"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 13 aprile 2014

René Guénon, Il Re del Mondo. II - Regalità e pontificato

René Guénon
Il Re del Mondo

II - Regalità e pontificato 

Il titolo di «Re del Mondo», inteso nella sua accezione più elevata, più completa e insieme più rigorosa, viene attribuito propriamente a Manu, il Legislatore primordiale e universale il cui nome si ritrova, sotto forme diverse, presso numerosi popoli antichi; ricordiamo soltanto, a questo proposito, il Mina o Menes degli Egizi, il Menw dei Celti e il Minosse dei Greci[1].
Tale nome, del resto, non indica un personaggio storico o più o meno leggendario. Esso designa, in realtà, un principio, l’Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (Dharma) propria delle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; ed è, al tempo stesso, l’archetipo dell’uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito mânava).
D’altra parte, l’importante qui è far rilevare che tale principio può essere reso manifesto da un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, da una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» (apaurushêya), per mezzo della quale la Sapienza primordiale si comunica attraverso le epoche a coloro che sono in grado di riceverla. Il capo di tale organizzazione, in quanto rappresenta in certo modo Manu stesso, potrà legittimamente portarne il titolo e gli attributi; inoltre, dato il grado di conoscenza che deve aver raggiunto per poter esercitare la sua funzione, si identifica realmente col principio di cui è in certo modo l’espressione umana e davanti al quale la sua individualità scompare. Così è per l’Agarttha, se questo centro ha raccolto, come dice Saint-Yves, l’eredità dell’antica «dinastia solare» (Sûrya-vansha) che risiedeva un tempo a Ayodhyâ[2] e che faceva risalire la propria origine a Vaivaswata, il Manu del ciclo attuale. Come già si è detto, Saint-Yves non considera tuttavia il capo supremo dell’Agarttha quale «Re del Mondo»; lo presenta come «Sovrano Pontefice» e inoltre lo pone a capo di una «Chiesa brâhmanica», designazione che deriva da una concezione un po’ troppo occidentalizzata[3]. A parte quest’ultima riserva, ciò che egli dice completa, a questo riguardo, quanto a sua volta dice Ossendowski; si direbbe che ciascuno dei due abbia visto soltanto l’aspetto più direttamente corrispondente alle proprie tendenze e preoccupazioni dominanti, poiché qui, in verità, si tratta di un doppio potere, al tempo stesso sacerdotale e regale.
Il carattere «pontificale», nel senso più vero che ha questa parola, appartiene realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il Pontifex è un «costruttore di ponti», e questo titolo romano è in qualche modo, per la sua origine, un titolo «massonico»; ma, simbolicamente, il Pontifex è colui che adempie la funzione di mediatore, in quanto stabilisce la comunicazione fra questo mondo e i mondi superiori[4]. In tal senso, l’arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli attribuiscono significati perfettamente concordanti: così, presso gli Ebrei, esso è il pegno dell’alleanza di Dio con il suo popolo; in Cina, è il segno dell’unione del Cielo con la Terra; in Grecia, rappresenta Iride, la «messaggera degli Dèi»; un po’ dappertutto, presso gli Scandinavi, i Persiani, gli Arabi, in Africa centrale e anche presso certi popoli dell’America del Nord, è il ponte che collega il mondo sensibile a quello sovrasensibile.
Presso i Latini, poi, l’unione dei due poteri, sacerdotale e regale, era rappresentata da un certo aspetto del simbolismo di Janus, simbolismo estremamente complesso e dai molteplici significati; le chiavi d’oro e d’argento raffiguravano, in tale contesto, le due iniziazioni corrispondenti[5]. Si tratta, per usare la terminologia indù, della via dei Brâhmani e di quella degli Kshatriya; ma, alla sommità della gerarchia, si arriva al principio comune da cui gli uni e gli altri traggono i loro attributi rispettivi, dunque al di là della loro distinzione, poiché lì è la sorgente di ogni autorità legittima, in qualsiasi ambito essa si eserciti; e gli iniziati dell’Agarttha sono ativarna, cioè «al di là delle caste»[6].
