Alberto De
Luca
L'altruismo divino che si cela dietro il cavaliere: la futuwwa
L'altruismo divino che si cela dietro il cavaliere: la futuwwa
«... come, infatti, potete, stimolati, giungere a formulare la verità, se essa non vivesse, in embrione, celata nel profondo del cuore?». (S. Boezio)[1]
«... Erano giovani (fityân) che credevano nel loro Signore e Noi li rafforzammo sulla retta via;». (Cor., XVIII, 13)
Lo studio sulla futuwwa
è il frutto di una nostra esigenza interiore che non vuole e che non ha alcuna
pretesa di originalità. Essa ha colto l'occasione di esplicitarsi dopo aver
letto alcuni testi, in cui si dava spazio a delle affermazioni quanto meno
contraddittorie per opera di molte personalità occidentali, che si
autodefiniscono Kshatriya. Queste
ultime, in un primo momento, hanno cercato di occuparsi della cavalleria
occidentale salvo poi, attratte da certe correnti deviate della Shî‘a islamica in cui loro evidentemente
hanno visto il corrispettivo della "loro" cavalleria occidentale,
concentrare le loro attenzioni sulla futuwwa,
senza però nemmeno preoccuparsi di ricercarne e penetrarne il vero significato.
In questo senso ci sembra che logicamente anteriore
all'azione sia la conoscenza, perciò non si può agire efficacemente
prescindendo dalla ragione per cui si deve agire pena il disordine e il caos. Necessariamente
dunque, la conoscenza dei principi di ordine universale è anteriore alla forma,
come tale quindi in-formale. Quanto detto si riflette nell'uso appropriato
delle parole: l'utilizzo di un dato termine ne presuppone la conoscenza del
significato, che è fra l'altro l'unica ragione di esistere di questo. La "figura
verbale" è derivata da ciò che la in-forma, vale a dire dall'idea che la
precede logicamente e che resta comunque indipendente dal "supporto"
specifico scelto all'occasione per rendersi percepibile.
Alla luce di quanto detto, affermiamo allora che il
concetto di cavalleria, che viene reso in arabo dalla parola futuwwa, non ha nel mondo islamico
tradizionale, almeno ab origine, la
stessa corrispondenza che alcuni occidentali credono abbia. Hasan al-Basrî ha
detto, infatti, che «nel tempo, la pietà
dei Fityân si riconosce non alle loro
parole ma alle loro azioni; ed è ciò che si può chiamare la "scienza
utile"»[2]. Ciò ci lascia intendere
che l'idea della futuwwa esisteva già
molto prima della sua "applicazione istituzionale" nell'Islam. È,
infatti, solo a partire dall'ascesa al trono del califfo al-Nâsir al-Dîn Allâh
(intorno circa al 1180 a.C.) che la futuwwa
sarà istituzionalizzata, rendendola così più strettamente legata a quel
concetto di cavalleria che l'Occidente profano ha di essa[3].
La cavalleria non va intesa solo sotto forma di
cavalieri corazzati montanti quadrupedi bardati, che partecipano a trofei per
aggiudicarsi la mano di leggiadre donzelle; tanto meno va concepita alla
stregua di quella sorta di superstizione, o "modo di fare", soppravissuta
fino ai nostri giorni, che la vede come una sorta di "buona
educazione"!
Se è accaduto quanto abbiamo detto sopra, ciò è
perché il popolo conserva, senza comprenderli, residui di tradizioni antiche,
che risalgono fino ad un passato talmente lontano, che sarebbe impossibile determinarlo[4]. Tale
passato ha quindi una funzione di memoria collettiva più o meno "subcosciente",
il contenuto della quale le è manifestamente venuto d'altrove[5].
Quando parliamo della futuwwa, dobbiamo invece avere in mente l'idea di eccellenza o
nobiltà nel comportamento (makârim
al-akhlâq), espressa dal Profeta nel celebre hadîth: «Sono stato inviato
per perfezionare la nobiltà nel comportamento». Il fatâ[6],
seguendo l'esempio del Profeta, anche se situandosi ovviamente a un grado più basso,
è il paradigma della servitù, dell'altruismo, dell'indipendenza e della
nobiltà.
«La virtù,
che si distingue nel Fatâ, è
l'altruismo (îthâr). Altruismo
significa, che in questo mondo [terreno, profano] e nell'aldilà, il bene del fratello è preferito al suo [del fatâ] proprio bene, [altruismo significa] che si difende il diritto degli altri, che si considera quale proprio
personale beneficio quello degli altri, che per amore della pace [quiete] degli altri ci si fa carico delle stesse [loro] tribolazioni, [altruismo significa] che si elargisce [qualcosa di cui
attualmente si è in possesso] non solo
quando se ne ha abbastanza, bensì anche quando [il fatâ stesso] si trova in
condizioni di ristrettezze»[7].
La cavalleria deve il suo utilizzo quanto a sostantivo,
per designare tutto quel complesso di caratteristiche appena elencate, al fatto
che «l'anima è un cavallo riottoso,
sellato, imbrigliato, pronto ad essere montato. Se lo inforchi ed affidi le
briglie alla mano della ragione, sei salvo, ma se le abbandoni alla mano della
passione, sei perduto»[8]. La
cavalleria è quindi l'arte del guidare la propria anima, cavalcandola, al fine
di preservarla dal dominio dell'egoità!
Le manifestazioni storiche della futuwwa non saranno ovviamente oggetto
principale del nostro studio anche se non disdegneremo eventuali citazioni
quali prove di quanto affermeremo, tenendo sempre però presente che le sue
localizzazioni hic et nunc hanno un
valore simbolico che non intaccano la sua realtà propria in quanto fatto, ma
che le conferiscono, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore[9]. È
scritto, infatti, nel Corano: «Dio
propone simboli agli uomini, perché possano riflettervi»[10].
Contrariamente a quanto detto, agisce una
cosiddetta "tendenza evemeristica", propria dei "moderni",
in base alla quale il fine è di portare il superiore all'inferiore. Logico
risultato di questa tendenza, è il pensare le figure simboliche come solo
sublimazioni astratte di figure storiche, che hanno finito col prendere il
posto di quest'ultime e col valere, in sé e per sé, mitologicamente e fantasticamente.
È vero invece l'opposto: esistono dei simboli che non hanno nulla di
convenzionale e di "inventato", corrispondendo a dei principi
immutabili e fondamentali di ordine metafisico e a determinate leggi di espressione
analogica. Ecco perché può accadere che nella storia determinate situazioni o
personalità si trovino, sapendolo o no, in una certa misura, ad incarnare tali
simboli o principi. Il valore della storia è dunque da riportare ai miti che si
insinuano tra le sue trame e le conferiscono un significato superiore. La
realtà è divenuta simbolica e il simbolo è divenuto reale.
Risulta quindi di primaria importanza iniziare la
nostra trattazione dal significato etimologico del termine di futuwwa, che è propriamente la via del fatâ.
Non avendo, però, la futuwwa alcuna referenza coranica esplicita[11] e
non essendo nemmeno citata nella Sunna,
la nostra attenzione dovrà soffermarsi primariamente sul significato di fatâ e soprattutto sulle sue numerose
referenze coraniche e sulla tradizione del Profeta. Per quanto riguarda il Corano,
segnaliamo l'uso del termine fatâ
applicato ad Abramo (Cor., XXI, 60),
a Giuseppe (Cor., XII, 30), al servo
di Mosè (Cor., XVIII, 60-62) e ai
"Compagni della Caverna" (Cor.,
XVIII, 10-13)[12].
Il fatâ
(dalla radice f-t-w / f-t-y), come riporta Lane[13], è
innanzitutto il giovane agli inizi della vita, quindi come tale, essenzialmente
forte e vigoroso. «Il fatâ è un uomo ancora giovane e vigoroso,
valoroso in guerra, generoso e cavalleresco: atteggiamento essenzialmente
personale e, benché evidentemente legato alla società tribale e ai suoi combattimenti,
indipendente da tutta l'azione collettiva come da tutta le credenze religiose
esplicite»[14]. Come si vede, emergono
sin dall'inizio, unitamente alla giovinezza, con le sue naturali peculiarità
fisiche, anche la generosità, l'altruismo, l'indipendenza e la nobiltà, in
quanto qualità caratterizzanti la via del fatâ[15].
