa infelice «osservazione» potrebbe legittimamente indurre a domandarsi a quale singolare genere di spionaggio si dedichino certi orientalisti! Vi sono «sfumature» che probabilmente sfuggiranno ai lettori americani o europei; ma da parte di un siriano che, sebbene cristiano, è pur sempre un ibn el-Arab, ci saremmo aspettati un po’ più di «sensibilità» orientale... Passando poi ad altri punti in fondo più importanti, è spiacevole constatare che l’autore ammette la teoria dei «prestiti» e del «sincretismo»; se è «difficile determinare gli inizi del Sufismo nell’Islam», è perché, tradizionalmente, esso non ha né può avere altro «inizio» che quello dell’Islam medesimo, ed è in questioni di tal genere che converrebbe in special modo diffidare degli abusi del moderno «metodo storico». D’altra parte, la dottrina ishrâqiyyah, nel senso proprio del termine, non rappresenta che un punto di vista piuttosto particolare, quello di una certa scuola che si ricollega principalmente ad Abû’l-Futûh es-Suhrawardî (da non confondere con il capostipite della tarîqah omonima), scuola che non può essere considerata del tutto ortodossa, e alla quale certuni negano persino ogni legame reale con il tasawwuf, sia pure quale deviazione, considerandola piuttosto semplicemente «filosofica»; è alquanto sorprendente che si pretenda di farla risalire allo stesso Mohyiddîn ibn Arabî, né lo è di meno il fatto che si voglia farne discendere, per quanto indirettamente, la tarîqah shâdhilita. Quando capita di imbattersi nel termine ishrâq, come nel saggio qui tradotto, non per questo è lecito concludere che si tratta della dottrina ishrâqiyyah, così come non si ha il diritto di parlare di «illuminismo» ogniqualvolta si incontra l’equivalente occidentale di «illuminazione»; a maggior ragione un’idea come quella di tawhîd non è stata «ricavata» da questa particolare dottrina, poiché si tratta di un’idea assolutamente essenziale all’Islam in generale, anche nel suo aspetto essoterico (vi è un ramo di studi chiamato ilm et-tawhîd fra gli ulûm ez-zâhir, vale a dire le scienze insegnate pubblicamente nelle università islamiche). Tutta l’introduzione insomma è costruita su di un malinteso generato dall’uso del termine ishrâq; e lo stesso contenuto del trattato non giustifica affatto una simile interpretazione, poiché, in realtà, non vi si trova nulla che non sia tasawwuf perfettamente ortodosso.
Fortunatamente la traduzione, la parte più importante del libro, è decisamente migliore delle considerazioni che la precedono; in mancanza del testo, è senza dubbio difficile verificarne interamente l’esattezza, tuttavia è possibile averne un’idea abbastanza precisa grazie ai numerosissimi termini arabi riportati, che generalmente sono resi molto bene. Vi sono però alcune parole che possono suscitare delle riserve: così, mukâshafah non è propriamente «rivelazione», ma piuttosto «intuizione»; più precisamente, si tratta di una percezione d’ordine sottile (mulâtafah, tradotto qui in modo piuttosto sorprendente con amiability), inferiore, almeno quando il termine è inteso in senso stretto, alla contemplazione pura (mushâhadah). Non riusciamo a comprendere la traduzione di muthûl, che implica essenzialmente un’idea di «similitudine», con attendance, tanto più che âlam el-muthûl di solito è il «mondo degli archetipi»; baqâ è più «permanenza» che «sussistenza»; dîn non può essere reso con «fede», che in arabo è îmân; kanz el-asrâr er-rabbâniyyah non significa «i segreti del tesoro divino» (che sarebbe asrar el-kanz el-ilâhî), ma «il tesoro dei segreti dominicali» (esiste una differenza importante, nella terminologia «tecnica», fra ilâhî e rabbânî). Sarebbe senza dubbio possibile rilevare ancora qualche altra inesattezza dello stesso genere, ma in fin dei conti tutto ciò è poca cosa nell’insieme e, avendo la traduzione del trattato un interesse incontestabile, il libro, eccezion fatta per l’introduzione, merita in definitiva di essere raccomandato a tutti coloro che studiano l’esoterismo islamico.[3]
Émile Dermenghem, Contes Kabyles, Charlot, Algeri, 1945.
Ciò che soprattutto rende interessante, dal nostro punto di
vista, questa antologia di «racconti popolari» dell’Africa del Nord sono
l’introduzione e le note che li accompagnano, in cui sono esposte idee generali
sulla natura del «folklore universale». L’autore fa notare molto giustamente
che «il vero interesse delle letterature popolari non consiste nelle
filiazioni, influenze e dipendenze dall’esterno», ma risiede soprattutto nel
fatto che esse depongono «a favore dell’unità delle tradizioni». Egli mette in
evidenza l’insufficienza del punto di vista «razionalista ed evoluzionista» al
quale si attiene la maggior parte dei folkloristi e degli etnologi, con le loro
teorie sui «riti stagionali» e altre cose dello stesso ordine; e a proposito
del significato propriamente simbolico dei racconti e del carattere veramente
«trascendente» del loro contenuto, egli ricorda alcune delle considerazioni
esposte su queste pagine da noi stessi e da alcuni dei nostri collaboratori.
Tuttavia, dispiace che l’autore abbia creduto di dover malgrado tutto lasciare
un certo spazio a concezioni ben poco compatibili con le precedenti: fra i
presunti «riti stagionali» e i riti iniziatici, fra la sedicente «iniziazione
tribale» degli etnologi e la vera iniziazione, bisogna necessariamente
scegliere; anche se è vero, ed è normale, che l’esoterismo ha il suo riflesso e
la sua corrispondenza nel versante essoterico delle tradizioni, occorre in ogni
caso evitare di mettere sullo stesso piano il Principio e le sue applicazioni
secondarie; per quanto riguarda queste ultime, bisognerebbe anche, nel caso in
esame, considerarle prescindendo completamente dalle idee
antitradizionalistiche dei nostri contemporanei sulle «società primitive». E
che dire d’altra parte dell’interpretazione psicoanalitica, la quale, in
realtà, approda alla pura e semplice negazione del «sopraconscio» confondendolo
con il «subconscio»? Aggiungiamo inoltre che l’iniziazione, intesa nel suo vero
senso, non ha né può avere assolutamente niente di «mistico»; è particolarmente
irritante constatare il perpetuarsi di questo equivoco a dispetto di tutti i
chiarimenti che abbiamo potuto fornire sull’argomento... Le note e i commenti
mostrano soprattutto le molteplici similitudini esistenti fra i racconti cabili
e quelli di altri paesi assai diversi, ed è appena il caso di dire che tali
accostamenti presentano un particolare interesse come «illustrazioni» del
carattere universale del folklore. Un’ultima nota tratta delle formule iniziali
e finali dei racconti, che corrispondono palesemente a quelle che segnano, in
generale, l’inizio e la fine della celebrazione di un rito, e che sono in
rapporto, come abbiamo spiegato altrove, con la «coagulazione» e la «soluzione»
ermetiche. Quanto ai racconti stessi, sembrano resi con la massima fedeltà
consentita da una traduzione e sono inoltre di lettura assai piacevole.[4]
Émile Dermenghem, Le Mythe de Psyché dans le folklore nord-africain, Société Historique Algérienne, Algeri.