Vi era, nel medioevo, un’espressione che riuniva in sé, in un modo che vale la pena di sottolineare, i due aspetti complementari dell’autorità: a quell’epoca, si parlava spesso di una contrada misteriosa chiamata «regno del prete Gianni»[7]. Era il tempo in cui quella che si potrebbe designare la «copertura esteriore» del centro in questione era costituita, in buona parte, dai Nestoriani (o da quanto si è convenuto, a torto o a ragione, di chiamare così) e dai Sabei[8]; proprio questi ultimi si attribuivano il nome di Mendayyeh di Yahia, cioè «discepoli di Gianni». A questo proposito, possiamo fare subito un’altra osservazione: è per lo meno curioso che numerosi gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai Drusi del Libano, abbiano assunto tutti, similmente agli ordini cavallereschi occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa». Quanto segue aiuterà senza dubbio a capire meglio il significato di tutto ciò; si direbbe che Saint-Yves abbia trovato una parola molto giusta, forse ancor più di quanto lui pensasse, quando parla dei «Templari dell’Agarttha». Perché non ci si meravigli dell’espressione «copertura esteriore» che abbiamo appena usato, aggiungeremo che bisogna aver ben presente il fatto che l’iniziazione cavalleresca era essenzialmente un’iniziazione di Kshatriya; il che spiega, fra l’altro, il ruolo preponderante che vi svolge il simbolismo dell’Amore[9].
A prescindere da queste ultime considerazioni, l’idea di un personaggio che è sacerdote e re al tempo stesso non è molto comune in Occidente, benché, proprio all’origine del Cristianesimo, essa sia rappresentata in modo assai evidente dai «Re Magi»; ancora nel medioevo il potere supremo (stando per lo meno alle apparenze esteriori) era diviso fra il Papato e l’Impero[10]. Tale separazione può essere considerata il segno di un’organizzazione incompleta al vertice, se così possiamo esprimerci, poiché non vi appare il principio comune da cui procedono e dipendono regolarmente i due poteri; dunque il vero potere supremo doveva trovarsi altrove. In Oriente, al contrario, il mantenimento di una separazione al vertice stesso della gerarchia è abbastanza eccezionale, e solo in certe concezioni buddiste si può incontrare qualcosa del genere; intendiamo alludere alla incompatibilità dichiarata tra la funzione di Buddha e quella di Chakravartî o «monarca universale»,[11] là dove si dice che Shâkya-Muni, a un certo momento, dovette scegliere fra l’una e l’altra.
È opportuno aggiungere che il termine Chakravartî, che non ha nulla di particolarmente buddistico, si adatta molto bene, in rapporto ai dati della tradizione indù, alla funzione del Manu o dei suoi rappresentanti: letteralmente è «colui che fa girare la ruota», colui cioè che, posto al centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi egli stesso, o che, secondo l’espressione di Aristotele, ne è il «motore immobile».[12]
Richiamiamo particolarmente l’attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi a designare simbolicamente come il «Polo», perché è attorno a esso che si effettua la rotazione del mondo, rappresentata generalmente dalla ruota, sia presso i Celti sia presso i Caldei e gli Indù[13]. Tale è il vero significato dello swastika, segno che troviamo diffuso dappertutto, dall’Estremo Oriente all’Estremo Occidente[14], e che è essenzialmente il «segno del Polo». Il suo senso reale viene qui fatto conoscere certamente per la prima volta nell’Europa moderna. Gli studiosi contemporanei, di fatto, hanno cercato invano di spiegare questo simbolo con le più fantasiose teorie; nella maggior parte, ossessionati da una sorta di idea fissa, hanno voluto vedervi, come in quasi ogni altra cosa, un segno esclusivamente «solare»[15], mentre, se anche talvolta lo è diventato, ciò non è potuto avvenire che accidentalmente e per vie traverse. Altri si sono avvicinati maggiormente alla verità considerando lo swastika come simbolo del movimento; ma tale interpretazione, pur non essendo falsa, è molto riduttiva, poiché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un movimento di rotazione che si compie intorno a un centro o a un asse immobile; ed è il punto fisso, ripetiamo, l’elemento essenziale cui si riferisce direttamente il simbolo in questione[16].
Da quanto abbiamo detto, si potrà già capire che il «Re del Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si noterà che non senza ragione quest’ultima parola ha la stessa radice di rex e regere), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio» o «armonia», il che viene reso esattamente in sanscrito dal termine Dharma[17]: con ciò intendiamo il riflesso, nel mondo manifestato, dell’immutabilità del Principio supremo. Si potrà capire anche, sulla base delle stesse considerazioni, perché il «Re del Mondo» ha come attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace», che sono appunto le forme rivestite specificamente da tale equilibrio e tale armonia nel «mondo dell’uomo» (mânava-loka)[18]. Anche questo è un punto della massima importanza; e, a parte la sua portata generale, lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certi chimerici timori di cui si trova una qualche eco anche nelle ultime righe del libro di Ossendowski.