Altro
significato della parola, in realtà quello principiale, è quello di
"servo" che Lane ha individuato in una referenza coranica: «E ricorda
quando Mosè disse al suo servo (fatâ):
"Non avrò pace finché non avrò raggiunto la confluenza dei due mari",
[...] Quando poi furono andati oltre,
disse al suo servo (fatâ): "Tira
fuori il nostro pranzo, perché ci siamo affaticati in questo nostro viaggio!"»[16]. Il
concetto di servitù, qui evidenziato, è suffragato anche da quanto riporta l'Encyclopédie de l'Islam, benché
quest'ultimo sia legato prettamente alla contingenzialità storica: «nella Spagna musulmana, in effetti, gli
schiavi, eunuchi o non, destinati al servizio del principe e della sua casa,
dopo l'hâdjib nel momento in cui
quest'ultimo prende praticamente le redini del potere, sono chiamati, tanto i ghilmân che quelli di loro che occupano un rango
elevato nella gerarchia di palazzo porteranno il titolo di fatâ»[17].
Da questo approccio iniziale, risulta che la parola
fatâ (plurale fityân) designa quindi, in primo luogo, un uomo giovane (shâbb) fino al compimento della
maturità, solitamente fissata a quaranta anni: divenuto maturo, il giovane
diverrà mûr. A ciò è associata una
connotazione eroica, frutto della sovrapposizione di due componenti: una pre-islamica,
che vede nel principe Hâtim al-Tâ'î il proprio modello semi-leggendario, e
l'altra propriamente islamica, che eredita, nell'eccellenza incarnata dalla
figura di ‘Alî[18], la figura del fatâ-eroe, confermata dalla famosa
iscrizione incisa sulla sua spada: lâ
fâtâ illâ ‘Alî wa-lâ sayf illa Dhû-'l-Fiqâr[19].
Il secondo
significato, il più importante, è il concetto di servitù inteso come îthâr
(preferenza accordata agli altri) e non come ‘ubûdiyya, anche se sarà proprio a quest'ultima che il corretto
compimento dell'adab al-khidma dovrà
portare il fatâ[20]. «Il concetto
fondamentale associato alla futuwwah
è la fitrah o natura primordiale dell'uomo»[21]:
nonostante l'uomo sia caduto in questo basso mondo, continua, nel suo interno,
a esistere la natura primordiale che lo aveva caratterizzato nel momento della
creazione. «La fitrah è una luce che splende al centro
dell'essere dell'uomo anche se adesso è coperta dai veli della passione e
dell'oblio. La futuwwah crea una condizione
nell'anima che consente allo spirito della fitrah dell'uomo di trionfare sul buio di questo mondo e di riconquistare la
natura perduta dell'uomo o piuttosto ciò che rimane internamente a sé stessi in
uno stato di potenza»[22]. Chuang-tzu
ha scritto: «Riformare la propria natura significa ritornare alla verità primitiva
dell'essere»[23].
La futuwwa
non è altro allora che il ritorno cosciente alla condizione di a-lastu, che è il Patto primordiale (mîthâq) concluso tra Dio e l'uomo,
quando Dio gli fece testimoniare in ispirito il diritto alla Sua Signoria: «a-lastu bi-Rabbikum (Non sono io il
vostro Signore)?» «balâ (Sì, lo testimoniamo)!» (Cor.,
VII, 172)[24]. Tale ritorno avverrà per
mezzo del corretto compimento dell'adab
che esige la futuwwa stessa. «Questo è il libro dell'adab»[25] dice
giustamente, allora, Bayrak, riferendosi all'opera del grande maestro Abu ‘Abd
al-Rahman al-Sulamî, Kitâb al-Futuwwa
e, continuando, precisa: «comportamento
perfetto, modellato sul Profeta Muhammad»[26].
L'adab è
un continuo atto di devozione e chi allora, se non colui che riconosce la
propria condizione ontologica di ‘abd
(servo)[27], può
effettivamente compiere tale atto di adorazione?
In quanto atto di devozione, l'adab «...è un metodo di
ricordo continuo di Dio, una sveglia sempre sonante, che ci ricorda che la
ragione della nostra esistenza è di conoscere, di trovare, e di essere con Dio»[28].
Esso è l'unico modo in cui l'uomo può ringraziare della sua esistenza, dice
infatti Denis Gril: «senza la fede, il
servitore non potrebbe ricevere la parola divina come un'esortazione benefica e
formatrice. La coscienza di questo dono gratuito (imtinân) che è la fede deve incitare l'uomo a
rispondere alla sollecitudine divina (i‘tinâ') col solo dono che possa offrire in contropartita a Dio: "agire
secondo la Sua Legge e rispettare ciò che ha proibito e comandato". Ma,
quale che sia il suo zelo, il servitore non può non riconoscere la sua
impotenza dinanzi all'immensità della grazia. La Parola inculca immediatamente
un doppio adab: il senso della
gratuità dell'atto ed il richiamo al servitore alla conoscenza di se stesso»[29].
Nel percorso che porta l'‘ârif alla conoscenza, Chittick fa notare giustamente che «lo gnostico è un servo e non un signore
perché solo Dio veramente esiste. L'attributo del Signore è l'Essere, mentre
l'attributo del servo è la non-esistenza»[30].
Fine ultimo dell'‘ârif è quello di
ritornare allo stato originale caratterizzato dall'immutabilità che è la fitrah.
Nasr, all'inizio del suo lavoro sulla Spiritual Chivalry, così spiega il
significato di fatâ (e anche di jawân in persiano): essi «si riferiscono al giovane o al latino juvenis
ma hanno [anche] acquistato un significato che si riferisce molto di più all'aspetto
fisico giovanile (vigorosità giovanile) [...] con le caratteristiche di coraggio e generosità associate a una
cavalleria trasposta al più alto livello del [suo] significato, dal regno dell'azione esterna a quello della vita
spirituale, senza, dall'altra parte, escludere il mondo dell'azione esterna»[31]. A
conferma poi, di quanto da noi detto più sopra relativamente alle
manifestazioni storiche della futuwwa,
lo stesso autore afferma che: «...la sua
traduzione come cavalleria spirituale evoca molto più di ogni altra espressione
questo concetto di base dell'Islam, la cui realtà è stata manifestata in così
tanti domini, dall'attività delle ghilde nei bazar a quella dei cavalieri sul campo di battaglia, dal mondo dei Sufi contemplativi a quello dei sultani e dei vizir»[32].
È evidente dunque che è dalle referenze coraniche
del termine fatâ, come detto più
sopra, che potremo meglio comprendere il vero significato della futuwwa. «A partire dal senso coranico del "Fata" in quanto servitore, il termine "Futuwah" indica la nozione di "Khidmah", il fatto di servire gli altri, ma in
maniera più specifica anche il servizio che un discepolo compie presso un
maestro, come il servitore che accompagna Mosè nel suo viaggio iniziatico
(Cor., XVIII, 60, 62). Sulla base di queste fonti sbocceranno le differenti
definizioni / realizzazioni della Futuwah date dai maestri del sufismo»[33].
Riportiamo, quindi, di seguito una serie di
testimonianze di grandi maestri che evidenziano le qualità della via del fatâ e che provano che ciò che diciamo
non ha carattere alcuno di originalità.
Ecco cosa ha detto al-Qushayri: «la radice della cavalleria è che uno deve
essere sempre attento ai bisogni degli altri»[34]. Un hadîth, riportato da Zayd ibn Thâbit,
afferma, confermando con ciò quanto detto da al-Qushayri, che «Dio l'Altissimo si prende carico dei bisogni
di un servo purché il servo si prenda carico dei bisogni dei suoi fratelli musulmani». La futuwwa è «trattare la gente
nella stessa maniera in cui noi vorremmo ci trattassero»[35].
L'altruismo, che abbiamo detto essere una delle
caratteristiche della via del fatâ,
porta all'identificazione nei confronti di chi, esso è applicato: «l'altruistica autoidentificazione di se
stesso con gli altri viene chiaramente espressa da Junayd. Quando egli fu
interrogato in merito al "vero fratello", egli rispose: "In
realtà tu sei ciò, soltanto perché la forma corporea è un altro nei confronti
di questo"»[36].
Abu ‘Alî ad-Daqqâq ha affermato: «la perfezione della qualità della cavalleria
appartiene al Messaggero di Dio soltanto, perché nel Giorno della Resurrezione
tutti gli uomini diranno, "Io, Io" mentre egli dirà "la Mia
gente, la Mia gente"»[37].
Al-Fadl dichiarò: «Cavalleria significa perdonare gli errori di ogni simile»[38]; è
detto, infatti, che la cavalleria consiste nel non ritenersi superiore agli
altri da parte del fatâ. Abû Bakr
al-Warrâq ha asserito: «l'uomo cavalleresco
[colui che è nella via del fatâ] è uno che non ha nemici». «Cavalleria significa che tu sei un nemico
contro te stesso [contro la tua nafs] in favore di Dio» ha aggiunto Muhammad
ibn ‘Alî al-Tirmidhî[39].