In questo secondo studio sul folklore, si tratta dei numerosi racconti in cui, nell’Africa del Nord come del resto in molti altri paesi, si ritrovano uniti o dispersi gli elementi principali del ben noto mito di Psiche; «non vi è per così dire uno solo di questi elementi che non suggerisca un senso iniziatico e rituale; né ve ne è uno solo che non si possa ritrovare nel folklore universale». Vi sono poi delle varianti, la più notevole delle quali è «la forma invertita in cui l’essere mistico sposato è femminile»; i racconti di questo tipo «sembrano sottolineare l’aspetto attivo, della conquista, come se rappresentassero l’aspetto dello sforzo umano piuttosto che quello passivo e teocentrico»; questi due aspetti sono evidentemente complementari l’uno all’altro. Che poi Apuleio, che non ha certo inventato il mito, abbia potuto ispirarsi, per certi particolari della versione da lui data nell’Asino d’oro, a una «tradizione orale popolare africana», non è impossibile; ma non bisogna dimenticare che raffigurazioni relative a questo mito si incontrano già in monumenti greci anteriori di parecchi secoli; d’altronde il problema delle «fonti» ha tanto minor peso in quanto la stessa diffusione del mito mostra che occorrerebbe risalire molto più indietro per trovarne l’origine, sempre che in simili casi si possa parlare propriamente di un’origine; del resto il folklore come tale non può mai essere l’origine di alcunché, poiché, al contrario, esso è costituito soltanto da «sopravvivenze», e ciò è anzi la sua ragion d’essere. D’altra parte, il fatto che certi tratti corrispondano a usi, interdizioni o altre regole che effettivamente esistettero in materia di matrimonio in questo o quel paese non prova assolutamente nulla contro la presenza di un senso superiore, dal quale, diremmo invece noi, quelle stesse usanze possono essere derivate, sempre per la ragione che l’essoterismo ha il suo principio nell’esoterismo, sicché il senso superiore e iniziatico, ben lungi dall’essere un’«aggiunta» successiva, in realtà esiste da sempre. L’esame dei rapporti fra il mito di Psiche (e i racconti con esso imparentati) e i misteri antichi, che conclude lo studio di Émile Dermenghem, è particolarmente degno di interesse, così come lo è l’indicazione di certi parallelismi con il tasawwuf; a tale riguardo, aggiungeremo solo che somiglianze come quelle osservabili fra la terminologia del tasawwuf e il vocabolario platonico non devono affatto essere prese per segni di un qualsivoglia «prestito», poiché il tasawwuf è propriamente ed essenzialmente islamico, e gli accostamenti di questo genere non fanno altro che affermare nel modo più categorico possibile l’«unanimità» della tradizione universale in tutte le sue forme.[5]
Henri Corbin, Suhrawardî d’Alep, fondateur de la doctrine illuminative (ishrâq), G.-P. Maisonneuve, Paris, 1939.
Suhrawardî di Aleppo, al quale è consacrato questo opuscolo, è stato spesso chiamato esh-Sheykh el-maqtûl[6] per distinguerlo dai suoi omonimi, sebbene, a dire il vero, non si sappia con esattezza se effettivamente egli fu ucciso o si lasciò morire di fame in carcere.
La parte propriamente storica è redatta coscienziosamente e offre un quadro accurato della sua vita e delle sue opere; ma vi sono diverse riserve da fare su alcune interpretazioni, come anche su affermazioni riguardo a supposte «fonti», del tutto ipotetiche: segnatamente, ritroviamo qui l’idea singolare, cui abbiamo accennato in un recente articolo, che ogni angelologia debba trarre la propria origine dal Mazdeismo. D’altra parte, l’autore non ha saputo opportunamente distinguere fra questa dottrina ishrâqiyyah, che non si ricollega ad alcuna silsilah regolare, e il vero tasawwuf: è assai azzardato affermare, sulla base di qualche somiglianza esteriore, che «Suhrawardî si situa nella linea di el-Hallâj»; e certo non bisognerebbe prendere alla lettera la parola di uno dei suoi ammiratori che lo designa come «il maestro dell’istante», poiché tali espressioni sono spesso impiegate in modo del tutto iperbolico. Senza dubbio egli deve aver subito in una certa misura l’influenza del tasawwuf, ma, in fondo, sembra davvero essersi ispirato a idee neoplatoniche cui ha dato una forma islamica, e per questa ragione generalmente la sua dottrina viene considerata come qualcosa che in realtà rientra soltanto nell’ambito della filosofia; ma gli orientalisti sono mai riusciti a comprendere la differenza profonda che separa il tasawwuf da ogni filosofia? Infine, benché ciò abbia, tutto considerato, soltanto un’importanza secondaria, ci domandiamo perché Henri Corbin abbia sentito talvolta il bisogno di imitare, a un punto tale che si potrebbero confondere, lo stile complicato e piuttosto oscuro di Louis Massignon.[7]
Marie-Louise Dubouloz-Laffin, Le Bou-Mergoud, Folklore tunisien, G.-P. Maisonneuve, Paris, 1946.
Questo grosso volume corredato di disegni e fotografie si occupa in modo particolare, come indica il sottotitolo, delle «credenze e usanze popolari di Sfax e della sua regione»: esso testimonia, e non è questo il suo minor merito, di uno spirito molto più «simpatetico» di quel che di solito mostrano le «indagini» di questo genere, le quali, bisogna pur dirlo, troppo spesso assomigliano vagamente a una sorta di «spionaggio». Tale è del resto la ragione per cui gli «informatori» sono così difficili da trovare, e comprendiamo assai bene la ripugnanza che prova la maggior parte delle persone a rispondere a questionari indiscreti, tanto più che esse non possono naturalmente indovinare le ragioni di tanta curiosità riguardo a cose che per loro sono del tutto consuete.
Mme Dubouloz-Laffin, per le sue mansioni di professoressa e per la sua mentalità aperta, era certamente più di molti altri in condizione di ottenere risultati soddisfacenti, e si può dire che, in generale, è riuscita egregiamente a condurre a buon fine il compito che si era prefissa. Ciò non significa tuttavia che nel suo lavoro non vi siano difetti, e questo senza dubbio era in certa misura inevitabile: a nostro giudizio, uno dei difetti principali consiste nel fatto che l’autrice sembra attribuire un carattere puramente regionale a molte cose che in realtà sono comuni sia a tutta l’Africa del Nord, sia perfino all’intero mondo islamico. D’altra parte, in alcuni capitoli ciò che concerne gli elementi musulmani ed ebraici della popolazione si trova mescolato in modo un po’ confuso; sarebbe stato utile non solo creare una separazione più netta, ma anche, per quanto riguarda gli Ebrei tunisini, mettere in evidenza ciò che loro appartiene specificamente e ciò che è stato soltanto trasmesso loro dall’ambiente musulmano che li circonda. Vi è un’altra cosa, che certo è solo un dettaglio secondario, e però rende la lettura del libro poco agevole: i termini arabi vi sono riportati con un’ortografia assolutamente inconsueta, che ha il palese intento di riprodurre una pronuncia locale ascoltata e trascritta in modo assai approssimativo; anche giudicando appropriato conservare queste forme bizzarre, di cui però noi non riusciamo a scorgere l’interesse, sarebbe stato almeno opportuno indicare a lato le forme corrette, in mancanza delle quali alcune parole sono quasi irriconoscibili. Aggiungeremo anche qualche osservazione che riguarda piuttosto il modo di concepire il folklore in generale: è invalsa l’abitudine di farvi rientrare cose assai disparate, il che può essere più o meno giustificato a seconda dei casi, ma quel che ci appare del tutto inspiegabile è che vi si includano fatti realmente verificatisi in circostanze note, senza che né «credenze» né «usanze» vi abbiano parte alcuna; anche qui troviamo esempi di questo genere, così, in particolare, non riusciamo a immaginare a che titolo un caso recente e debitamente documentato di «possessione» o di «casa stregata» possa inquadrarsi nell’ambito del folklore. È poi singolare lo stupore che sempre mostrano gli Europei di fronte a fatti che, in un ambiente diverso dal loro, sono assolutamente normali e consueti, a tal punto che non vi si presta alcuna attenzione; e spesso si ha perfino la sensazione che, se non è capitato loro di constatarlo personalmente, essi abbiano molta difficoltà a credere a quanto viene loro riferito; anche di tale atteggiamento abbiamo riscontrato tracce in quest’opera, sebbene meno accentuate che in altre dello stesso genere. Quanto al contenuto del libro, la parte più ampia concerne in primo luogo i jinn (jnun) e i loro vari interventi nella vita degli uomini, poi, argomento più o meno collegato al precedente, la magia e la stregoneria, nelle quali si trova inclusa anche la medicina; forse lo spazio accordato a temi di questo genere è un po’ eccessivo, e va lamentato il fatto che, al contrario, non vi sia quasi nulla sui «racconti popolari», che pure non devono mancare nella regione studiata come in qualunque altra, poiché ci sembra che proprio i racconti, in definitiva, costituiscano il fondo stesso del vero folklore, inteso in senso stretto. L’ultima parte, dedicata ai «marabutti», è piuttosto sommaria ed è certamente la meno soddisfacente, anche sotto il semplice profilo «documentario»; è vero che, per più di una ragione, questo argomento era probabilmente il più difficile da trattare, ma perlomeno non vi ritroviamo il fastidioso pregiudizio, troppo diffuso in Occidente, che vuole si tratti di qualcosa di estraneo all’Islam, e che si sforza persino di scoprirvi, conclusione cui è sempre possibile arrivare con un po’ di immaginazione «erudita», vestigia di non si sa bene quali culti scomparsi da parecchi millenni![8]
