"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 17 aprile 2014

René Guénon, Il Re del Mondo. IV - Le tre funzioni supreme

René Guénon
Il Re del Mondo
 

IV - Le tre funzioni supreme

Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell’Agarttha porta il titolo di Brahâtmâ (sarebbe più corretto scrivere Brahmâtmâ), «supporto delle anime nello Spirito di Dio»; i suoi due coadiutori sono il Mahâtmâ, «rappresentante dell’Anima universale» e il Mahânga, «simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo»[1]: questa è la divisione gerarchica che le dottrine occidentali rappresentano mediante il ternario «spirito, anima, corpo», e che è applicata qui secondo l’analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo. È importante notare che tali termini, in sanscrito, designano propriamente dei princìpi e non possono essere applicati a esseri umani se non in quanto rappresentanti di questi stessi princìpi, in modo che, anche in tale caso, sono collegati essenzialmente a funzioni e non a individualità. Secondo Ossendowski, il Mahâtmâ «conosce gli avvenimenti del futuro», e il Mahânga «dirige le cause di tali avvenimenti»; quanto al Brahâtmâ, può «parlare a Dio faccia a faccia»[2] ed è facile capire che cosa significhi questo, ricordando che esso occupa il punto centrale in cui si stabilisce la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati superiori e, per loro mezzo, con il Principio supremo[3]. Del resto, l’espressione «Re del Mondo», intesa in senso stretto ed esclusivamente in rapporto col mondo terrestre, sarebbe assai inadeguata; ben più esatto, per certi riguardi, sarebbe attribuire al Brahâtmâ quella di «Signore dei tre mondi»[4] perché, in ogni vera gerarchia, colui che possiede il grado superiore possiede al tempo stesso e per ciò stesso tutti i gradi subordinati, e quei «tre mondi» (che costituiscono il Tribhuvana della tradizione indù) sono, come spiegheremo più avanti, i regni che corrispondono rispettivamente alle tre funzioni che abbiamo appena enumerato. «Quando esce dal Tempio,» dice Ossendowski «il Re del Mondo è raggiante di Luce divina». La Bibbia ebraica dice esattamente lo stesso di Mosè quando scende dal Sinai[5] e, a proposito di questo raffronto, bisogna notare che la tradizione islamica considera Mosè come colui che è stato il «Polo» (El-Qutb) della sua epoca; del resto, non è questa la ragione per cui la Cabbala dice che fu istruito da Metatron stesso? Converrebbe anche fare una distinzione fra il centro spirituale supremo del nostro mondo e i centri secondari che possono essergli subordinati e che lo rappresentano solo in rapporto a tradizioni particolari, adattate specialmente a determinati popoli. Senza dilungarci su questo punto, faremo osservare che la funzione di «legislatore» (in arabo rasûl), che è propria di Mosè, presuppone necessariamente una delega del potere che il nome di Manu designa; e, d’altra parte, uno dei significati inerenti al nome di Manu indica appunto la riflessione della Luce divina.
«Il Re del Mondo» disse un lama a Ossendowski «è in rapporto con i pensieri di tutti coloro che dirigono il destino dell’umanità... Conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il Re del Mondo le favorirà col suo aiuto invisibile; se dispiacciono a Dio, il Re provocherà il loro fallimento. Tale è il potere dato all’Agharti mediante la scienza misteriosa di Om, parola con cui diamo inizio a tutte le nostre preghiere». Segue subito dopo una frase che lascia senz’altro stupefatto chi ha una sia pur vaga idea del significato del monosillabo sacro Om: «Om è il nome di un santo antico, il primo dei Goro [Ossendowski scrive goro per guru], che visse trecentomila anni fa». Questa frase, infatti, è assolutamente inintelligibile se non si tiene conto del fatto che l’epoca di cui si tratta, e che del resto a noi pare indicata in modo assai vago, è molto anteriore all’era del presente Manu; d’altra parte, l’Adi-Manu o primo Manu del nostro Kalpa (in cui Vaivaswata è il settimo) è chiamato Swâyambhuva, cioè uscito da Swayambhû, «Colui che sussiste di per sé», o il Logos eterno; ora il Logos, o chi lo rappresenta direttamente, può veramente essere designato come il primo dei Guru o «Maestri spirituali»; e, in realtà, Om è un nome del Logos[6].