La vita va quindi concepita come una milizia
assoluta contro le proprie passioni, le quali vanno soggiogate e non annientate[40].
Dice Boezio: «chiunque indaghi il vero
con profondità di riflessione e non voglia perdersi per strade sbagliate,
rivolga in sé la luce della sua vista interiore e concentrando il suo tiro, lo
indirizzi a un solo bersaglio; convinca l'animo suo che quanto s'affanna a cercare
fuori di sé lo possiede già dentro, nascosto nei suoi tesori; così quello che
la tetra nube dell'errore nascondeva prima risplenderà con luce più penetrante
dello stesso Febo. Infatti pur investendo lo spirito con la sua massa
mortificante, il corpo non lo ha privato di ogni suo lume; certo sta radicato
dentro di noi il seme del vero e la cultura con il suo soffio lo può ridestare»[41].
La vita del cavaliere, come qualsiasi altro ‘abd, è sottomissione al Volere di Dio,
è detto infatti nel Corano: «Gli Arabi
del deserto dicono: abbiamo fede. Tu dì: voi non avete fede, ma dite "ci
sottomettiamo", perché la fede non è ancora entrata nei vostri cuori. E se
voi obbedite a Dio e al suo Messaggero, Egli non vi toglierà nulla del merito
delle vostre azioni»[42].
La vita è cavalleria, in altre parole arte del
guidare la propria anima. Scopo dell'uomo è di porsi al riparo da ogni
conflitto essendo solo apparentemente separato dal principio: egli deve
divenire uno swechchachari, colui che
"ha in sé la propria legge"[43].
L'episodio di Abramo, come è riportato nel Corano
(XXI, 60), è il paradigma della lotta contro le proprie passioni: accanto alla
distruzione degli idoli, il cui significato esteriore è fin troppo palese, v'è
il combattimento (the struggle)
contro l'idolo di ogni uomo, che è la sua nafs,
ego, considerato e vissuto come indipendente dalla sua causa. Il concetto di
servitù non è altro allora che l'abbandono del proprio libero arbitrio e
l'inseparabilità dall'atteggiamento modesto e dalla radical ontological indigence, che deve sentire ogni servo. Il
cavaliere non agirà mai per soddisfare le ambizioni di gloria[44]
della propria egoità, in altre parole il suo agire è un agire in modo
disinteressato (karmayoga).
La vicenda di Abramo chiarifica come la futuwwa, anche se caratterizzata da un
certo tipo di comportamento esteriore, sia prima di tutto un metodo di sforzo
interiore; ecco perché ne parliamo designandola come Cavalleria spirituale o
celeste. Nell'Islam esistono infatti due tipi di jihâd, come è attestato da un celebre hadîth profetico[45],
"quello maggiore" è il più meritorio: al fatâ autentico si impone la grande Guerra Santa che è la lotta
contro le sue passioni, conformemente a quanto ha detto Allâh l'Altissimo, «O voi che credete, combattete i miscredenti
che vi stanno attorno» (Cor., IX,
123). Non c'è sicuramente nulla di più miscredente della nostra anima (nafs), perché essa nega i doni e le
grazie ricevute da Dio![46].
L'anima dell'uomo decaduto è divisa in due ed è in lotta con se stessa: la sua
parte inferiore è così descritta nel Corano: «Invero l'anima istiga al male»[47],
mentre l'altra parte, quella migliore, è chiamata «l'anima che si rimprovera sempre»[48] ed è
quest'ultima che intraprende la grande Guerra Santa, con l'aiuto dello Spirito,
contro la prima.
Il jihâd
asghar (piccola Guerra Santa) ha come suo naturale fine la vittoria in
guerra, che può avvenire anche mediante l'estremo sacrificio dello stesso
cavaliere (martirio): in quest'ultimo caso il fatâ entra direttamente nel Paradiso. Lo jihâd akbar (grande Guerra Santa), invece, è, come abbiamo già
detto, la vittoria sulle proprie passioni, il che porta il cavaliere oltre il
Paradiso. Questa polarizzazione è, d'altronde, lo specchio simbolico della
divisione sussistente, nell'uomo e nel creato, tra celeste e terrestre, tra
spirituale e materiale.
Nelle attuali condizioni dell'umanità terrestre la
maggioranza degli uomini non è in grado di superare i limiti della condizione
individuale, sia durante il corso della loro vita sia uscendo da questo mondo
con la morte corporale. Stando così le cose l'essoterismo, parte di ogni
tradizione che si rivolge indistintamente a tutti, può proporre all'uomo solo
una finalità puramente individuale, vale a dire la salvezza. La Liberazione,
invece, implica l'ottenimento dello stato supremo e incondizionato. «Se "il Paradiso è una prigione"
per qualcuno, ciò lo è perché l'essere che vi si trova, che è "salvato",
è ancora rinchiuso e ciò per una durata indefinita, entro le limitazioni che
definiscono l'individualità umana»[49].
Simile condizione è uno stato "privativo" per quelli che da tali
limitazioni aspirano a essere affrancati. Quindi mentre la salvezza è di ordine
individuale (oggetto ne è l'io), la Liberazione è di ordine trascendente (il
suo oggetto è il Sé). Il fatâ è
quindi colui che si mette sulla strada per ottenere la Liberazione, la futuwwa essendone allora il percorso
iniziale e necessario.
«La mugâhada è la grande Guerra Santa», questo è
quanto scritto in un hadîth che Gramlich
riporta nel suo libro[50]. La
grande Guerra Santa è essenzialmente rinuncia al proprio ego[51],
ecco perché Gramlich può affermare che «rinuncia
e guerra spirituale sono allora intercambiabili tra loro [...] l'asceta, colui che rinuncia al mondo, sta
così a colui che conosce come la guerra spirituale (mugâhada) sta alla contemplazione (musâhada)»[52],
infatti «la musâhada non è in opposizione alla mugâhada, bensì si svolge in un "campo
d'azione" più elevato»[53].
Nell'episodio citato, al di là della giovinezza
fisica di Abramo, intravediamo la sua elevazione, ovverosia una maturità (muruwwa) spirituale equivalente di una
"giovinezza dell'anima", di cui l'energia o il vigore può, per ordine
divino, influenzare il mondo manifestato.
Al-Muhâsibî, riferendosi alla futuwwa, disse: «la
cavalleria richiede che tu sia giusto con gli altri e che tu non pretenda
giustizia dagli altri»[54]. An-Nasrabadhi
ha detto: «la nobiltà (muruwwa) è una parte della cavalleria. Ciò significa
distaccarsi da questo [basso] mondo e
dall'Aldilà, orgogliosamente disdegnando entrambi»[55].
A proposito della muruwwa segnaliamo che Skali, riferendosi alla già citata referenza
coranica di Abramo, afferma che esiste, con una sfumatura importante, un legame
tra la prima e la futuwwa,
specificando che «la qualità di Murû'a si situa essenzialmente all'interno del
clan mentre quella di Futuwah,
partendo dall'energia personale, quella della "gioventù", non ha
altra misura che lo slancio personale»[56].
D'altronde, come vedremo in seguito, la futuwwa
origina dal cuore e non si basa tanto sulle regole o convenienze sociali: è
quindi primariamente "personale" e poi "sociale"[57]. È
nella sfida lanciata da Abramo e dai Sette Dormienti contro la loro società,
che vediamo l'autentica via del fatâ:
hanno sacrificato sé stessi piuttosto che rinunciare alla loro fede nell'Unità
di Dio e adorare gli idoli che il loro re aveva ordinato. «Il vigore giovanile di Abramo andava così di pari passo con una
maturità spirituale. Il Corano dice: "E già da prima demmo da Abramo
rettitudine (o guida spirituale, maturità), poiché ben lo conoscevamo ..."
(Cor., XXI, 51). Cioè, secondo Tabarî, in un'età precoce»[58].
Segno incontestabile della designazione divina del fatâ! D'altronde è detto nel Kitâb
al-Futuwwa: «la Futuwwah è prendersi
cura del deposito affidatoci e dire la verità»[59].