Riviste
Le «Études carmélitaines» (numero di aprile) pubblicano la traduzione di un lungo studio di Miguel Asin Palacios su Ibn Abbâd de Ronda, con il titolo: Un précurseur hispano-musulman de saint Jean de la Croix. Questo studio è interessante soprattutto per i numerosi testi che vi sono citati, e d’altra parte rivela una simpatia di cui la direzione della rivista ha creduto di doversi scusare con una nota abbastanza curiosa: «si prega il lettore di guardarsi dall’attribuire alla parola “precursore” un significato troppo esteso»; sembra quasi che, se certe cose devono essere dette, non è tanto perché sono vere quanto perché altrimenti qualcuno potrebbe rimproverare alla Chiesa di non riconoscerle, e servirsene contro di essa! Disgraziatamente l’esposizione dell’autore è viziata da cima a fondo da un difetto capitale, cioè dalla troppo frequente confusione tra l’esoterismo e il misticismo; l’autore anzi non parla affatto di esoterismo, ma lo scambia puramente e semplicemente per misticismo; questo errore è poi ulteriormente aggravato dall’uso di un linguaggio specificamente «ecclesiastico», che è quanto di più estraneo vi possa essere all’Islam in generale e all’esoterismo in particolare, e che produce quasi una sensazione di disagio. La scuola shâdhilita, alla quale apparteneva Ibn Abbâd, è essenzialmente iniziatica e se vi sono somiglianze esteriori con mistici come san Giovanni della Croce, ad esempio nel vocabolario, ciò non toglie che i punti di vista siano profondamente diversi: così, il simbolismo della «notte» non ha certamente il medesimo significato in ambedue i casi, e il rifiuto dei «poteri» esteriori non presuppone i medesimi intenti; dal punto di vista iniziatico, la «notte» corrisponde a uno stato di non-manifestazione (dunque superiore agli stati manifestati, rappresentati dal «giorno»: si tratta insomma dello stesso simbolismo che si trova nella dottrina indù), e se i «poteri» devono effettivamente essere abbandonati, almeno come regola generale, è perché costituiscono un ostacolo alla conoscenza pura; non pensiamo che le cose stiano esattamente in questi termini dal punto di vista dei mistici. Si impone un’osservazione di carattere generale, nella quale d’altronde Asin Palacios non entra in alcun modo, dato che non gli si può addossare la responsabilità di una certa utilizzazione dei suoi lavori. Il fatto che da qualche tempo sulle «Études carmélitaines» vengano regolarmente pubblicati articoli consacrati alle dottrine orientali, la cui più evidente caratteristica è di sforzarsi di presentare tali dottrine come «mistiche», sembra proprio derivare dalle stesse intenzioni cui si deve la traduzione del libro di padre Dandoy di cui parliamo altrove, e una semplice occhiata all’elenco dei collaboratori di questa rivista giustifica interamente tale impressione. Collegando questi fatti alla campagna anti-orientale che i nostri lettori ben conoscono e nella quale ambienti cattolici svolgono parimenti un ruolo preciso, non si può, in un primo momento, non stupirsi, poiché pare di scorgervi una certa incoerenza; ma, riflettendo, si arriva a domandarsi se un’interpretazione tendenziosa come questa non costituisca anch’essa, sebbene in maniera indiretta, uno strumento di lotta contro l’Oriente. In ogni caso, c’è proprio da temere che una apparente simpatia celi qualche pensiero recondito di proselitismo e, diciamo così, di «annessionismo»; conosciamo fin troppo lo spirito occidentale per non nutrire in proposito qualche preoccupazione: Timeo Danaos et dona ferentes![9]
«Les Nouvelles littéraires» (numero del 27 maggio) hanno pubblicato un’intervista nel corso della quale Elian J. Finbert ha creduto bene di abbandonarsi a pettegolezzi tanto fantasiosi quanto sgradevoli sul nostro conto. Abbiamo già detto molto spesso ciò che pensiamo di queste storie «personali»: esse sono in se stesse prive del minimo interesse; rispetto alla dottrina le individualità non contano e non devono mai apparire. Oltre a tale questione di principio, riteniamo che chiunque non sia un malfattore abbia il più assoluto diritto a che il segreto della sua vita privata sia rispettato e nulla di ciò che ne fa parte sia reso pubblico senza il suo consenso. Del resto, se il signor Finbert si diverte con questo genere di aneddoti, può facilmente trovare fra gli «uomini di lettere» suoi confratelli un numero sufficiente di persone la cui vanità non chiede di meglio che di essere appagata con tali sciocchezze, così da lasciare in pace coloro che di ciò farebbero volentieri a meno e che non intendono prestarsi al «divertimento» di chicchessia. Per quanto grande sia la ripugnanza che proviamo a parlare di queste cose, ci preme, per l’edificazione di quanti fra i nostri lettori fossero già a conoscenza dell’intervista in questione, rettificare perlomeno alcune delle inesattezze (per usare un eufemismo) di cui è farcito tale grottesco racconto. Per cominciare, dobbiamo dire che il signor Finbert, quando lo incontrammo al Cairo, non commise affatto la grossolana scortesia di cui si vanta: non ci chiese «che cosa fossimo venuti a fare in Egitto», e fece bene, perché l’avremmo prontamente messo a posto! In seguito, visto che ci «rivolgeva la parola in francese», gli rispondemmo allo stesso modo, e non certo «in arabo» (e, per sovrappiù, tutti coloro che ci conoscono sia pure di sfuggita sanno come siamo capaci di parlare «con aria compunta»!); ma quel che è vero, lo riconosciamo volentieri, è che la nostra risposta dovette essere «esitante»... semplicemente perché, conoscendo la reputazione di cui gode il nostro interlocutore (a torto o a ragione, non è affar nostro), eravamo piuttosto infastiditi al pensiero di essere visti in sua compagnia; e proprio per evitare il rischio di un nuovo incontro all’aperto accettammo di andare a visitarlo alla pensione dove alloggiava. Là forse ci è capitato, nel corso della conversazione, di pronunciare incidentalmente qualche parola in arabo, e in questo non c’è niente di così straordinario; ma ciò di cui siamo perfettamente sicuri è che non si è affatto parlato di «confraternite» (né «aperte» né «chiuse», ma in ogni caso nient’affatto «mistiche»), poiché si tratta di un argomento che, per molte ragioni, era bene non affrontare con il signor Finbert. Parlammo solo, in termini assai vaghi, di persone in possesso di determinate conoscenze tradizionali, e a tale proposito ci dichiarò che gli facevamo intravedere cose di cui ignorava totalmente l’esistenza (e ce lo scrisse perfino, dopo il suo ritorno in Francia).
Del resto, non ci chiese di presentarlo a qualcuno e ancor meno di «condurlo nelle confraternite», per cui non fummo costretti a opporgli un rifiuto; e neppure ci diede «l’assicurazione che era iniziato [sic] già da molto tempo alle loro pratiche e che vi era considerato come un musulmano»(!), ed è stata per noi una fortuna, perché non avremmo potuto, a dispetto di ogni buona creanza, evitare di scoppiare a ridere! Dal seguito, dove si parla di «mistica popolare» (il signor Finbert sembra tenere in modo speciale a questa espressione), di «concerti spirituali» e altre cose espresse in modo tanto confuso quanto occidentale, abbiamo capito senza troppa difficoltà dove fosse riuscito a introdursi: luoghi talmente seri... che vi si conducono persino i turisti! Aggiungeremo soltanto che, nel suo ultimo romanzo intitolato Le Fou de dieu (che è servito di pretesto all’intervista), il signor Finbert ha dato la giusta misura della conoscenza che può avere dello spirito dell’Islam: non vi è un solo musulmano al mondo, per magzûb[10] e ignorante che si voglia supporlo, che possa immaginare di riconoscere il Mahdî (il quale non deve affatto essere «un nuovo Profeta») nella persona di un ebreo...