[1] Per i Greci Minosse era insieme il Legislatore dei vivi e il Giudice dei morti; nella tradizione indù queste due funzioni appartengono rispettivamente a Manu e a Yama. Essi vengono per altro rappresentati come fratelli gemelli, il che indica che si tratta dello sdoppiamento di un principio unico, considerato sotto due aspetti diversi.

[2] Questa sede della «dinastia solare», se considerata simbolicamente, può essere paragonata alla «Cittadella solare» dei Rosacroce, come anche, senz’altro, alla «Città del Sole» di Campanella.

[3] La denominazione «Chiesa brâhmanica», di fatto, è stata usata in India soltanto dalla setta eterodossa e moderna del Brahma-Samâj, sorta all’inizio del secolo XIX per opera di influssi europei e specialmente protestanti, poi ben presto divisa in numerose ramificazioni rivali e oggi quasi del tutto estinta; è curioso notare che uno dei fondatori di tale setta fu il nonno del poeta Rabindranath Tagore.

[4] San Bernardo dice che «il Pontefice, come indica l’etimologia del suo nome, è una specie di ponte fra Dio e l’uomo» (Tractatus de Moribus et Officio Episcoporum, III, 9). ‑ Vi è in India un termine peculiarmente giainista, che è l’equivalente del Pontifex latino: è la parola Tîrthamkara, letteralmente «colui che passa un guado o si fa un passaggio»; il passaggio cui si allude è la via della Liberazione (Moksha). I Tîrthamkara sono ventiquattro, come i vecchi dell’Apocalisse, i quali, del resto, costituiscono anch’essi un Collegio pontificale.

[5] Da un altro punto di vista, queste chiavi sono rispettivamente quelle dei «grandi Misteri» e quelle dei «piccoli Misteri». ‑ In certe rappresentazioni di Janus, i due poteri sono anche simboleggiati da una chiave e uno scettro.

[6] Notiamo a questo proposito che l’organizzazione sociale del medioevo occidentale sembra essere stata, in linea di massima, ricalcata sull’istituzione delle caste: il clero corrispondeva ai Brâhmani, la nobiltà agli Kshatriya, il terzo stato ai Vaishya, i servi agli Shûdra.

[7] Si parla segnatamente del «prete Gianni», verso l’epoca di san Luigi, nei viaggi di Pian del Carpine e di Rubruquis. Le cose sono complicate dal fatto che, secondo alcuni, vi sarebbero stati fino a quattro personaggi a portare quel titolo: in Tibet (o sul Pamir), in Mongolia, in India e in Etiopia (quest’ultima parola aveva allora del resto un significato molto vago); ma è probabile che si tratti solo di rappresentanti diversi di un unico potere. Si dice anche che Gengis-Khan abbia cercato di attaccare il regno del prete Gianni, ma che questi lo abbia respinto scatenando la folgore contro i suoi eserciti. Infine, dall’epoca delle invasioni musulmane, il prete Gianni avrebbe cessato di manifestarsi, e sarebbe rappresentato esteriormente dal Dalai-Lama.