La nozione di muruwwa,
più volte citata nel corso della trattazione, è direttamente collegata al concetto
di rajûliyya[60]. Muruwwa «descrive la
somma delle qualità fisiche dell'uomo (mar') attraverso un processo di spiritualizzazione e astrazione delle sue
qualità morali. In verità, nelle definizioni e dichiarazioni già menzionate, noi
possiamo distinguere una congiunzione di due elementi contrari: un [elemento] concreto (ricchezza e gestione della proprietà),
l'altro astratto e predominante. Nell'ultimo caso, la muruwwa sarà identica alle buone maniere, nel precedente,
ciò considererà la condizione materiale di vita [...] la muruwwa è stata
sviluppata [attraverso un apporto ex
novo che la ha integrata e raddrizzata]
ulteriormente nel Sufismo. Essa era
considerata come una delle "branche"della futuwwa»[61].
Il tema della muruwwa
è stato trattato anche da Goldziher, nel suo Muslim Studies, ponendo l'accento sul suo significato di virtù
corrispondente al latino virtus[62]. «Con [il termine
di] muruwwa la lingua araba intende tutte
quelle virtù che, fondate nella tradizione della sua gente, costituiscono la
reputazione di un individuo o della tribù cui egli appartiene; l'osservanza di
questi doveri è connessa con la parentela, i rapporti di protezione e ospitalità,
e l'osservanza della grande legge della vendetta di sangue»[63]. Il
periodo, cui si riferiscono le precedenti osservazioni dell'autore, è quello
della Jâhiliyya, quindi quello
pre-islamico. È importante notare che nel momento in cui, l'Islam appare, «l'idea che i nobili principi della muruwwa
degli Arabi debbano rimanere validi e che
anche nell'Islam debbano ricevere per così dire la sanzione dell'etica
religiosa, viene espressa dall'Islam in questo principio: lâ dîn illâ
bi-muruwwa, non c'è religione (dîn) senza le virtù della vecchia cavalleria
araba (muruwwa)»[64].
Viene confermata ancora una volta quindi la
missione provvidenziale dell'Islam quale strumento divino di correzione, di
quanto già esistente, unitamente alla sua portata integratrice e rivificatrice,
che aggiunge importanti tasselli al mosaico delle tradizioni già manifestatesi.
Quando Skali afferma che «la parola,
oltre che l'idea della Futuwah,
esisteva molto prima»[65] e
consultando invece l'Encyclopedie de
l'Islam, troviamo che «ai tempi pre e
proto-islamici, la lingua araba non conosceva [il termine di] futuwwa ma solamente quello di fatâ»[66],
vuol dire allora che con l'avvento dell'Islam è stata perfezionata quella che è
una forma di vita spirituale che si traduceva essenzialmente sul piano del
"vissuto" e dell'"azione", ma che evidentemente aspettava
di essere "sigillata".
In questo senso, va letto quanto riportiamo ancora
da Goldziher: «Muhammad fu il primo uomo
della sua specie che disse al popolo della Mecca e agli incontrollati [si
intende in balia delle loro passioni]
maestri del deserto arabo che il perdono non era debolezza ma una virtù e che
perdonare le ingiustizie ricevute a sé stessi non era contrario alle norme
della vera muruwwa ma ne era la più
alta manifestazione – era camminare nel sentiero di Allâh»[67].
Se la vita è pensata come un arco, l'anima come una
freccia e lo Spirito Assoluto come un bersaglio da trapassare, unirsi
(identificarsi) con questo Spirito è come se la freccia scoccata si conficcasse
nel suo bersaglio. Chi vuole lanciare una freccia deve sapere qual è il
bersaglio per poter dirigerla e regolarla. Acquista allora particolare
interesse il fatto che il Profeta portato ancora giovane in battaglia da Zubayr
e da Abû Tâlib e benché eccellente arciere, abbia, in questa campagna,
unicamente raccolto le frecce nemiche che avevano mancato il bersaglio. A
nostro umile parere, è ravvisabile anche qui il compito del Profeta, in primis, e dell'Islam, in seconda
battuta, di ri-indirizzare le frecce-anime verso il bersaglio-Spirito Assoluto
che evidentemente era stato perso di vista[68].
Per quanto riguarda la nozione spirituale di rajul (radjul, rajuliyya), il termine ordinariamente significa
"uomo", propriamente nell'età della maturità, ma preso in senso
esemplare significa "homme veritable"
o anche "uomo primordiale". Guénon rende quest'ultima espressione con
il "tchenn-jen" della
tradizione taoista, corrispondente al termine dei "piccoli misteri"[69].
L'uomo ha, quale compito primario, il
perfezionamento di se stesso, che è di due tipi: uno legato alla sua essenziale
realtà come forma di Dio e il secondo ai vari attributi e qualità che egli manifesta
nelle sue specifiche funzioni in questo mondo. «Per quanto riguarda la prima perfezione "essenziale", tutti
gli uomini perfetti sono identici e uno con Dio, e si può parlare di "Uomo
Perfetto" come singola realtà. Per quanto riguarda la seconda perfezione
"accidentale", ogni uomo perfetto ha una specifica funzione che
ricopre nella gerarchia cosmica, e quindi ci sono molti "uomini
perfetti". Nel primo caso la realtà interiore dell'uomo perfetto è Dio in
quanto Non-manifestato. Nel secondo caso gli uomini perfetti sono Dio in quanto
Manifestato, la Forma Divina svelata all'interno del cosmo»[70]. È
importante ricordare che Ibn ‘Arabi definisce la prima perfezione come ‘ubûdiyya (servanthood) e la seconda, quella accidentale, come rajuliyya (manliness): alla prima è propria l'incomparabilità, alla seconda la
similarità[71]: «ogni cosa mostra uno o più attributi di Dio per cui, sotto tale
aspetto, la cosa può esser detta "simile" o "comparabile" (tashbîh) a Dio, in qualche modo»[72].
All'affermazione di Junayd sulla futuwwa, per cui essa «consiste nell'abolire la visione dell'ego, e
nel rompere tutti i legami (di considerazione sociale diversa dalla relazione
diretta con Dio)», così risponde Abû Hafs: «Ciò che dite è molto bello, ma per me la Futuwah consiste soprattutto nell'agire con
rettitudine e nel non esigere dagli altri di fare altrettanto»[73]. È
nel rimettersi alla volontà di Dio, lasciando che Egli, attraverso il suo
essere (intendiamo l'essere del fatâ),
agisca, che consiste l'adab del fatâ!
Secondo Abû Hafs, il fatâ agisce gratuitamente perché tutto è fatto per Dio, nel solo
desiderio di essere conforme alla Verità[74] e
non in quello di raccogliere i frutti dell'azione dagli uomini[75]: il
suo comportamento non rientra in un gioco di scambi poiché è puro atto di
adorazione; siccome egli agisce solo per Dio, attende solo da Lui. Non può
dunque, come disse al-Muhâsibî, avere nemici esterni perché egli «fa ciò che gli tocca fare e si sottrae da
ciò che è in diritto di aspettare (dagli altri)»[76].
Il fatâ è
quindi una particolare designazione divina, egli è l'agente tramite il quale
l'altruismo o nobiltà di Dio opera sul piano orizzontale di manifestazione del
cavaliere, riproducendo la "nobiltà assiale" divina che ha
esistenziato il creato, quantunque Egli non ne avesse avuto bisogno, celando il
tutto dietro un Suo bisogno fittizio del tutto inesistente. «Dio in quanto Essenza non ha nulla a che
fare con l'universo, ma come Creatore Egli richiede la creazione, come Potente
Egli richiede l'oggetto del [Suo]
potere, come Signore Egli richiede i [Suoi] vassalli, come Dio Egli richiede i [Suoi] servi divini»[77]. Le
cose del mondo, corporee e non-corporee, sono, da un lato, forme molteplici di
Manifestazione divina ma, d'altra parte, esse agiscono precisamente come veli
che impediscono una perfetta visione di Dio. Esse celano Dio e non permettono
all'uomo di vederLo direttamente. Tante persone velano l'Assoluto dietro il
velo del proprio ego. Così parlando, l'intero mondo è il "velo"
nascondente l'Assoluto. Quando ad esempio, i Cristiani affermano che "Dio
è il Messia, figlio di Maria" essi confinano l'Assoluto in una forma
individuale e smarriscono la vista della Sua infinità. Ciò li rende assenti
all'Assoluto ed essi Lo velano con la forma personale del Messia.
Un celebre hadîth
qudsî dice infatti: «Ero un tesoro
nascosto e ho voluto essere conosciuto, allora ho creato gli uomini (Khalq) e Mi sono fatto conoscere, così essi Mi
hanno conosciuto». «Questa referenza
concerne la Futuwwah poiché questo
attributo è manifestato dal fatto che Egli ha parlato di Lui stesso esprimendo
il desiderio di essere conosciuto»[78].