Ma si pensa evidentemente (e non senza qualche ragione, purtroppo) che il pubblico sarà abbastanza... mughaffal[11] da accettare qualunque cosa, dal momento che viene affermata da «un uomo venuto dall’Oriente»... ma che ne ha conosciuto solo l’«addobbo» esteriore. Se noi avessimo un consiglio da offrire al signor Finbert, sarebbe quello di dedicarsi a scrivere romanzi esclusivamente d’ambiente giudaico, dove si troverebbe certamente molto più a suo agio, e di non occuparsi più dell’Islam né dell’Oriente... né tanto meno di noi. Shuf shoghlek, yâ khawâgâ![12]
Altra faccenda di pari buon gusto: Pierre Mariel, l’amico intimo del «fu Mariani», ha pubblicato di recente su «Le Temps» una specie di romanzo-feuilleton al quale ha dato un titolo di gran lunga troppo bello per ciò di cui si tratta: L’esprit souffle où il veut, e il cui scopo principale sembra essere quello di attizzare certi odi occidentali; non ci feliciteremo con lui perché si presta a tale graziosa incombenza... Non avremmo parlato di questa cosa vergognosa se egli non avesse approfittato dell’occasione per permettersi nei nostri confronti un’insolenza del tutto gratuita, che ci obbliga a rispondergli quanto segue: primo, non siamo tenuti a dirgli ciò che noi abbiamo potuto o meno «superare», tanto più che sicuramente non ne capirebbe nulla, possiamo però assicurargli che non facciamo mai la figura del «postulante»; secondo, senza volere men che mai dire male dei Senussi, ci si consenta di affermare che non è certo a loro che deve rivolgersi chi voglia «ricevere iniziazioni superiori»; terzo, ciò che egli chiama, con un pleonasmo abbastanza comico, «gli ultimi gradini della scala iniziatica sufi» (sic), e anche i gradini che sono ancora ben lontani dall’essere gli ultimi, non si raggiungono affatto attraverso i mezzi esteriori e «umani» che egli sembra supporre, ma unicamente come risultato di un lavoro tutto interiore; inoltre, se qualcuno è stato ricongiunto alla silsilah, più nessuno può impedirgli di accedere a tutti i gradini, se ne è capace; quarto punto, infine, se esiste una tradizione in cui le questioni di razza e di origine non intervengono in nessun modo, è certamente l’Islam, che infatti conta fra i suoi seguaci uomini appartenenti alle razze più diverse. Peraltro, riappaiono in questo romanzo tutti i clichés più o meno insulsi che trovano credito presso il pubblico europeo, compresi la «Mezzaluna» e lo «stendardo verde del Profeta»; ma quale conoscenza delle cose dell’lslam ci si potrebbe attendere da parte di chi, pur sostenendo evidentemente di richiamarsi al Cattolicesimo, lo conosce talmente male da parlare di un «conclave» per la nomina di nuovi cardinali? Ed è proprio con questa «perla» (margaritas ante porcos... sia detto senza offesa per i suoi lettori) che termina il suo racconto, come se vi si dovesse vedere… il «segno del diavolo»![13]
In «Mesures» (numero di luglio), Émile Dermenghem offre uno studio, con numerose citazioni, su L’«instant» chez les mystiques et chez quelques poètes; forse occorre dolersi del fatto che egli non abbia operato, in questa esposizione, una distinzione più netta fra tre livelli che sono in realtà assai differenti: in primo luogo il senso superiore dell’«istante», di ordine propriamente metafisico e iniziatico, che è naturalmente il medesimo che si incontra in particolare nel Sufismo e anche nello Zen giapponese (in cui il satori, in quanto procedimento tecnico di realizzazione, è manifestamente affine a certi metodi taoisti); in secondo luogo il senso, già diminuito o ridotto nella sua portata, che esso prende presso i mistici; infine il riflesso più o meno lontano che ne può sussistere ancora presso certi poeti profani. D’altra parte, pensiamo che il punto essenziale, quello che, almeno nel primo caso, dà all’«istante» il suo valore profondo, risieda non tanto nella sua subitaneità (cosa del resto più apparente che reale, poiché ciò che allora si manifesta è sempre, di fatto, il risultato di un lavoro preparatorio, talvolta assai lungo, ma il cui effetto era rimasto fino a quel momento latente), quanto nel suo carattere di indivisibilità, perché è quest’ultimo che permette la sua trasposizione nell’«atemporale» e, di conseguenza, la trasformazione di uno stato transitorio dell’essere in una acquisizione permanente e definitiva.[14]
Appendice. Recensioni sul Taoismo
Libri
Henri Borel, Wu Wei, tradotto dall’olandese da Félicia Barbier, Éditions du Monde Nouveau, Paris, 1931.
La prima traduzione francese di questo libriccino era esaurita da molto tempo; siamo felici di segnalare la pubblicazione di una nuova traduzione, perché, sotto la sua apparenza semplice e senza pretese «erudite», è sicuramente una delle cose migliori che siano state scritte in Occidente sul Taoismo. Il sottotitolo: «Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao-tsz’» rischia forse di rendergli torto; l’autore lo spiega servendosi di certi appunti che gli sono stati rivolti, ma dei quali secondo noi non era obbligato a tenere conto, data soprattutto la scarsa stima in cui, a ragione, tiene le opinioni dei sinologi più o meno «ufficiali». «Mi sono sforzato soltanto» dice «di conservare, pura, l’essenza della sapienza di Lao-tsz’... L’opera di Lao-tsz’ non è un trattato di filosofia... Quel che Lao-tsz’ ci dà non sono né forme né materializzazioni, sono essenze. Il mio studio ne è impregnato, non ne è affatto la traduzione». L’opera è divisa in tre capitoli, in cui sono esposti, sotto forma di colloqui con un vecchio saggio, in primo luogo l’idea stessa del «Tao», poi alcune applicazioni particolari all’«Arte» e all’«Amore»; di questi ultimi due argomenti Lao-tseu non ha mai parlato, ma l’adattamento, benché forse un po’ particolare, è nondimeno legittimo, perché tutte le cose discendono essenzialmente dal Principio universale. Nel primo capitolo alcune trattazioni sono ispirate o persino parzialmente tradotte da Tchouang-tseu, il cui commento è sicuramente quello che meglio chiarisce le formule così concise e sintetiche di Lao-tseu. L’autore pensa a ragione che sia impossibile tradurre esattamente il termine «Tao», ma forse non ci sono tanti inconvenienti, come egli sembra credere, a renderlo con «Via», che è il senso letterale, a condizione di mettere bene in evidenza che si tratta di una designazione del tutto simbolica, e che d’altronde non può essere altrimenti, qualunque parola si adoperi, perché si tratta di ciò che in realtà non può essere nominato. Approviamo invece incondizionatamente Borel quando protesta contro l’interpretazione che i sinologi danno del termine wu wei, considerandolo equivalente a «inazione» o a «inerzia», mentre «occorre vedervi esattamente l’opposto»; del resto ci si potrà riferire a ciò che diciamo altrove su questo argomento. Citeremo soltanto questo passo, che ci sembra caratterizzare bene lo spirito del libro: «Quando tu saprai essere wu wei, non-agente, nel senso ordinario e umano del termine, tu sarai veramente, e compirai il tuo ciclo vitale senza sforzo, come l’onda che ci lambisce i piedi. Niente turberà più la tua quiete. Il tuo sonno sarà senza sogni, e ciò che entrerà nel campo della tua coscienza non ti causerà alcuna preoccupazione. Vedrai tutto nel Tao, sarai uno con tutto ciò che esiste, e la natura intera ti sarà vicina come un’amica, come il tuo stesso io. Accettando senza turbarti i passaggi dalla notte al giorno, dalla vita alla morte, sospinto dal ritmo eterno, entrerai nel Tao dove nulla cambia mai, dove tornerai puro come ne sei uscito». Consigliamo assai vivamente la lettura integrale del libro, che del resto si legge con molto piacere, con ciò senza togliere nulla al suo valore di pensiero.[15]
Bhikshu Wai-Tao e Dwight Goddard, Laotzu’s Tao and Wu-Wei, a new translation, Dwight Goddard, Santa Barbara, California; Luzac and Co., London, 1935.