D’altra parte, la parola Om fornisce immediatamente la chiave della ripartizione gerarchica delle funzioni fra il Brahâtmâ e i suoi due coadiutori, quale noi abbiamo indicato prima. Di fatto, secondo la tradizione indù, i tre elementi di questo monosillabo sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi» ai quali alludevamo prima, cioè i tre termini del Tribhuvana: la Terra (Bhû), l’Atmosfera (Bhuvas), il Cielo (Swar), cioè, in altri termini, il mondo della manifestazione corporea, il mondo della manifestazione sottile o psichica, il mondo principiale non manifestato[7].

Sono questi, dal basso in alto, i regni propri del Mahânga, del Mahâtmâ e del Brahâtmâ, come si può constatare riferendosi all’interpretazione dei loro titoli che abbiamo data in precedenza; e i rapporti di subordinazione esistenti fra i diversi regni giustificano per il Brahâtmâ l’appellativo di «Signore dei tre mondi» che abbiamo già usato[8]: «Questi è il Signore di tutte le cose, l’onnisciente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa), l’ordinatore interno (che risiede al centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la fonte (di ogni potere legittimo), l’origine e la fine di tutti gli esseri (della manifestazione ciclica di cui egli rappresenta la legge)»[9]. Servendoci di un altro simbolismo, parimenti esatto, diremo che il Mahânga rappresenta la base del triangolo iniziatico e il Brahâtmâ il suo vertice; fra i due, il Mahâtmâ incarna in certo senso un principio mediatore (la vitalità cosmica, l’Anima Mundi degli Ermetici), la cui azione si svolge nello «spazio intermedio»; e tutto ciò è raffigurato molto chiaramente dai corrispondenti caratteri dell’alfabeto sacro che Saint-Yves chiama vattan e Ossendowski vatannan, o, il che è lo stesso, dalle forme geometriche (linea retta, spirale, punto) alle quali si riferiscono essenzialmente i tre mâtrâ o elementi costitutivi del monosillabo Om.

Spieghiamoci con chiarezza ancora maggiore: al Brahâtmâ appartiene la pienezza dei due poteri sacerdotale e regale, considerati principialmente e in certo senso allo stato indifferenziato; i due poteri si distinguono in seguito per manifestarsi, il Mahâtmâ rappresenta allora in particolare il potere sacerdotale e il Mahânga il potere regale. Tale distinzione corrisponde a quella dei Brâhmani e degli Kshatriya; essendo però «al di là delle caste», il Mahâtmâ e il Mahânga hanno in se stessi, come il Brahâtmâ, un carattere sacerdotale e regale a un tempo. A questo proposito, chiariremo un punto forse non ancora spiegato in modo soddisfacente e tuttavia molto importante: abbiamo alluso prima ai «Re Magi» del Vangelo, dicendo che essi riuniscono in sé i due poteri; diremo ora che tali personaggi misteriosi non rappresentano altro, in realtà, che i tre capi dell’Agarttha[10]. Il Mahânga offre a Cristo l’oro e lo saluta come «Re»; il Mahâtmâ gli offre l’incenso e lo saluta come «Sacerdote»; il Brahâtmâ, infine, gli offre la mirra (cioè il balsamo d’incorruttibilità, immagine dell’Amritâ)[11] e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza. L’omaggio reso in tal modo al Cristo nascente, nei tre mondi che sono anche i loro rispettivi regni, dai rappresentanti autentici della tradizione primordiale, è nello stesso tempo, si noti bene, il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa.

Ossendowski, naturalmente, non poteva pensare a considerazioni di questo ordine; ma, se avesse capito certe cose più profondamente di quanto non abbia fatto, avrebbe potuto almeno rilevare la rigorosa analogia che esiste fra il ternario supremo dell’Agarttha e quello del Lamaismo, come egli stesso lo descrive: il Dalai-Lama, «che realizza la santità (o la pura spiritualità) di Buddha», il Tashi-Lama, «che realizza la sua scienza» (non «magica», ma piuttosto «teurgica»), e il Bogdo-Khan, «che rappresenta la sua forza materiale e guerriera»; esattamente la stessa ripartizione, secondo i «tre mondi». Questa osservazione avrebbe potuto farla molto facilmente poiché gli era stato indicato che «la capitale dell’Agharti ricorda Lhassa dove il palazzo del Dalai-Lama, il Potala, si trova sulla cima di una montagna coperta di templi e di monasteri»; tale modo di esporre le cose, del resto, è errato in quanto rovescia i rapporti: dell’immagine, infatti, si può dire che ricorda il suo prototipo, ma non l’inverso. Ora il centro del Lamaismo non può essere che un’immagine del vero «Centro del Mondo»; ma tutti i centri di questo genere presentano, per quanto riguarda i luoghi in cui sono situati, alcune particolarità topografiche comuni le quali, lungi dall’essere irrilevanti, hanno un valore simbolico incontestabile e, inoltre, devono essere in relazione con le leggi secondo cui agiscono gli «influssi spirituali»; ma tale questione riguarda propriamente quella scienza tradizionale cui si può dare il nome di «geografia sacra».