In quanto tajallî[79], il fatâ è allora
una teofania che ripropone orizzontalmente la funzione del verbum Dei (Kun). La sua
forma antropomorfica sorprenderà solo quelli, per cui la trascendenza di Dio (tanzîh) non è che una nozione prodotta
dallo sforzo speculativo e non frutto di un'evidenza contemplativa. «L'uomo è come un arco nelle mani della
potenza divina; Dio l'Altissimo lo impiega per delle azioni; queste azioni, in
realtà, sono azioni di Dio, non dell'arco. L'arco è uno strumento e un mezzo,
ma è incosciente di Dio, affinché l'ordine del mondo sia mantenuto»[80]. «Che arco eccellente e fortunato è quello che
sa nelle mani di chi si trova!»[81].
«Colui che
possiede [cioè, nel cui cuore è stato instillato un determinato adâb che è l'adâb al-khidma] la futuwwah
continua ad essere preferito davanti al
Signore degli uomini e davanti agli uomini. Il nobile (al-fatâ) è colui che si fa dell'altruismo un
ornamento (parure). E chi ne è
insignito è onorato»[82] dice
Ibn ‘Arabî, quindi essere fatâ vuol
dire innanzi tutto essere oggetto di un particolare comando divino che ordina
ad un Suo servo (‘abd) di apparire
nel vestito d'onore (khil‘a) della futuwwa.
Dice Sulamî, riferendosi ai Compagni della Caverna:
«Il Vero li rivestì con il Suo abito
d'onore»[83] perché «Essi erano un gruppo di giovani (fityân,
cavalieri) che credevano nel loro Signore»[84]. Qâni‘î
Tûsî afferma, comprovando quanto riportato sopra da Sulamî: «la corona ingioiellata del corpo è la virtù
(muruwwa), e la virtù è un segno
della cavalleria»[85]. Al-Fudayl
ibn ‘Iyâd ha detto: «Dio fa scendere nei
cuori dei suoi servitori l'amore per l'uomo, che egli ama»[86]. «Siamo tutti nient'altro che schiavi, ed
Allâh è il padrone. Qual merito, per lo schiavo, nel dare una parte dei beni
del suo padrone ad un altro schiavo? Dà su ordine del suo padrone, oppure senza
il suo ordine. Nel primo caso, che merito ha, dato che chi ordina è quello che
ha il merito del dono? Nel secondo caso, è un ladro che merita castigo. A dire
il vero è impossibile dare senza averne ricevuto l'ordine, dal punto di vista
della realtà essenziale»[87]. Il
successo e il fallimento sono nelle mani di Dio, tutto è nelle mani di Dio,
quindi anche il fatto che taluno di noi percorra la via del fatâ.
L'Assoluto "per farSi conoscere" dispiega
Se stesso nel mondo. In questo senso Si manifesta in stretto accordo con i
requisiti di ogni realtà individuale, nella forma appropriata e richiesta dalla
natura della "predisposizione" (isti‘dâd)
di ogni esistenza individuale. L'essere umano è, dopo tutto, null'altro che
l'Assoluto in una forma particolare, determinata dalla sua
"predisposizione". Il fatâ
si comporta come tale, vale a dire da cavaliere, perché così gli è stato
ordinato; egli assolve a una funzione predisposta, che è quella di rendere
sempre presente e operativo l'altruismo divino orizzontalmente.
Ricordiamo che nella Sura Al-Kahf, a partire dal versetto 22 fino al versetto 26, il Profeta
è invitato a pentirsi d'aver programmato la sua azione al di fuori del progetto
di Dio su di lui: in tal senso gli vengono proposti come esempio i fityân, che si fanno dirigere
(eroicamente) in tutto da Dio e la cui azione si svolge non nella prospettiva
del successo mondano. Dice al-Qurtubî, commentando il versetto 13 della stessa
Sura: «erano giovanetti, cioè dei
ragazzi, resi cavalieri (hukima lahum bi-l-futuwwa) allorché credettero senza alcun intermediario. Cosippure han detto i
linguisti: "La vetta della cavalleria è la fede". E disse al-Gunayd:
"La cavalleria consiste nel prodigarsi con generosità, nell'impedire
l'altrui danno e nel rinunciare a lamentarsi". Si dice anche: "La
cavalleria è scansare le azioni illecite e, nelle nobili, essere
solleciti". E si è detto anche altro; ma questa definizione è ottima
perché comprende il senso di tutto quanto s'è detto sulla cavalleria»[88].
In questa Sura, che avevamo già indicato all'inizio
del nostro lavoro come particolarmente importante per la comprensione della futuwwa, uno dei temi di fondo è
l'indifferenza, o "relativa" indipendenza dei fityân, ovverosia il distacco di fronte ai beni terreni come
condizione per aderire interamente alla volontà di Dio[89]. Ma
l'indifferenza è anche quella che viene accordata a certe persone: «la Futuwah è: accogliere con buona grazia colui che viene verso te e non correre
dietro colui che ti volta le spalle»[90].
Dice infatti Faris: «in accordo con la
loro etica i sufi non rigettano
coloro che bussano alla loro porta, né cercano quelli che non vengono a loro,
né cercano di dominare quelli che li frequentano»[91].
Nelle Tabaqat as-Sufiyya, Sulamî
afferma, a tal proposito, che: «Colui che
Hâmil al-Kur'an (incorpora il Corano) non
conviene che nutra nei confronti degli altri uomini bisogni alcuno, né nei
confronti di Califfi né ai loro inferiori, piuttosto è giusto che i bisogni di
tutte le creature facciano capo a lui (che tutte le creature si appoggino a lui
nelle loro necessità)»[92];
è all'incorporizzazione del Corano che tende il fatâ.
Tale atteggiamento di fronte alle creature va poi
di pari passo con una crescita nel rapporto con Dio[93]. Al
versetto 28 della Sura Al-Kahf,
troviamo infatti che non sono più i giovani prodi a essere di esempio bensì
sono i "pazienti" che invocano ogni ora il loro Signore desiderando
il Suo Volto e che quindi dimostrano d'avere, oltre le apparenze, la virtù
autentica della futuwwa o Cavalleria
spirituale»[94]. Ha detto al-Muhâsibî: «la pazienza è rimanere a far da bersaglio
alle frecce dei decreti divini»[95].
La futuwwa,
essendone il fatâ il suo
"applicatore", è quindi un attributo divino a causa del suo significato
che, però, non ha un Nome divino esprimente tale attributo. Essa sappiamo
essere la via dell'altruismo e della nobiltà che sono celati ai loro
destinatari conformemente alle due referenze poco sopra citate[96].
«Se il Principio (Al-Haqq) è disceso appresso ai servitori con questo
nobile carattere, e questa è la Futuwwah
(nobiltà), l'obbligo di fare proprio questo attributo si impone fino a questo
punto al servitore [vale a dire che egli deve essere nobile]. In verità, la Futuwwah risiede nel fatto di manifestare i doni e
la benevolenza, e di nascondere l'obbligo di riconoscenza e il rimprovero»[97].
Il motivo per cui non esiste un nome divino della futuwwa risiede nel hadîth qudsî citato precedentemente: «Ero un tesoro nascosto e ho voluto essere conosciuto, allora ho creato
gli uomini (Khalq) e Mi sono fatto
conoscere, così essi Mi hanno conosciuto». Chi ha questo comportamento,
vela dunque la propria indipendenza assoluta. «Egli (Allâh) è dunque indipendente in senso assoluto. Colui che gode di
questa indipendenza e ha manifestato il mondo, non l'ha fatto per necessità, ma
l'ha fatto come atto puro in favore del mondo stesso, invece di rimanere Lui
stesso in quanto essere unico; questa è dunque la Futuwwah in senso specifico ('Ainul-Futuwwah)»[98]. «"Cavalleria" (futuwwa) è un attributo divino per via del
significato, ma non c'è parola derivata da questo [attributo] in quanto [non è uno dei Nomi divini]. Entrambi la Legge e le prove razionali
mostrano che Egli possiede l'indipendenza dal cosmo in maniera assoluta [...] Egli solo porta all'esistenza per il bene
del cosmo, come atto di carità verso questo [cosmo] a dispetto del fatto che Egli solo possieda l'Essere. Questa è la
cavalleria stessa»[99].
La volontà non può concernere che qualcosa che non
abbia ancora esistenza e che si trovi nel non-manifestato oppure che non abbia
che un'esistenza solamente virtuale. Nel caso in cui questa cosa si trovi nel
non-manifestato, la sua manifestazione sarà necessaria affinché dalla
"uscita" appaia quello che il Principio ha voluto manifestare. Quando
invece questa cosa ha esistenza solamente virtuale, è conformemente alla Sua
volontà che si realizza quello che Egli ha voluto in atto. Le Sue parole sono
necessariamente un velo dissimulante la Sua indipendenza assoluta[100].