Questo volume comprende una traduzione del Tao-te-king il cui principale difetto, ci sembra, è di assumere un tono sentimentale che è assai lontano dallo spirito del Taoismo; forse ciò è dovuto in parte alle tendenze «filo-buddhiste» dei suoi autori, almeno a giudicare dalla loro introduzione. Segue poi una traduzione del Wu-Wei di Henri Borel, di cui abbiamo parlato in altra occasione, ad opera di M.E. Reynolds; il libro si conclude con un cenno storico sul Taoismo, a cura del Dottor Kiang Kang-Hou, formulato purtroppo da un punto di vista assai esteriore: parlare di «filosofia» e di «religione» significa disconoscere completamente l’essenza iniziatica del Taoismo, sia in quanto dottrina puramente metafisica, sia anche nelle svariate applicazioni che ne sono derivate nell’ambito delle scienze tradizionali.[16]
Riviste
Il «Lotus bleu» (numero di agosto-settembre) pubblica, sotto il titolo: Révelations sur le Bouddhisme japonais, una conferenza di Steinilber-Oberlin sui metodi di sviluppo spirituale in uso nella setta Zen (nome derivato dal sanscrito dhyâna, «contemplazione», e non da dziena, in cui vogliamo vedere un semplice refuso); questi metodi non sembrano del resto affatto «straordinari» a chi conosce quelli del Taoismo, dai quali i primi mostrano chiaramente di essere stati in larga misura influenzati. Comunque sia, ciò è senza dubbio interessante, ma perché questa parolona, «rivelazioni», che farebbe facilmente credere al tradimento di un qualche segreto?[17]
Il «Larousse mensuel» (numero di marzo) contiene un articolo su La Religion et la Pensée chinoises: il titolo stesso è indicativo delle solite confusioni occidentali. L’articolo sembra ispirato in buona parte ai lavori di Marcel Granet, ma non alla loro parte migliore, perché in un «sunto» di questo genere la documentazione è per forza di cose assai ridotta, e restano soprattutto le interpretazioni discutibili. È piuttosto divertente vedere trattate come «credenze» conoscenze tradizionali di precisione assolutamente scientifica, oppure leggere affermazioni secondo cui «la saggezza cinese rimane estranea alle preoccupazioni metafisiche»... perché essa non prende in considerazione il dualismo cartesiano di materia e spirito e non pretende di opporre l’uomo alla natura! È quasi inutile aggiungere, dopo questo, che il Taoismo è particolarmente mal compreso: si immagina di trovarvi ogni sorta di cose, eccetto la dottrina puramente metafisica che in realtà esso è essenzialmente...[18].
Émile Dermenghem, Le Mythe de Psyché dans le folklore nord-africain, Société Historique Algérienne, Algeri.
In questo secondo studio sul folklore, si tratta dei numerosi racconti in cui, nell’Africa del Nord come del resto in molti altri paesi, si ritrovano uniti o dispersi gli elementi principali del ben noto mito di Psiche; «non vi è per così dire uno solo di questi elementi che non suggerisca un senso iniziatico e rituale; né ve ne è uno solo che non si possa ritrovare nel folklore universale». Vi sono poi delle varianti, la più notevole delle quali è «la forma invertita in cui l’essere mistico sposato è femminile»; i racconti di questo tipo «sembrano sottolineare l’aspetto attivo, della conquista, come se rappresentassero l’aspetto dello sforzo umano piuttosto che quello passivo e teocentrico»; questi due aspetti sono evidentemente complementari l’uno all’altro. Che poi Apuleio, che non ha certo inventato il mito, abbia potuto ispirarsi, per certi particolari della versione da lui data nell’Asino d’oro, a una «tradizione orale popolare africana», non è impossibile; ma non bisogna dimenticare che raffigurazioni relative a questo mito si incontrano già in monumenti greci anteriori di parecchi secoli; d’altronde il problema delle «fonti» ha tanto minor peso in quanto la stessa diffusione del mito mostra che occorrerebbe risalire molto più indietro per trovarne l’origine, sempre che in simili casi si possa parlare propriamente di un’origine; del resto il folklore come tale non può mai essere l’origine di alcunché, poiché, al contrario, esso è costituito soltanto da «sopravvivenze», e ciò è anzi la sua ragion d’essere. D’altra parte, il fatto che certi tratti corrispondano a usi, interdizioni o altre regole che effettivamente esistettero in materia di matrimonio in questo o quel paese non prova assolutamente nulla contro la presenza di un senso superiore, dal quale, diremmo invece noi, quelle stesse usanze possono essere derivate, sempre per la ragione che l’essoterismo ha il suo principio nell’esoterismo, sicché il senso superiore e iniziatico, ben lungi dall’essere un’«aggiunta» successiva, in realtà esiste da sempre. L’esame dei rapporti fra il mito di Psiche (e i racconti con esso imparentati) e i misteri antichi, che conclude lo studio di Émile Dermenghem, è particolarmente degno di interesse, così come lo è l’indicazione di certi parallelismi con il tasawwuf; a tale riguardo, aggiungeremo solo che somiglianze come quelle osservabili fra la terminologia del tasawwuf e il vocabolario platonico non devono affatto essere prese per segni di un qualsivoglia «prestito», poiché il tasawwuf è propriamente ed essenzialmente islamico, e gli accostamenti di questo genere non fanno altro che affermare nel modo più categorico possibile l’«unanimità» della tradizione universale in tutte le sue forme.[5]
Henri Corbin, Suhrawardî d’Alep, fondateur de la doctrine illuminative (ishrâq), G.-P. Maisonneuve, Paris, 1939.
Suhrawardî di Aleppo, al quale è consacrato questo opuscolo, è stato spesso chiamato esh-Sheykh el-maqtûl[6] per distinguerlo dai suoi omonimi, sebbene, a dire il vero, non si sappia con esattezza se effettivamente egli fu ucciso o si lasciò morire di fame in carcere.
La parte propriamente storica è redatta coscienziosamente e offre un quadro accurato della sua vita e delle sue opere; ma vi sono diverse riserve da fare su alcune interpretazioni, come anche su affermazioni riguardo a supposte «fonti», del tutto ipotetiche: segnatamente, ritroviamo qui l’idea singolare, cui abbiamo accennato in un recente articolo, che ogni angelologia debba trarre la propria origine dal Mazdeismo. D’altra parte, l’autore non ha saputo opportunamente distinguere fra questa dottrina ishrâqiyyah, che non si ricollega ad alcuna silsilah regolare, e il vero tasawwuf: è assai azzardato affermare, sulla base di qualche somiglianza esteriore, che «Suhrawardî si situa nella linea di el-Hallâj»; e certo non bisognerebbe prendere alla lettera la parola di uno dei suoi ammiratori che lo designa come «il maestro dell’istante», poiché tali espressioni sono spesso impiegate in modo del tutto iperbolico. Senza dubbio egli deve aver subito in una certa misura l’influenza del tasawwuf, ma, in fondo, sembra davvero essersi ispirato a idee neoplatoniche cui ha dato una forma islamica, e per questa ragione generalmente la sua dottrina viene considerata come qualcosa che in realtà rientra soltanto nell’ambito della filosofia; ma gli orientalisti sono mai riusciti a comprendere la differenza profonda che separa il tasawwuf da ogni filosofia? Infine, benché ciò abbia, tutto considerato, soltanto un’importanza secondaria, ci domandiamo perché Henri Corbin abbia sentito talvolta il bisogno di imitare, a un punto tale che si potrebbero confondere, lo stile complicato e piuttosto oscuro di Louis Massignon.[7]
Marie-Louise Dubouloz-Laffin, Le Bou-Mergoud, Folklore tunisien, G.-P. Maisonneuve, Paris, 1946.