[8] In Asia centrale, e particolarmente nella regione del Turkestan, sono state trovate croci nestoriane molto simili nella forma alle croci della cavalleria; alcune di esse, inoltre, portano al centro la figura dello swastika. ‑ D’altra parte, bisogna notare che i Nestoriani, le cui relazioni con il Lamaismo sembrano incontestabili, svolsero un’azione importante, benché piuttosto enigmatica, all’inizio dell’Islam. I Sabei, dal canto loro, esercitarono una grande influenza sul mondo arabo al tempo dei Califfi di Bagdad; vi è chi sostiene, inoltre, che presso di loro si siano rifugiati, dopo un soggiorno in Persia, gli ultimi neoplatonici.

[9] Abbiamo già segnalato questa particolarità nel nostro studio L’Ésotérisme de Dante.

[10] Nella Roma antica, per contro, l’Imperator era al tempo stesso Pontifex Maximus. ‑ Anche la teoria musulmana del Califfato unisce, almeno in certa misura, i due poteri, come anche avviene nella concezione estremo-orientale del Wang (si veda La Grande Triade, cap. XVII).

[11] Abbiamo rilevato altrove l’analogia che esiste fra la concezione del Chakravartî e l’idea di Impero in Dante, dei quale è opportuno menzionare, a questo riguardo, il De Monarchia.

[12] La tradizione cinese usa, in un senso molto simile, l’espressione «Invariabile Mezzo». ‑ È il caso di notare che, secondo il simbolismo massonico, i Maestri si riuniscono nella «Camera del Mezzo».

[13] Il simbolo celtico della ruota si è conservato nel medioevo; se ne possono trovare numerosi esempi nelle chiese romaniche e anche il rosone gotico sembra essere derivato da questo simbolo, perché vi è una relazione sicura fra la ruota e i fiori emblematici, quali la rosa in Occidente e il loto in Oriente.

[14] Questo stesso segno non fu estraneo all’ermetismo cristiano: abbiamo visto nell’antico monastero dei Carmelitani di Loudun simboli molto curiosi, risalenti verosimilmente alla seconda metà del secolo XV, e nei quali lo swastika, insieme al segno       di cui parleremo più avanti, ha un’importanza centrale. È bene notare, a questo proposito, che i Carmelitani, venuti dall’Oriente, ricollegano la fondazione del loro Ordine a Elia e a Pitagora (come la Massoneria, dal canto suo, si ricollega sia a Salomone sia a Pitagora stesso, il che costituisce una somiglianza molto notevole), e che, d’altra parte, alcuni sostengono che essi, nel medioevo, avevano un’iniziazione molto vicina a quella dei Templari, come anche i religiosi della Mercede; si sa che quest’ultimo Ordine ha dato il suo nome a un grado della Massoneria scozzese, della quale abbiamo parlato abbastanza a lungo nell’Ésotérisme de Dante.

[15] La stessa osservazione si può applicare in particolare alla ruota, della quale abbiamo appena indicato il vero significato.

[16] Solo per ricordarla, citeremo l’opinione, ancora più fantasiosa delle altre, che fa dello swastika lo schema di uno strumento primitivo destinato alla produzione del fuoco; se è vero che talvolta questo simbolo può avere un certo rapporto col fuoco, essendo in particolare un emblema di Agni, ciò dipende però da tutt’altre ragioni.

[17] La radice dhri esprime essenzialmente l’idea di stabilità; la forma dhru, che ha il medesimo senso, è la radice di Dhruva, nome sanscrito del Polo, e alcuni la collegano col nome greco della quercia, drus; in latino, del resto, la parola robur significa al tempo stesso quercia e forza, fermezza. Presso i Druidi (il cui nome va forse letto dru-vid, unione di forza e saggezza), così come a Dodona, la quercia rappresentava l’«Albero del Mondo», simbolo dell’asse fisso che congiunge i Poli.


[18] Bisogna ricordare qui i testi biblici nei quali la Giustizia e la Pace si trovano strettamente collegate: «Justitia et Pax osculatæ sunt» (Salmi, LXXXIV, 11), «Pax opus Justitiæ», ecc.

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