Il fatâ è
«indipendente da tutta l'azione
collettiva come da tutte le credenze religiose esplicite»[101].
Riportando questo, lungi dal macchiarci di associazionismo, diciamo però che
essendo il cavaliere la riproposizione sul piano orizzontale della nobiltà
divina creatrice (Kun), egli è
relativamente indipendente[102].
«Lui ti ha
trattato con l'attributo della Futuwwah
malgrado la Sua Indipendenza, dunque tu, in ragione della tua povertà
(dipendenza), ti trovi nella più grande necessità di agire così [ossia, di
praticare le virtù della futuwwa]...»[103], di
avere cioè un preciso adab; « ... la cavalleria costituiva una collezione
completa di qualità morali encomiabili e di forme spirituali accettate di
etichetta (adab) ... » dice Muhammad
Ja‘far Mahjûb. Ecco perché il Kitâb
al-Futuwwa è il libro dell'adab,
come ha detto giustamente Bayrak[104].
L'adab è
dunque la via di perfezione che è stata incarnata dal Profeta e che si fonda
sulla distinzione fra servitore e Signore, instaurata dal haqq (verità) della Rivelazione. Solo conformandosi al suo adab, che è stato determinato da Dio e
posto nel suo cuore, il fatâ si
perfezionerà[105]: dovrà quindi in un
primo momento lasciare che le sue azioni dipartenti dal suo cuore si sviluppino
verso gli altri (îthâr)[106],
verso l'esterno, per poi ritornare verso l'interno, verso il suo cuore, perché,
arrivando a questo punto, perfezionandosi, ha conosciuto la Verità che risiede
nel Centro del suo essere, avendo così ritrovato la sua natura primordiale[107].
Come ha detto Rûmî[108],
l'uomo è uno strumento che è incosciente di essere tale e tanto più, di esserlo
al servizio di Dio: ciò è evidente ogni qual volta l'uomo compie degli atti che
vanno contro il suo swadharma. Nel
caso di cui trattiamo, avvenendo la designazione del fatâ all'oscuro del destinatario stesso[109], il
pericolo è che tale designazione non possa operare, diffondendosi all'esterno a
partire dal cuore del fatâ, perché
ostacolato dalla sua nafs. È detto
nel Corano: «Non sono ciechi i loro occhi,
ma ciechi sono i cuori nei loro petti»[110].
L'esistenza della Misericordia e del Rigore si
riallacciano a quanto detto sopra. A tal proposito, Qâshânî ha affermato che: «la Misericordia concerne essenzialmente
l'Assoluto poiché Questi è essenzialmente "Generoso" (Jawâd). Il Rigore, invece, non concerne l'essenza
dell'Assoluto ma, al contrario, esso è semplicemente una proprietà negativa che
proviene dall'assenza di ricettività da parte di alcune cose, affinché vi sia
una perfetta manifestazione degli effetti dell'esistenza e delle molteplici
proprietà dell'esistenza. L'assenza della ricettività, in alcune cose, della
Misericordia, implica che questa non compaia in esse, sia in questo mondo sia
nell'altro. Il fatto che la Misericordia divina sia ostacolata nella sua
effusione in una cosa di questo genere, a causa della sua mancanza di
ricettività è detto Rigore in rapporto a quella cosa particolare [...] il Rigore non è altro che la
non-ricettività in atto del "luogo" che si suppone ricevere la
Misericordia in una forma perfetta»[111].
Quando abbiamo parlato delle azioni dipartenti dal
cuore del fatâ, alludevamo al
concetto di "cortesia", inteso non come quella sorta di
superstizione, o "modo di fare", soppravissuta fino ai nostri giorni,
bensì come quella "caratteristica qualitativa degli atti compiuti alla
Corte". Evidenziamo in tal senso che «la
"cortesia" [courtoisie] è
derivata dal latino "cohors, cohortis", la Corte [Cour] è per
definizione un luogo fermo [nel senso che è attorno ad esso che tutto gira] e riservato agli esseri che possiedono
delle qualità particolari»[112].
Atti quindi, riprendiamo, che qualitativamente provengono dal Centro
dell'essere che non è altro se non il Cuore. Il termine cuore, in arabo qalb, significa "centro" o
"mezzo"; perciò secondo Ibn ‘Arabi esso è il centro dell'uomo ed il
polo della sua esistenza, proprio come la Mecca lo è per l'Islam[113]. «La prima cosa che Dio ha ordinato ai Suoi
servi è "riunire" (jam‘)
che è cortesia»[114].
Il fatâ,
conformandosi a quanto proviene dal suo Cuore, in cui è stato fatto discendere,
da Dio, l'abito della futuwwa, non fa
che seguire la Volontà di Dio. Ibn ‘Arabî ha detto che «l'uomo della cortesia [o anche uomo di cortesia] (al-adîb) è colui che riunisce tutti i tratti del nobile carattere (makârim
al-akhlâq) e conosce i tratti del carattere-base,
senza essere descritto da essi. Egli riunisce tutti i livelli delle scienze, [sia] quelli degni di lode che quelli degni di
biasimo, quindi, negli occhi di ogni persona intelligente, la conoscenza di una
cosa è sempre migliore che la [sua]
ignoranza. Perciò la cortesia unisce tutto il bene (ijmâ ‘al-khayr)»[115].
Che si sia o meno nel contesto del combattimento, spirituale o materiale, il
Corano richiama con insistenza gli uomini a dispensare «ciò di cui Noi li abbiamo provvisti». Il verbo dispensare, ha in
arabo una radice ambivalente perché significa sia morte che prosperità. Il
dispensare, a primo acchito, consiste nel perdere il proprio bene, ma in realtà
esso lo fa prosperare in questo mondo e nell'altro come è scritto: «Dispensate sulla via di Dio e non
precipitatevi con le vostre stesse mani verso la perdizione» (Cor., II, 195)[116].
Seguendo l'adab,
è certo che il fatâ adotterà
l'attitudine giusta, il che comporterà la comparsa della giustizia e della
saggezza, perché, come dice Chittick: «la
giustizia consiste nel mettere ogni cosa al suo proprio posto (kamâ
yanbaghî) in ogni situazione, si deve capire
che la propria attività è impossibile senza il discernimento delle giuste
relazioni»[117]. Se
consideriamo il risultato finale della lotta che il fatâ ha compiuto contro le proprie passioni per far sì che
l'altruismo divino possa ancora operare nel manifestato tra la gente e se
teniamo presente il suo viaggio spirituale, notiamo che egli è divenuto
veramente e coscientemente proprietà di Dio. Il valore simbolico del
combattimento consiste quindi nel realizzarsi di un binario prototipico che
trova nel proprio equilibrio la rivelazione della sua unità; a ben vedere
quindi, tutto risponde a una nozione metafisica semplice ma fondamentale, ossia
che l'equilibrio di una qualunque coppia è il segno sufficiente dell'unità che
trascende la distinzione dei suoi termini.
È infatti la guerra interiore[118] che
legittima quella esteriore, poiché il rispetto delle norme divine è l'assoggettamento
degli atti esteriori all'illuminazione dei principi superiori, per evitare di
trovarsi in balia delle passioni che farebbero perdere il "mandato del
Cielo"[119] e contemporaneamente
instaurerebbero la tirannia. Uno dei principali pericoli, che purtroppo si è
tradotto in realtà, è quello, da parte del cavaliere, di interpretare a proprio
favore la norma divina: come abbiamo riportato, la futuwwa è legata all'Indipendenza divina, v'è quindi il rischio che
taluni siano tentati ad usare questa indipendenza nei confronti della stessa
Fonte da cui essa proviene. Considerato anche che la futuwwa è, nelle condizioni normali, il grado di realizzazione
minimo proprio agli Kshatriyas, il
pericolo di cui si ragiona è la ribellione degli Kshatriyas che pretendono di dare una libera interpretazione della
Legge. Questo comporta la perdita automatica della designazione divina e anche
della sua protezione.
Tale designazione divina è sempre data "in
prova": infatti, in ultima analisi, è la stessa vita che esiste in quanto
prova, perché essa si configura come il passaggio allo stato di determinazione
e di caratterizzazione, tracciando un "sentiero" di allontanamento e
di ritorno al Principio. Nello stato di morte non c'è alcuna prova perché vi è
solo l'immutabilità. «In verità abbiamo
voluto abbellire la terra di tutto quel che vi si trova per verificare chi di
loro opera al meglio ...»[120].