Vi è poi un’altra concordanza non meno degna di nota: Saint-Yves, descrivendo i diversi gradi o cerchi della gerarchia iniziatica, i quali sono in relazione con determinati numeri simbolici riferentisi particolarmente alle divisioni del tempo, termina dicendo che «il cerchio più alto e più vicino al centro misterioso si compone di dodici membri, che rappresentano l’iniziazione suprema e corrispondono, fra l’altro, alla zona zodiacale». Tale struttura si trova riprodotta nel cosiddetto «consiglio circolare» del Dalai-Lama, costituito dai dodici grandi Namshan (o Nome-khan); e la si può ritrovare, del resto, persino in certe tradizioni occidentali, in particolare in quelle che concernono i «Cavalieri della Tavola Rotonda». Aggiungeremo inoltre che i dodici membri del cerchio interno dell’Agarttha, dal punto di vista dell’ordine cosmico, non rappresentano soltanto i dodici segni dello Zodiaco, ma anche (e, benché le due interpretazioni non si escludano, saremmo tentati di dire «piuttosto»), i dodici Aditya, che sono altrettante forme del Sole, in rapporto con quegli stessi segni zodiacali[12]: e naturalmente, come Manu Vaivaswata è chiamato «figlio del Sole», così il «Re del Mondo» ha tra i suoi emblemi anche il Sole[13].

La prima conclusione che risulta da tutto questo è che vi sono veramente legami molto stretti fra le descrizioni che, in tutti i paesi, si riferiscono a centri spirituali più o meno nascosti, o almeno difficilmente accessibili. La sola spiegazione plausibile di questo fatto, qualora tali descrizioni si riferiscano, come sembra, a centri diversi, è che questi non sono per così dire altro che emanazioni di un centro unico e supremo, così come tutte le tradizioni particolari sono in fondo solo adattamenti della grande tradizione primordiale.


