Il Re del Mondo
II - Regalità
e pontificato
Il titolo di «Re del Mondo», inteso nella sua accezione più
elevata, più completa e insieme più rigorosa, viene attribuito propriamente a Manu, il Legislatore primordiale e
universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli
antichi; ricordiamo soltanto, a questo proposito, il Mina o Menes degli Egizi,
il Menw dei Celti e il Minosse dei Greci[1].
Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario. Esso designa, in realtà, un principio, l’Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (Dharma) propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; ed è, al tempo stesso, l’archetipo dell’uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito mânava).
Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario. Esso designa, in realtà, un principio, l’Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (Dharma) propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; ed è, al tempo stesso, l’archetipo dell’uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito mânava).
D’altra parte, l’importante qui è far rilevare che tale
principio può essere reso manifesto da un centro spirituale stabilito nel mondo
terrestre, da una organizzazione incaricata di conservare integralmente il
deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» (apaurushêya), per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica
attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale
organizzazione, in quanto rappresenta in certo modo Manu stesso, potrà legittimamente portarne il titolo e gli
attributi; inoltre, dato il grado di conoscenza che deve aver raggiunto per
poter esercitare la sua funzione, si identifica realmente col principio di cui
è in certo modo l’espressione umana e davanti al quale la sua individualità
scompare. Così è per l’Agarttha, se
questo centro ha raccolto, come dice Saint-Yves, l’eredità dell’antica
«dinastia solare» (Sûrya-vansha) che
risiedeva un tempo a Ayodhyâ[2] e che
faceva risalire la propria origine a Vaivaswata,
il Manu del ciclo attuale. Come già
si è detto, Saint-Yves non considera tuttavia il capo supremo dell’Agarttha quale «Re del Mondo»; lo
presenta come «Sovrano Pontefice» e inoltre lo pone a capo di una «Chiesa
brâhmanica», designazione che deriva da una concezione un po’ troppo
occidentalizzata[3]. A parte quest’ultima
riserva, ciò che egli dice completa, a questo riguardo, quanto a sua volta dice
Ossendowski; si direbbe che ciascuno dei due abbia visto soltanto l’aspetto più
direttamente corrispondente alle proprie tendenze e preoccupazioni dominanti,
poiché qui, in verità, si tratta di un doppio potere, al tempo stesso
sacerdotale e regale.
Il carattere «pontificale», nel senso più vero che ha questa
parola, appartiene realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia
iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il Pontifex è un «costruttore di ponti», e
questo titolo romano è in qualche modo, per la sua origine, un titolo
«massonico»; ma, simbolicamente, il Pontifex
è colui che adempie la funzione di mediatore, in quanto stabilisce la
comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori[4]. In
tal senso, l’arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del
«pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati
perfettamente concordanti: così, presso gli Ebrei, esso è il pegno
dell’alleanza di Dio con il suo popolo; in Cina, è il segno dell’unione del
Cielo con la Terra; in Grecia, rappresenta Iride, la «messaggera degli Dèi»; un
po’ dappertutto, presso gli Scandinavi, i Persiani, gli Arabi, in Africa
centrale e anche presso certi popoli dell’America del Nord, è il ponte che
collega il mondo sensibile a quello sovrasensibile.
Presso i Latini, poi, l’unione dei due poteri, sacerdotale e
regale, era rappresentata da un certo aspetto del simbolismo di Janus, simbolismo estremamente complesso
e dai molteplici significati; le chiavi d’oro e d’argento raffiguravano, in
tale contesto, le due iniziazioni corrispondenti[5]. Si
tratta, per usare la terminologia indù, della via dei Brâhmani e di quella degli Kshatriya;
ma, alla sommità della gerarchia, si arriva al principio comune da cui gli uni
e gli altri traggono i loro attributi rispettivi, dunque al di là della loro
distinzione, poiché lì è la sorgente di ogni autorità legittima, in qualsiasi
ambito essa si eserciti; e gli iniziati dell’Agarttha sono ativarna,
cioè «al di là delle caste»[6].