Questo grosso volume corredato di disegni e fotografie si occupa in modo particolare, come indica il sottotitolo, delle «credenze e usanze popolari di Sfax e della sua regione»: esso testimonia, e non è questo il suo minor merito, di uno spirito molto più «simpatetico» di quel che di solito mostrano le «indagini» di questo genere, le quali, bisogna pur dirlo, troppo spesso assomigliano vagamente a una sorta di «spionaggio». Tale è del resto la ragione per cui gli «informatori» sono così difficili da trovare, e comprendiamo assai bene la ripugnanza che prova la maggior parte delle persone a rispondere a questionari indiscreti, tanto più che esse non possono naturalmente indovinare le ragioni di tanta curiosità riguardo a cose che per loro sono del tutto consuete.
Mme Dubouloz-Laffin, per le sue mansioni di professoressa e per la sua mentalità aperta, era certamente più di molti altri in condizione di ottenere risultati soddisfacenti, e si può dire che, in generale, è riuscita egregiamente a condurre a buon fine il compito che si era prefissa. Ciò non significa tuttavia che nel suo lavoro non vi siano difetti, e questo senza dubbio era in certa misura inevitabile: a nostro giudizio, uno dei difetti principali consiste nel fatto che l’autrice sembra attribuire un carattere puramente regionale a molte cose che in realtà sono comuni sia a tutta l’Africa del Nord, sia perfino all’intero mondo islamico. D’altra parte, in alcuni capitoli ciò che concerne gli elementi musulmani ed ebraici della popolazione si trova mescolato in modo un po’ confuso; sarebbe stato utile non solo creare una separazione più netta, ma anche, per quanto riguarda gli Ebrei tunisini, mettere in evidenza ciò che loro appartiene specificamente e ciò che è stato soltanto trasmesso loro dall’ambiente musulmano che li circonda. Vi è un’altra cosa, che certo è solo un dettaglio secondario, e però rende la lettura del libro poco agevole: i termini arabi vi sono riportati con un’ortografia assolutamente inconsueta, che ha il palese intento di riprodurre una pronuncia locale ascoltata e trascritta in modo assai approssimativo; anche giudicando appropriato conservare queste forme bizzarre, di cui però noi non riusciamo a scorgere l’interesse, sarebbe stato almeno opportuno indicare a lato le forme corrette, in mancanza delle quali alcune parole sono quasi irriconoscibili. Aggiungeremo anche qualche osservazione che riguarda piuttosto il modo di concepire il folklore in generale: è invalsa l’abitudine di farvi rientrare cose assai disparate, il che può essere più o meno giustificato a seconda dei casi, ma quel che ci appare del tutto inspiegabile è che vi si includano fatti realmente verificatisi in circostanze note, senza che né «credenze» né «usanze» vi abbiano parte alcuna; anche qui troviamo esempi di questo genere, così, in particolare, non riusciamo a immaginare a che titolo un caso recente e debitamente documentato di «possessione» o di «casa stregata» possa inquadrarsi nell’ambito del folklore. È poi singolare lo stupore che sempre mostrano gli Europei di fronte a fatti che, in un ambiente diverso dal loro, sono assolutamente normali e consueti, a tal punto che non vi si presta alcuna attenzione; e spesso si ha perfino la sensazione che, se non è capitato loro di constatarlo personalmente, essi abbiano molta difficoltà a credere a quanto viene loro riferito; anche di tale atteggiamento abbiamo riscontrato tracce in quest’opera, sebbene meno accentuate che in altre dello stesso genere. Quanto al contenuto del libro, la parte più ampia concerne in primo luogo i jinn (jnun) e i loro vari interventi nella vita degli uomini, poi, argomento più o meno collegato al precedente, la magia e la stregoneria, nelle quali si trova inclusa anche la medicina; forse lo spazio accordato a temi di questo genere è un po’ eccessivo, e va lamentato il fatto che, al contrario, non vi sia quasi nulla sui «racconti popolari», che pure non devono mancare nella regione studiata come in qualunque altra, poiché ci sembra che proprio i racconti, in definitiva, costituiscano il fondo stesso del vero folklore, inteso in senso stretto. L’ultima parte, dedicata ai «marabutti», è piuttosto sommaria ed è certamente la meno soddisfacente, anche sotto il semplice profilo «documentario»; è vero che, per più di una ragione, questo argomento era probabilmente il più difficile da trattare, ma perlomeno non vi ritroviamo il fastidioso pregiudizio, troppo diffuso in Occidente, che vuole si tratti di qualcosa di estraneo all’Islam, e che si sforza persino di scoprirvi, conclusione cui è sempre possibile arrivare con un po’ di immaginazione «erudita», vestigia di non si sa bene quali culti scomparsi da parecchi millenni![8]
Riviste
Le «Études carmélitaines» (numero di aprile) pubblicano la traduzione di un lungo studio di Miguel Asin Palacios su Ibn Abbâd de Ronda, con il titolo: Un précurseur hispano-musulman de saint Jean de la Croix. Questo studio è interessante soprattutto per i numerosi testi che vi sono citati, e d’altra parte rivela una simpatia di cui la direzione della rivista ha creduto di doversi scusare con una nota abbastanza curiosa: «si prega il lettore di guardarsi dall’attribuire alla parola “precursore” un significato troppo esteso»; sembra quasi che, se certe cose devono essere dette, non è tanto perché sono vere quanto perché altrimenti qualcuno potrebbe rimproverare alla Chiesa di non riconoscerle, e servirsene contro di essa! Disgraziatamente l’esposizione dell’autore è viziata da cima a fondo da un difetto capitale, cioè dalla troppo frequente confusione tra l’esoterismo e il misticismo; l’autore anzi non parla affatto di esoterismo, ma lo scambia puramente e semplicemente per misticismo; questo errore è poi ulteriormente aggravato dall’uso di un linguaggio specificamente «ecclesiastico», che è quanto di più estraneo vi possa essere all’Islam in generale e all’esoterismo in particolare, e che produce quasi una sensazione di disagio. La scuola shâdhilita, alla quale apparteneva Ibn Abbâd, è essenzialmente iniziatica e se vi sono somiglianze esteriori con mistici come san Giovanni della Croce, ad esempio nel vocabolario, ciò non toglie che i punti di vista siano profondamente diversi: così, il simbolismo della «notte» non ha certamente il medesimo significato in ambedue i casi, e il rifiuto dei «poteri» esteriori non presuppone i medesimi intenti; dal punto di vista iniziatico, la «notte» corrisponde a uno stato di non-manifestazione (dunque superiore agli stati manifestati, rappresentati dal «giorno»: si tratta insomma dello stesso simbolismo che si trova nella dottrina indù), e se i «poteri» devono effettivamente essere abbandonati, almeno come regola generale, è perché costituiscono un ostacolo alla conoscenza pura; non pensiamo che le cose stiano esattamente in questi termini dal punto di vista dei mistici. Si impone un’osservazione di carattere generale, nella quale d’altronde Asin Palacios non entra in alcun modo, dato che non gli si può addossare la responsabilità di una certa utilizzazione dei suoi lavori. Il fatto che da qualche tempo sulle «Études carmélitaines» vengano regolarmente pubblicati articoli consacrati alle dottrine orientali, la cui più evidente caratteristica è di sforzarsi di presentare tali dottrine come «mistiche», sembra proprio derivare dalle stesse intenzioni cui si deve la traduzione del libro di padre Dandoy di cui parliamo altrove, e una semplice occhiata all’elenco dei collaboratori di questa rivista giustifica interamente tale impressione. Collegando questi fatti alla campagna anti-orientale che i nostri lettori ben conoscono e nella quale ambienti cattolici svolgono parimenti un ruolo preciso, non si può, in un primo momento, non stupirsi, poiché pare di scorgervi una certa incoerenza; ma, riflettendo, si arriva a domandarsi se un’interpretazione tendenziosa come questa non costituisca anch’essa, sebbene in maniera indiretta, uno strumento di lotta contro l’Oriente. In ogni caso, c’è proprio da temere che una apparente simpatia celi qualche pensiero recondito di proselitismo e, diciamo così, di «annessionismo»; conosciamo fin troppo lo spirito occidentale per non nutrire in proposito qualche preoccupazione: Timeo Danaos et dona ferentes![9]