In conclusione, essendo la vita una prova, la futuwwa risulterà essere il preludio
indispensabile al superamento di tale prova, rimanendo comunque il suo
risultato finale nelle Sue mani.
«Sii buono
con tutte le creature, per l'amor di Dio, o per tranquillità della tua stessa
anima, affinché i tuoi occhi contemplino sempre l'Amico. L'odio non deve
entrare nel tuo cuore a causa di figure che ti disgustano»[121].
Ringraziamo di cuore: i signori Urizzi, Franco Collino e Chiara Casseler per l'aiuto profusoci e per la loro presenza.
Ringraziamo di cuore: i signori Urizzi, Franco Collino e Chiara Casseler per l'aiuto profusoci e per la loro presenza.
[1] S.
Boezio, La consolazione della filosofia,
Milano, 1996, p. 145.
[2] Sulamî,
Il libro della cavalleria, Roma,
1990, p. 24.
[3] Ricordiamo
però che la decisione di fondare un "ordine cavalleresco" è molto
anteriore a quella del califfo al-Nâsir, ciò è infatti rinvenibile nel libro di
M. Lings, Il Profeta Muhammad,
Trieste, 1988, p. 33.
[4] Per
questo parlano di "preistoria" gli scienziati.
[5] Dice
Guénon, riferendosi al «dominio oscuro
della "preistoria"», che essa «è una funzione essenzialmente "lunare", ed è da notarsi che,
secondo la dottrina tradizionale delle corrispondenze astrali, la massa
popolare corrisponde effettivamente alla Luna, ciò che indica assai bene il suo
carattere puramente passivo, incapace di iniziativa o di spontaneità» (R.
Guénon, Precisazioni Necessarie,
Padova, 1988, p. 21).
[6] Il fatâ non è un grado iniziatico conferito
da alcuno shaykh. In questo errore
sono incappati Hammer-Purgstall e Ponsoye. Vedere di quest'ultimo il libro,
seppur ottimo, L'Islam e il Graal,
Milano, 1989, p. 101.
[7] R.
Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden
persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, p. 309.
[8] D.
Gril, Il Risveglio sulla via d'Allâh,
titolo originale Le Kitâb al-inbâh ‘alâ
tarîq Allâh, Annales Islamologiques, t. XV, 1979, p. 124.
[9] L'istituzionalizzazione
della futuwwa operata da un califfo
sciita (precisamente batinita) è stata la porta di servizio con la quale coloro
i quali, in Occidente, concepiscono la cavalleria solo come un insieme di gesta
"aristocratiche", hanno colto la palla al balzo per continuare a scambiare
l'esteriore con l'interiore. Si tratta sempre, come avremo modo più in là di
dimostrare, di personalità cui la vera spiritualità è preclusa. «Ci sono uomini che sono limitati [...] Non comprendendo se non i fatti della vita
ordinaria, costoro saranno capaci soltanto di essere i mandarini di un
distretto, o, al massimo, i signori di un feudo» (Chuang-tzu, Nan-hoà-cienn
Ching, Milano, 1994, p. 6). L'attenzione va anche estesa al fatto che le
"propensioni" al mondo persiano, da parte di tali persone, sono
indici della loro stessa essenza: sappiamo tutti, infatti, che il mondo
persiano ha recepito gli elementi della tradizione indiana rovesciandoli. Un
esempio, ciò che sono i dêvâ per gli
Indù, sono gli âsura per i Persiani e
viceversa.
[10] Cor., LIX, 21. Consultare anche R.
Gramlich, Abu l- ‘Abbâs ibn ‘Atâ Sufi und
Koranausleger, Stuttgart, 1995, p. 291.
[11] Vedremo
nel proseguimento però che Ibn ‘Arabi attesterà l'esistenza di una referenza
coranica "implicita" e di una referenza profetica, inerenti la futuwwa.
[12] Segnaliamo
la grande importanza di tutta la Sûra XVIII cui accorderemo particolare attenzione
più avanti.
[13] E.W.
Lane, Arabic / English Lexicon,
Cambridge, 1984.
[14] E. I., 1967, p. 983. Vi sono quattro
fasi nella vita di un uomo e una di queste è la «giovinezza vigorosa [... --è
questa fase quella che è più pericolosa:]
nel corso della giovinezza vigorosa, quando il sangue e gli spiriti ribollono
da straripare; si moltiplicano le immaginazioni e gli appetiti; l'armonia del
complesso non è più perfetta, le influenze esterne rendono il suo funzionamento
difettoso» (Lieh-tzu, C'iung-hü-cienn
Ching, Milano, 1994, p. 11).
[15] La futuwwa è sicuramente una via
spirituale, lo dimostrano infatti le sue caratteristiche informantela. «La virtù della più preziosa nobiltà d'animo,
futuwwa, viene da loro [Dervisci] celebrata [esaltata] come fosse la quintessenza della santità»
(R. Gramlich, Die Schiitischen
Derwischorden persiens. Erster Teil: die Affiliationen, "ZDMG",
Wiesbaden, 1965, p. 77). Nella nota 2 Gramlich ricorda anche che: «Ibn ‘Arabî spiega la virtù del fatâ con un hadîth profetico, secondo il quale Dio, interrogato se Egli avesse creato
qualcosa di più potente del vento, rispose così: Sì, i devoti, Egli [Dio] dà con la sua Destra l'elemosina, senza che
la sua Sinistra si accorga» (Ivi).
[16] Cor., XVIII, 60-62.
[17] E.I., 1965, p. 856.
[18] Il genero del Profeta è figura di enorme importanza
nell'Islam, tanto che da lui discendono numerose organizzazioni iniziatiche
islamiche (turuq). Nel contesto delle
turuq (plurale di tarîqa) si vanno a collocare gli
Assassini come diramazione ismaelita, chiamantesi in Oriente bâtiniyya (gli "interni"), a
cui è stato riconusciuto l'utilizzo dell'hashis
all'interno di determinati "riti". Tale confraternita è stata una di
quelle con cui i Templari hanno avuto modo di venire in contatto durante le
Crociate (il sottolineato è d'obbligo perché non è stata l'unica tarîqa con cui i Cavalieri del Tempio
sono entrati in contatto).
A tal proposito ci preme dire che è stato
accordato agli Assassini un interesse eccessivo da parte di alcune personalità
occidentali, gli autodefinentesi "Kshatriyas",
che hanno visto in essi il modello della futuwwa.
L'interesse mal riposto è spiegato dalle accuse di "deviazione"
rivolte alla confraternita e dai costumi licenziosi adottati dagli Assassini
che vanno di pari passo con una degenerazione della futuwwa. Ibn ‘Arabî, riferendosi ai bâtiniyya, dice che: «... quelli
che vedono il qur'ân senza il furqân negano la realtà della molteplicità e le
classi del cosmo nei gradi dell'eccellenza (tafâdul). Essi sono quegli "esoteristi" deviati (al-bâtiniyya) che dichiarano che solo la realtà
interiore è vera, quindi [conseguentemente] negano la necessità del discernimento tra bene e male e l'applicabilità
universale della Legge rivelata» (W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge, Albany, 1989, p. 363.). Verso il 750 d.
C. è anche attestato che una "società" di fityân aveva iniziato ad assumere bevande alcooliche, droghe e si
era lasciata andare a comportamenti erotici equivoci, segni comprovanti della
loro decadenza in atto. Al-Tawhîdî conferma l'esistenza di tali cavalieri
deviati, «their complete immorality and
decadence, no sin or perversion did they abstain from, even homosexuality, he
relates» (L. Lewisohn, Classical
Persian Sufism: from its Origin to Rumi, London-New York, 1993, p. 566).
Nasr afferma che: «despite the decadence
of certain forms of futuwwah in the third / ninth and fourth / tenth centuries,
authentic futuwwah became integrated into Sufism and references began to appear
in Sufi texts to his distinct form of spiritual chivalry» (S. H. Nasr, Islamic Spirituality: Manifestations, London,
New York, 1991, pp. 306-307). Ma la sentenza più dura e diretta contro i
"consumatori di hashis", ce
la fornisce Ash Sha‘râni: «... il drogato
dimentica di lodare il Signore, propala i segreti dei fratelli, perde il pudore
e lo spirito cavalleresco» (Ash Sha‘râni, Il libro dei doni, Napoli, 1972, p. 117).
[19] Per
un approccio simbolico alla spada, cfr. R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, 1994, pp. 165-169 ("Sayful-Islam").
Ricordiamo che Dhû-'l-Fiqâr è
l'appellativo della spada di ‘Alî.