Vi era, nel medioevo, un’espressione che riuniva in sé, in
un modo che vale la pena di sottolineare, i due aspetti complementari
dell’autorità: a quell’epoca, si parlava spesso di una contrada misteriosa chiamata
«regno del prete Gianni»[7]. Era
il tempo in cui quella che si potrebbe designare la «copertura esteriore» del
centro in questione era costituita, in buona parte, dai Nestoriani (o da quanto
si è convenuto, a torto o a ragione, di chiamare così) e dai Sabei[8];
proprio questi ultimi si attribuivano il nome di Mendayyeh di Yahia, cioè «discepoli di Gianni». A questo proposito,
possiamo fare subito un’altra osservazione: è per lo meno curioso che numerosi
gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del
«Vecchio della Montagna» ai Drusi del Libano, abbiano assunto tutti, similmente
agli ordini cavallereschi occidentali, il titolo di «guardiani della Terra
Santa». Quanto segue aiuterà senza dubbio a capire meglio il significato di
tutto ciò; si direbbe che Saint-Yves abbia trovato una parola molto giusta,
forse ancor più di quanto lui pensasse, quando parla dei «Templari dell’Agarttha». Perché non ci si meravigli
dell’espressione «copertura esteriore» che abbiamo appena usato, aggiungeremo
che bisogna aver ben presente il fatto che l’iniziazione cavalleresca era
essenzialmente un’iniziazione di Kshatriya;
il che spiega, fra l’altro, il ruolo preponderante che vi svolge il simbolismo
dell’Amore[9].
A prescindere da queste ultime considerazioni, l’idea di un
personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in
Occidente, benché, proprio all’origine del Cristianesimo, essa sia
rappresentata in modo assai evidente dai «Re Magi»; ancora nel medioevo il
potere supremo (stando per lo meno alle apparenze esteriori) era diviso fra il
Papato e l’Impero[10].
Tale separazione può essere considerata il segno di un’organizzazione
incompleta al vertice, se così possiamo esprimerci, poiché non vi appare il
principio comune da cui procedono e dipendono regolarmente i due poteri; dunque
il vero potere supremo doveva trovarsi altrove. In Oriente, al contrario, il
mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia è abbastanza
eccezionale, e solo in certe concezioni buddiste si può incontrare qualcosa del
genere; intendiamo alludere alla incompatibilità dichiarata tra la funzione di Buddha e quella di Chakravartî o «monarca universale»,[11] là
dove si dice che Shâkya-Muni, a un
certo momento, dovette scegliere fra l’una e l’altra.
È opportuno aggiungere che il termine Chakravartî, che non ha nulla di particolarmente buddistico, si
adatta molto bene, in rapporto ai dati della tradizione indù, alla funzione del
Manu o dei suoi rappresentanti:
letteralmente è «colui che fa girare la ruota», colui cioè che, posto al centro
di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi egli stesso, o che,
secondo l’espressione di Aristotele, ne è il «motore immobile».[12]
Richiamiamo particolarmente l’attenzione su questo: il
centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi a
designare simbolicamente come il «Polo», perché è attorno a esso che si
effettua la rotazione del mondo, rappresentata generalmente dalla ruota, sia
presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù[13].
Tale è il vero significato dello swastika,
segno che troviamo diffuso dappertutto, dall’Estremo Oriente all’Estremo
Occidente[14], e che è essenzialmente
il «segno del Polo». Il suo senso reale viene qui fatto conoscere certamente
per la prima volta nell’Europa moderna. Gli studiosi contemporanei, di fatto,
hanno cercato invano di spiegare questo simbolo con le più fantasiose teorie;
nella maggior parte, ossessionati da una sorta di idea fissa, hanno voluto
vedervi, come in quasi ogni altra cosa, un segno esclusivamente «solare»[15],
mentre, se anche talvolta lo è diventato, ciò non è potuto avvenire che
accidentalmente e per vie traverse. Altri si sono avvicinati maggiormente alla
verità considerando lo swastika come
simbolo del movimento; ma tale interpretazione, pur non essendo falsa, è molto
riduttiva, poiché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un movimento
di rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immobile; ed è il
punto fisso, ripetiamo, l’elemento essenziale cui si riferisce direttamente il
simbolo in questione[16].