«Les Nouvelles littéraires» (numero del 27 maggio) hanno pubblicato un’intervista nel corso della quale Elian J. Finbert ha creduto bene di abbandonarsi a pettegolezzi tanto fantasiosi quanto sgradevoli sul nostro conto. Abbiamo già detto molto spesso ciò che pensiamo di queste storie «personali»: esse sono in se stesse prive del minimo interesse; rispetto alla dottrina le individualità non contano e non devono mai apparire. Oltre a tale questione di principio, riteniamo che chiunque non sia un malfattore abbia il più assoluto diritto a che il segreto della sua vita privata sia rispettato e nulla di ciò che ne fa parte sia reso pubblico senza il suo consenso. Del resto, se il signor Finbert si diverte con questo genere di aneddoti, può facilmente trovare fra gli «uomini di lettere» suoi confratelli un numero sufficiente di persone la cui vanità non chiede di meglio che di essere appagata con tali sciocchezze, così da lasciare in pace coloro che di ciò farebbero volentieri a meno e che non intendono prestarsi al «divertimento» di chicchessia. Per quanto grande sia la ripugnanza che proviamo a parlare di queste cose, ci preme, per l’edificazione di quanti fra i nostri lettori fossero già a conoscenza dell’intervista in questione, rettificare perlomeno alcune delle inesattezze (per usare un eufemismo) di cui è farcito tale grottesco racconto. Per cominciare, dobbiamo dire che il signor Finbert, quando lo incontrammo al Cairo, non commise affatto la grossolana scortesia di cui si vanta: non ci chiese «che cosa fossimo venuti a fare in Egitto», e fece bene, perché l’avremmo prontamente messo a posto! In seguito, visto che ci «rivolgeva la parola in francese», gli rispondemmo allo stesso modo, e non certo «in arabo» (e, per sovrappiù, tutti coloro che ci conoscono sia pure di sfuggita sanno come siamo capaci di parlare «con aria compunta»!); ma quel che è vero, lo riconosciamo volentieri, è che la nostra risposta dovette essere «esitante»... semplicemente perché, conoscendo la reputazione di cui gode il nostro interlocutore (a torto o a ragione, non è affar nostro), eravamo piuttosto infastiditi al pensiero di essere visti in sua compagnia; e proprio per evitare il rischio di un nuovo incontro all’aperto accettammo di andare a visitarlo alla pensione dove alloggiava. Là forse ci è capitato, nel corso della conversazione, di pronunciare incidentalmente qualche parola in arabo, e in questo non c’è niente di così straordinario; ma ciò di cui siamo perfettamente sicuri è che non si è affatto parlato di «confraternite» (né «aperte» né «chiuse», ma in ogni caso nient’affatto «mistiche»), poiché si tratta di un argomento che, per molte ragioni, era bene non affrontare con il signor Finbert. Parlammo solo, in termini assai vaghi, di persone in possesso di determinate conoscenze tradizionali, e a tale proposito ci dichiarò che gli facevamo intravedere cose di cui ignorava totalmente l’esistenza (e ce lo scrisse perfino, dopo il suo ritorno in Francia).
Del resto, non ci chiese di presentarlo a qualcuno e ancor meno di «condurlo nelle confraternite», per cui non fummo costretti a opporgli un rifiuto; e neppure ci diede «l’assicurazione che era iniziato [sic] già da molto tempo alle loro pratiche e che vi era considerato come un musulmano»(!), ed è stata per noi una fortuna, perché non avremmo potuto, a dispetto di ogni buona creanza, evitare di scoppiare a ridere! Dal seguito, dove si parla di «mistica popolare» (il signor Finbert sembra tenere in modo speciale a questa espressione), di «concerti spirituali» e altre cose espresse in modo tanto confuso quanto occidentale, abbiamo capito senza troppa difficoltà dove fosse riuscito a introdursi: luoghi talmente seri... che vi si conducono persino i turisti! Aggiungeremo soltanto che, nel suo ultimo romanzo intitolato Le Fou de dieu (che è servito di pretesto all’intervista), il signor Finbert ha dato la giusta misura della conoscenza che può avere dello spirito dell’Islam: non vi è un solo musulmano al mondo, per magzûb[10] e ignorante che si voglia supporlo, che possa immaginare di riconoscere il Mahdî (il quale non deve affatto essere «un nuovo Profeta») nella persona di un ebreo...
Ma si pensa evidentemente (e non senza qualche ragione, purtroppo) che il pubblico sarà abbastanza... mughaffal[11] da accettare qualunque cosa, dal momento che viene affermata da «un uomo venuto dall’Oriente»... ma che ne ha conosciuto solo l’«addobbo» esteriore. Se noi avessimo un consiglio da offrire al signor Finbert, sarebbe quello di dedicarsi a scrivere romanzi esclusivamente d’ambiente giudaico, dove si troverebbe certamente molto più a suo agio, e di non occuparsi più dell’Islam né dell’Oriente... né tanto meno di noi. Shuf shoghlek, yâ khawâgâ![12]
Altra faccenda di pari buon gusto: Pierre Mariel, l’amico intimo del «fu Mariani», ha pubblicato di recente su «Le Temps» una specie di romanzo-feuilleton al quale ha dato un titolo di gran lunga troppo bello per ciò di cui si tratta: L’esprit souffle où il veut, e il cui scopo principale sembra essere quello di attizzare certi odi occidentali; non ci feliciteremo con lui perché si presta a tale graziosa incombenza... Non avremmo parlato di questa cosa vergognosa se egli non avesse approfittato dell’occasione per permettersi nei nostri confronti un’insolenza del tutto gratuita, che ci obbliga a rispondergli quanto segue: primo, non siamo tenuti a dirgli ciò che noi abbiamo potuto o meno «superare», tanto più che sicuramente non ne capirebbe nulla, possiamo però assicurargli che non facciamo mai la figura del «postulante»; secondo, senza volere men che mai dire male dei Senussi, ci si consenta di affermare che non è certo a loro che deve rivolgersi chi voglia «ricevere iniziazioni superiori»; terzo, ciò che egli chiama, con un pleonasmo abbastanza comico, «gli ultimi gradini della scala iniziatica sufi» (sic), e anche i gradini che sono ancora ben lontani dall’essere gli ultimi, non si raggiungono affatto attraverso i mezzi esteriori e «umani» che egli sembra supporre, ma unicamente come risultato di un lavoro tutto interiore; inoltre, se qualcuno è stato ricongiunto alla silsilah, più nessuno può impedirgli di accedere a tutti i gradini, se ne è capace; quarto punto, infine, se esiste una tradizione in cui le questioni di razza e di origine non intervengono in nessun modo, è certamente l’Islam, che infatti conta fra i suoi seguaci uomini appartenenti alle razze più diverse. Peraltro, riappaiono in questo romanzo tutti i clichés più o meno insulsi che trovano credito presso il pubblico europeo, compresi la «Mezzaluna» e lo «stendardo verde del Profeta»; ma quale conoscenza delle cose dell’lslam ci si potrebbe attendere da parte di chi, pur sostenendo evidentemente di richiamarsi al Cattolicesimo, lo conosce talmente male da parlare di un «conclave» per la nomina di nuovi cardinali? Ed è proprio con questa «perla» (margaritas ante porcos... sia detto senza offesa per i suoi lettori) che termina il suo racconto, come se vi si dovesse vedere… il «segno del diavolo»![13]
In «Mesures» (numero di luglio), Émile Dermenghem offre uno studio, con numerose citazioni, su L’«instant» chez les mystiques et chez quelques poètes; forse occorre dolersi del fatto che egli non abbia operato, in questa esposizione, una distinzione più netta fra tre livelli che sono in realtà assai differenti: in primo luogo il senso superiore dell’«istante», di ordine propriamente metafisico e iniziatico, che è naturalmente il medesimo che si incontra in particolare nel Sufismo e anche nello Zen giapponese (in cui il satori, in quanto procedimento tecnico di realizzazione, è manifestamente affine a certi metodi taoisti); in secondo luogo il senso, già diminuito o ridotto nella sua portata, che esso prende presso i mistici; infine il riflesso più o meno lontano che ne può sussistere ancora presso certi poeti profani. D’altra parte, pensiamo che il punto essenziale, quello che, almeno nel primo caso, dà all’«istante» il suo valore profondo, risieda non tanto nella sua subitaneità (cosa del resto più apparente che reale, poiché ciò che allora si manifesta è sempre, di fatto, il risultato di un lavoro preparatorio, talvolta assai lungo, ma il cui effetto era rimasto fino a quel momento latente), quanto nel suo carattere di indivisibilità, perché è quest’ultimo che permette la sua trasposizione nell’«atemporale» e, di conseguenza, la trasformazione di uno stato transitorio dell’essere in una acquisizione permanente e definitiva.[14]
Appendice. Recensioni sul Taoismo
Libri
Henri Borel, Wu Wei, tradotto dall’olandese da Félicia Barbier, Éditions du Monde Nouveau, Paris, 1931.