[1] Ossendowski scrive Brahytma, Mahytma, Mahynga. 
[2] Abbiamo visto prima che Metatron è l’«Angelo della Faccia». 
[3] Secondo la tradizione estremo-orientale, l’«Invariabile Mezzo» è il punto in cui si manifesta l’«Attività del Cielo». 
[4] Coloro che si meravigliassero di una simile espressione dovrebbero chiedersi se hanno mai pensato a che cosa significhi il triregnum, la tiara a tre corone che, insieme alle chiavi, è una delle principali insegne del Papato. 
[5] È detto inoltre che Mosè dovette coprirsi il viso con un velo per poter parlare al popolo, che non poteva sopportarne lo splendore (Esodo, XXIV, 29-35); in senso simbolico, ciò indica la necessità di un adattamento essoterico per la moltitudine. Ricordiamo a questo proposito il doppio significato della parola «rivelare», che può voler dire sia «scostare il velo» sia «ricoprire con un velo»; così la parola manifesta e vela al tempo stesso il pensiero che esprime. 
[6] Questo nome si ritrova, in modo piuttosto sorprendente, anche nell’antico simbolismo cristiano, dove, fra i segni che servirono a rappresentare Cristo, se ne incontra uno che è stato considerato più tardi un’abbreviazione di Ave Maria, ma che fu in origine un equivalente del segno che riunisce le due lettere estreme dell’alfabeto greco, alpha e omega, per significare che il Verbo è il principio e la fine di tutte le cose; in realtà esso è persino più completo, perché significa il principio, il mezzo e la fine. Il segno … si scompone infatti in AUM, cioè nelle lettere latine che corrispondono esattamente ai tre elementi costitutivi del monosillabo Om (la vocale o essendo formata, in sanscrito, dall’unione di a e di u). L’accostamento del segno Aum e dello swastika, presi entrambi come simboli di Cristo, ci sembra particolarmente significativo dal nostro punto di vista. D’altra parte occorre notare che la forma di questo segno presenta due ternari disposti reciprocamente in senso inverso, il che ne fa, sotto certi aspetti, un equivalente del «sigillo di Salomone»: se si considera quest’ultimo nella forma … in cui il tratto orizzontale mediano precisa il significato generale del simbolo segnando il piano di riflessione o «superficie delle Acque», si vede che le due figure comportano il medesimo numero di linee e non differiscono se non per la disposizione di due di queste, che, orizzontali nell’una, divengono verticali nell’altra. 
[7] Per ulteriori sviluppi riguardo a tale concezione dei «tre mondi», dobbiamo rimandare alle nostre opere precedenti: L’Ésotérisme de Dante e L’Homme et son devenir selon le Védânta. Nella prima abbiamo insistito soprattutto sulla corrispondenza di questi mondi, che sono propriamente degli stati dell’essere, con i gradi dell’iniziazione. Nella seconda abbiamo fornito la spiegazione completa, da un punto di vista puramente metafisico, del testo della Mândûkya Upanishad nel quale è interamente esposto il simbolismo in questione, di cui invece vogliamo offrire qui un’applicazione particolare. 
[8] Nell’ordine dei principi universali, la funzione del Brahâtmâ si riferisce a Îshwara, quella del Mahâtmâ a Hiranyagarbha, quella del Mahânga a Virâj: i loro rispettivi attributi potrebbero facilmente esser dedotti da tale corrispondenza. 
[9] Mândûkya Upanishad, shruti 6. 
[10] Saint‑Yves dice giustamente che i tre «Re Magi» erano venuti dall’Agarttha, ma non fornisce alcun particolare in proposito. ‑ I nomi che comunemente sono loro attribuiti sono molto probabilmente frutto di fantasia, eccetto tuttavia quello di Melki-Or, in ebraico «Re della Luce», che è piuttosto significativo. 
[11] L’Amritâ degli Indù oppure l’Ambrosia dei Greci (due parole etimologicamente identiche), bevanda o nutrimento d’immortalità, era raffigurata appunto dal Sorna vedico o dallo Haoma mazdeo. ‑ Gli alberi da gomma o resine incorruttibili hanno una parte molto importante nel simbolismo; in particolare, sono stati assunti talvolta come emblemi di Cristo. 
[12] Si dice che gli Aditya (nati da Aditi o l’«Invisibile») furono sette, prima di essere dodici, e che il loro capo allora fosse Varuna. I dodici Aditya sono: Dhâtri, Mitra, Aryaman, Rudra, Varuna, Sûrya, Bhaga, Vivaswat, Pûshan, Savitri, Twashtri, Vishnu. Si tratta di altrettante manifestazioni di una essenza unica e indivisibile; si dice inoltre che questi dodici Soli appariranno tutti simultaneamente alla fine dei ciclo, rientrando allora nell’unità essenziale e primordiale della loro natura comune. ‑ Presso i Greci, i dodici grandi Dèi dell’Olimpo sono anch’essi in corrispondenza con i dodici segni dello Zodiaco. 
[13] Il simbolo cui alludevamo è esattamente quello che la liturgia cattolica attribuisce a Cristo quando gli dà il titolo di Sol Justitiæ; il Verbo è effettivamente il «Sole spirituale», cioè il vero «Centro del Mondo»; inoltre, l’espressione Sol Justitiæ si riferisce direttamente agli attributi di Melki-Tsedeq. Bisogna notare poi che il leone, animale solare, nell’antichità e nel medioevo è un emblema della giustizia e della potenza insieme; il segno del Leone, nello Zodiaco, è il domicilio proprio del Sole. ‑ Si può intendere che il Sole a dodici raggi rappresenti i dodici Aditya: da un altro punto di vista, se il Sole raffigura Cristo, i dodici raggi sono i dodici Apostoli (la parola apostolos significa «inviato» e i raggi sono anch’essi «inviati» dal Sole). Del resto, nel numero dei dodici Apostoli si può scorgere un segno, fra altri, della perfetta conformità del Cristianesimo con la tradizione primordiale.

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