Da quanto abbiamo detto, si potrà già capire che il «Re del Mondo» deve
avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà che
non senza ragione quest’ultima parola ha la stessa radice di rex e regere), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio»
o «armonia», il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine Dharma[17]: con ciò
intendiamo il riflesso, nel mondo manifestato, dell’immutabilità del Principio
supremo. Si potrà capire anche, sulla base delle stesse considerazioni, perché
il «Re del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace»,
che sono appunto le forme rivestite specificamente da tale equilibrio e tale
armonia nel «mondo dell’uomo» (mânava-loka)[18].
Anche questo è un punto della massima importanza; e, a parte la sua portata
generale, lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certi chimerici timori di
cui si trova una qualche eco anche nelle ultime righe del libro di Ossendowski.
[1] Per i Greci Minosse era
insieme il Legislatore dei vivi e il Giudice dei morti; nella tradizione indù
queste due funzioni appartengono rispettivamente a Manu e a Yama. Essi
vengono per altro rappresentati come fratelli gemelli, il che indica che si tratta
dello sdoppiamento di un principio unico, considerato sotto due aspetti
diversi.
[2] Questa sede della «dinastia solare», se considerata
simbolicamente, può essere paragonata alla «Cittadella solare» dei Rosacroce,
come anche, senz’altro, alla «Città del Sole» di Campanella.
[3] La denominazione «Chiesa brâhmanica», di fatto, è
stata usata in India soltanto dalla setta eterodossa e moderna del Brahma-Samâj, sorta all’inizio del
secolo XIX per opera di influssi europei e specialmente protestanti, poi ben presto
divisa in numerose ramificazioni rivali e oggi quasi del tutto estinta; è
curioso notare che uno dei fondatori di tale setta fu il nonno del poeta
Rabindranath Tagore.
[4] San Bernardo dice che «il Pontefice, come indica
l’etimologia del suo nome, è una specie di ponte fra Dio e l’uomo» (Tractatus de Moribus et Officio Episcoporum,
III, 9). ‑ Vi è in India un termine peculiarmente giainista, che è
l’equivalente del Pontifex latino: è
la parola Tîrthamkara, letteralmente
«colui che passa un guado o si fa un passaggio»; il passaggio cui si allude è
la via della Liberazione (Moksha). I Tîrthamkara sono ventiquattro, come i
vecchi dell’Apocalisse, i quali, del
resto, costituiscono anch’essi un Collegio pontificale.
[5] Da un altro punto di vista, queste chiavi sono
rispettivamente quelle dei «grandi Misteri» e quelle dei «piccoli Misteri». ‑
In certe rappresentazioni di Janus, i
due poteri sono anche simboleggiati da una chiave e uno scettro.
[6] Notiamo a questo proposito che l’organizzazione
sociale del medioevo occidentale sembra essere stata, in linea di massima,
ricalcata sull’istituzione delle caste: il clero corrispondeva ai Brâhmani, la nobiltà agli Kshatriya, il terzo stato ai Vaishya, i servi agli Shûdra.
[7] Si parla segnatamente del «prete Gianni», verso
l’epoca di san Luigi, nei viaggi di Pian del Carpine e di Rubruquis. Le cose
sono complicate dal fatto che, secondo alcuni, vi sarebbero stati fino a
quattro personaggi a portare quel titolo: in Tibet (o sul Pamir), in Mongolia,
in India e in Etiopia (quest’ultima parola aveva allora del resto un
significato molto vago); ma è probabile che si tratti solo di rappresentanti
diversi di un unico potere. Si dice anche che Gengis-Khan abbia cercato di
attaccare il regno del prete Gianni, ma che questi lo abbia respinto scatenando
la folgore contro i suoi eserciti. Infine, dall’epoca delle invasioni
musulmane, il prete Gianni avrebbe cessato di manifestarsi, e sarebbe
rappresentato esteriormente dal Dalai-Lama.