La prima traduzione francese di questo libriccino era esaurita da molto tempo; siamo felici di segnalare la pubblicazione di una nuova traduzione, perché, sotto la sua apparenza semplice e senza pretese «erudite», è sicuramente una delle cose migliori che siano state scritte in Occidente sul Taoismo. Il sottotitolo: «Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao-tsz’» rischia forse di rendergli torto; l’autore lo spiega servendosi di certi appunti che gli sono stati rivolti, ma dei quali secondo noi non era obbligato a tenere conto, data soprattutto la scarsa stima in cui, a ragione, tiene le opinioni dei sinologi più o meno «ufficiali». «Mi sono sforzato soltanto» dice «di conservare, pura, l’essenza della sapienza di Lao-tsz’... L’opera di Lao-tsz’ non è un trattato di filosofia... Quel che Lao-tsz’ ci dà non sono né forme né materializzazioni, sono essenze. Il mio studio ne è impregnato, non ne è affatto la traduzione». L’opera è divisa in tre capitoli, in cui sono esposti, sotto forma di colloqui con un vecchio saggio, in primo luogo l’idea stessa del «Tao», poi alcune applicazioni particolari all’«Arte» e all’«Amore»; di questi ultimi due argomenti Lao-tseu non ha mai parlato, ma l’adattamento, benché forse un po’ particolare, è nondimeno legittimo, perché tutte le cose discendono essenzialmente dal Principio universale. Nel primo capitolo alcune trattazioni sono ispirate o persino parzialmente tradotte da Tchouang-tseu, il cui commento è sicuramente quello che meglio chiarisce le formule così concise e sintetiche di Lao-tseu. L’autore pensa a ragione che sia impossibile tradurre esattamente il termine «Tao», ma forse non ci sono tanti inconvenienti, come egli sembra credere, a renderlo con «Via», che è il senso letterale, a condizione di mettere bene in evidenza che si tratta di una designazione del tutto simbolica, e che d’altronde non può essere altrimenti, qualunque parola si adoperi, perché si tratta di ciò che in realtà non può essere nominato. Approviamo invece incondizionatamente Borel quando protesta contro l’interpretazione che i sinologi danno del termine wu wei, considerandolo equivalente a «inazione» o a «inerzia», mentre «occorre vedervi esattamente l’opposto»; del resto ci si potrà riferire a ciò che diciamo altrove su questo argomento. Citeremo soltanto questo passo, che ci sembra caratterizzare bene lo spirito del libro: «Quando tu saprai essere wu wei, non-agente, nel senso ordinario e umano del termine, tu sarai veramente, e compirai il tuo ciclo vitale senza sforzo, come l’onda che ci lambisce i piedi. Niente turberà più la tua quiete. Il tuo sonno sarà senza sogni, e ciò che entrerà nel campo della tua coscienza non ti causerà alcuna preoccupazione. Vedrai tutto nel Tao, sarai uno con tutto ciò che esiste, e la natura intera ti sarà vicina come un’amica, come il tuo stesso io. Accettando senza turbarti i passaggi dalla notte al giorno, dalla vita alla morte, sospinto dal ritmo eterno, entrerai nel Tao dove nulla cambia mai, dove tornerai puro come ne sei uscito». Consigliamo assai vivamente la lettura integrale del libro, che del resto si legge con molto piacere, con ciò senza togliere nulla al suo valore di pensiero.[15]
Bhikshu Wai-Tao e Dwight Goddard, Laotzu’s Tao and Wu-Wei, a new translation, Dwight Goddard, Santa Barbara, California; Luzac and Co., London, 1935.
Questo volume comprende una traduzione del Tao-te-king il cui principale difetto, ci sembra, è di assumere un tono sentimentale che è assai lontano dallo spirito del Taoismo; forse ciò è dovuto in parte alle tendenze «filo-buddhiste» dei suoi autori, almeno a giudicare dalla loro introduzione. Segue poi una traduzione del Wu-Wei di Henri Borel, di cui abbiamo parlato in altra occasione, ad opera di M.E. Reynolds; il libro si conclude con un cenno storico sul Taoismo, a cura del Dottor Kiang Kang-Hou, formulato purtroppo da un punto di vista assai esteriore: parlare di «filosofia» e di «religione» significa disconoscere completamente l’essenza iniziatica del Taoismo, sia in quanto dottrina puramente metafisica, sia anche nelle svariate applicazioni che ne sono derivate nell’ambito delle scienze tradizionali.[16]
Riviste
Il «Lotus bleu» (numero di agosto-settembre) pubblica, sotto il titolo: Révelations sur le Bouddhisme japonais, una conferenza di Steinilber-Oberlin sui metodi di sviluppo spirituale in uso nella setta Zen (nome derivato dal sanscrito dhyâna, «contemplazione», e non da dziena, in cui vogliamo vedere un semplice refuso); questi metodi non sembrano del resto affatto «straordinari» a chi conosce quelli del Taoismo, dai quali i primi mostrano chiaramente di essere stati in larga misura influenzati. Comunque sia, ciò è senza dubbio interessante, ma perché questa parolona, «rivelazioni», che farebbe facilmente credere al tradimento di un qualche segreto?[17]
Il «Larousse mensuel» (numero di marzo) contiene un articolo su La Religion et la Pensée chinoises: il titolo stesso è indicativo delle solite confusioni occidentali. L’articolo sembra ispirato in buona parte ai lavori di Marcel Granet, ma non alla loro parte migliore, perché in un «sunto» di questo genere la documentazione è per forza di cose assai ridotta, e restano soprattutto le interpretazioni discutibili. È piuttosto divertente vedere trattate come «credenze» conoscenze tradizionali di precisione assolutamente scientifica, oppure leggere affermazioni secondo cui «la saggezza cinese rimane estranea alle preoccupazioni metafisiche»... perché essa non prende in considerazione il dualismo cartesiano di materia e spirito e non pretende di opporre l’uomo alla natura! È quasi inutile aggiungere, dopo questo, che il Taoismo è particolarmente mal compreso: si immagina di trovarvi ogni sorta di cose, eccetto la dottrina puramente metafisica che in realtà esso è essenzialmente...[18].
[1] «Études Traditionnelles», 1935, pp. 42-43.
[2] «Études Traditionnelles», 1937, p. 266.
[3] «Études Traditionnelles», 1940, pp. 166-68.
[4] «Études Traditionnelles», 1947, pp. 90-91.
[5] «Études Traditionnelles», 1947, pp. 90‑91.
[6] «Lo sheykh assassinato» [N.d.T.].
[7] «Études Traditionnelles», 1947, p. 92.
[8] «Études Traditionnelles», 1949, pp. 45-46.
[9] «Le Voile d’Isis», 1932, pp. 480-81.
[10] «Folle, stravagante» [N.d.T.].
[11] «Sciocco, ingenuo» [N.d.T.].
[12] «Signore, si faccia gli affari suoi!» [N.d.T.].
[13] «Le Voile d’Isis», 1933, pp. 434-36.
[14] «Études Traditionnelles», 1938, p. 423.
[15] «Le Voile d’Isis», 1932, pp. 604-605.
[16] «Le Voile d’Isis», 1936, p. 156.
[17] «Le Voile d’Isis», 1932.
[18] «Études Traditionnelles», 1936, p. 199.
Molto interessanti
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