[8] In Asia centrale, e particolarmente nella regione del
Turkestan, sono state trovate croci nestoriane molto simili nella forma alle
croci della cavalleria; alcune di esse, inoltre, portano al centro la figura
dello swastika. ‑ D’altra parte,
bisogna notare che i Nestoriani, le cui relazioni con il Lamaismo sembrano
incontestabili, svolsero un’azione importante, benché piuttosto enigmatica,
all’inizio dell’Islam. I Sabei, dal canto loro, esercitarono una grande
influenza sul mondo arabo al tempo dei Califfi di Bagdad; vi è chi sostiene,
inoltre, che presso di loro si siano rifugiati, dopo un soggiorno in Persia,
gli ultimi neoplatonici.
[9] Abbiamo già segnalato questa particolarità nel nostro
studio L’Ésotérisme de Dante.
[10] Nella Roma antica, per contro, l’Imperator era al tempo stesso Pontifex
Maximus. ‑ Anche la teoria musulmana del Califfato unisce, almeno in certa
misura, i due poteri, come anche avviene nella concezione estremo-orientale del
Wang (si veda La Grande Triade, cap. XVII).
[11] Abbiamo rilevato altrove l’analogia che esiste fra la
concezione del Chakravartî e l’idea
di Impero in Dante, dei quale è opportuno menzionare, a questo riguardo, il De Monarchia.
[12] La tradizione cinese usa, in un senso molto simile,
l’espressione «Invariabile Mezzo». ‑ È il caso di notare che, secondo il
simbolismo massonico, i Maestri si riuniscono nella «Camera del Mezzo».
[13] Il simbolo celtico della ruota si è conservato nel
medioevo; se ne possono trovare numerosi esempi nelle chiese romaniche e anche
il rosone gotico sembra essere derivato da questo simbolo, perché vi è una
relazione sicura fra la ruota e i fiori emblematici, quali la rosa in Occidente
e il loto in Oriente.
[14] Questo stesso segno non fu estraneo all’ermetismo
cristiano: abbiamo visto nell’antico monastero dei Carmelitani di Loudun
simboli molto curiosi, risalenti verosimilmente alla seconda metà del secolo
XV, e nei quali lo swastika, insieme
al segno di cui parleremo più
avanti, ha un’importanza centrale. È bene notare, a questo proposito, che i
Carmelitani, venuti dall’Oriente, ricollegano la fondazione del loro Ordine a
Elia e a Pitagora (come la Massoneria, dal canto suo, si ricollega sia a
Salomone sia a Pitagora stesso, il che costituisce una somiglianza molto
notevole), e che, d’altra parte, alcuni sostengono che essi, nel medioevo,
avevano un’iniziazione molto vicina a quella dei Templari, come anche i
religiosi della Mercede; si sa che quest’ultimo Ordine ha dato il suo nome a un
grado della Massoneria scozzese, della quale abbiamo parlato abbastanza a lungo
nell’Ésotérisme de Dante.
[15] La stessa osservazione si può applicare in
particolare alla ruota, della quale abbiamo appena indicato il vero
significato.
[16] Solo per ricordarla, citeremo l’opinione, ancora più
fantasiosa delle altre, che fa dello swastika
lo schema di uno strumento primitivo destinato alla produzione del fuoco; se è
vero che talvolta questo simbolo può avere un certo rapporto col fuoco, essendo
in particolare un emblema di Agni,
ciò dipende però da tutt’altre ragioni.
[17] La radice dhri
esprime essenzialmente l’idea di stabilità; la forma dhru, che ha il medesimo senso, è la radice di Dhruva, nome sanscrito del Polo, e alcuni la collegano col nome
greco della quercia, drus; in latino,
del resto, la parola robur significa
al tempo stesso quercia e forza, fermezza. Presso i Druidi (il cui nome va
forse letto dru-vid, unione di forza
e saggezza), così come a Dodona, la quercia rappresentava l’«Albero del Mondo»,
simbolo dell’asse fisso che congiunge i Poli.
[18] Bisogna ricordare qui i testi biblici nei quali la
Giustizia e la Pace si trovano strettamente collegate: «Justitia et Pax osculatæ sunt» (Salmi, LXXXIV, 11), «Pax opus Justitiæ», ecc.
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