[20] L'adab al-khidma ha il suo modello
nell'etichetta regale, esso è un aspetto particolare dell'adab della Legge (adab al-sharî‘a) in forza del quale «Dio S'incarica d'insegnare per rivelazione
ed ispirazione. Con esso, ha formato il Suo profeta ed è con esso che quest'ultimo
ci ha formato. Noi siamo dunque i "formati-formatori"» (D. Gril, Scritti su Ibn ‘Arabî, titolo originale Adab and Revelation or One of the
Foundations of the Hermeneutics of Ibn‘Arabî, in "Muhyiddin Ibn‘Arabî, a commerotive volume", Shaftesbury, 1993,
p. 229). Allâh ha formato ciascuna delle Sue creature istituendo in esse il
loro rispettivo adab cui dovranno
conformarsi, Egli ha determinato nella loro ontologica servitù l'eventuale
"abito" o "mantello"(ridâ')
che esse dovranno rivestire. Segnaliamo, per una "definizione" di adab, la seguente opera: S.Murata,
W.C.Chittick, The Vision of Islam,
London, New York, 1996, pp. 306-308.
[21] S.H.
Nasr, Islamic Spirituality:
Manifestations, London, New York, 1991, p. 308.
[22] Ivi. Quanto diremo, anche se non
presenta un nesso diretto con la citazione, tornerà utile nel seguito della
trattazione. Tajallî è uno dei
termini arabi che rendono il concetto di manifestazione e pone l'accento sulla
componente luminosa e diretta di ciò che si manifesta.
[23] Chuang-tzu,
Nan-hoà-cienn Ching, Milano, 1994, p.
135.
[24] Per quanto riguarda il
passo coranico citato, rimandiamo all'ottimo lavoro di G. De Luca, Non sono io il vostro Signore ?, in
«Quaderni di Avallon», Rimini, 1993, n. 31.
[25] T.
Bayrak, The Book of Sufi Chivalry,
Hounslow, 1983, p. 15.
[26] Ivi.
[27] «...l'autentica (vera) Futuwwah non è altro che la realizzazione effetiva
da parte dell'uomo della sua radicale indigenza ontologica e, con la
distruzione dell'ego illusorio, lo svelamento di quella che è, e sempre sarà,
la Realtà Unica» (M. Chodkiewicz, Introduction
of The Book of Sufi Chivalry, Hounslow, 1983, p. 22). Cogliamo anche
l'occasione, servendoci ancora di ciò che Chodkiewicz dice in seguito, per
affermare che non è scritto da nessuna parte che la vera spiritualità, e non
diciamo spiritismo, debba essere ricercata per mezzo di banchetti orgiastici
consumati nell'ombra di cripte sotterranee mediante l'utilizzo di droghe. Al
contrario di quanto taluni pensano, la futuwwa
svolge la sua attività tra la gente e alla luce del sole: «lungo il sentiero che conduce a questo fine [il
compimento effettivo e reale della futuwwa], il fatâ deve prima imparare a non amare il suo ego, e [questo è il motivo] perché, in questo viaggio del suo
noviziato, lo sheikh gli insegna ad
amare gli altri prima di se stesso, e Dio sopra tutti» (Ivi), ricordando che "the others" sono la totalità del
creato e non solo il genere umano. Cfr. Ibn ‘Arabî, al-Futuhat al-Makkiyyah, I, 244; II, 233. Sahl ibn ‘Abd Allâh ha
detto a tal proposito: «cavalleria
significa seguire la Sunna» (Al-Qushayri, Principles of Sufism, Berkeley, 1990, p. 216), inoltre è stato
detto che «cavalleria significa essere fedeli
e non trasgredire i limiti divini stabiliti». Ci sembra giusto precisare
anche che i fityân e i Malâmatiyya «sono stati ingiustamente confusi con i Qalandariyya, dei mistici eccentrici, alcuni dei quali
ricercavano l'estasi nell'hashis» (Sulamî, La lucidité implacable, Paris, 1991, p. 19). Cfr. H. Laust, Gli scismi nell'Islam, Genova, 1990, p.
343.
[28] T.
Bayrak, The Book of Sufi Chivalry,
Hounslow, 1983, p. 15.
[29] D.
Gril, Scritti su Ibn ‘Arabî, titolo
originale Adab and Revelation or One of
the Foundations of the Hermeneutics of Ibn‘Arabî, in "Muhyiddin Ibn‘Arabî, a commerotive volume",
Shaftesbury, 1993, pp. 233-234. L'Assoluto, nella Sua essenza, è completamente
"indipendente", cioè non ha alcun bisogno del mondo (l'esistenziazione
del creato è frutto del Suo altruismo). Non avere bisogno del mondo è come dire
non avere alcun bisogno dei Nomi divini. Essi costituiscono infatti le
relazioni nelle quali l'Assoluto Si pone nei riguardi delle creature ed essi
esistono a motivo e per il fine delle creature. L'Essenza in sé non è qualcosa
che necessita di queste relazioni centrifughe. Ibn ‘Arabî dice: «se l'Essenza è completamente indipendente
dall'intero mondo, questa indipendenza deve essere la stessa per mezzo della
quale l'Essenza trascende i Nomi alla quale sono attribuiti. Ciò perché i Nomi
non indicano solo l'Essenza ma anche i particolari "oggetti nominati"
che sono diversi dall'Essenza. Ciò è reso evidente dagli effetti specifici dei
Nomi». I Nomi divini, nel loro aspetto centrifugo, volgono quindi verso la
molteplicità e la differenziazione e sono perciò "altro" che l'Assoluto,
il quale mantiene la Sua "indipendenza" nei loro riguardi. Nel loro
aspetto centripeto essi invece si volgono all'Essenza e sono, in fondo,
unificati in quanto identificabili con l'Assoluto. In questo secondo aspetto il
Principio, al livello dei Nomi, è Uno così come al livello della Sua assolutezza.
[30] W.
Chittick, The Sufi Path of Knowledge,
NewYork, 1989, p. 32.
[31] S.H.
Nasr, Islamic Spirituality:
Manifestations, London, 1991, p. 304.
[32] Ivi.
[33] F.
Skali, Futuwah, Paris, 1989, p. 30.
Se poi la futuwwa ha assunto
caratteristiche esteriori prettamente legate al mondo della guerra, ciò non può
costituire l'alibi per chi non ha proseguito nella ricerca e quindi effettiva
realizzazione del suo senso principiale. Dicendo questo, non vogliamo sminuire
per niente l'importanza della valenza guerriera associata al concetto di
cavalleria, quanto evidenziare certe affermazioni palesemente contraddittorie
con il vero e autentico significato della futuwwa.
Ci riferiamo evidentemente a quelle personalità occidentali che, sostenendo che
il cavaliere "Indoeuropeo" non presenta "tratti servili"
contrariamente ai popoli semiti, si sono poi fatte attrarre dall'alone
"misterico" di alcune correnti deviate della Shî‘a. Gli autori di tali affermazioni non hanno la ben che minima
conoscenza di ciò che sia la futuwwa;
se poi essi collegano questa "loro" visione della futuwwa alla cavalleria occidentale,
ebbene costoro non hanno nemmeno coscienza di cosa sia la cavalleria.
Riferendosi a queste "strane" concezioni della cavalleria spirituale
islamica, Gramlich così sentenzia: «Va
ancora sottolineato, come e in quali ambiti si siano diffusi nell'Islam delle
forme decadenti di mistericità» (R. Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre,
Wiesbaden, 1976, p. 144, nota, 821). Non c'è dubbio comunque che la cavalleria
dovrà essere trasposta dal piano propriamente materiale delle gesta belliche a
quello interiore del pugnare contra se,
arrivando cioè all'Atmâ-Gîta, interpretazione
profonda della Bhagavad-Gîta. «In effetti, la battaglia di cui si parla
nell'opera simboleggia l'azione, in senso generale, sotto una forma consona
alla natura e alla funzione degli Kshatriyas ...» (R. Guénon, Studi sull'Induismo, Roma, 1983, p.
7).
[34] Al-Qushayri,
Principles of Sufism, Berkeley, 1990,
p. 214.
[35] Sulamî,
Il libro della cavalleria, Roma,
1990, p. 79. Segaliamo l'affinità con il detto evangelico: «non fare agli altri quello che non vorresti
che gli altri facessero a te».
[36] R.
Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden
persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, p. 309. In
realtà come scrive Chuang-tzu: «C'è un
"io", solo per contrasto con un "lui". Poiché lui e io sono
soltanto esseri di ragione, in realtà non c'è neanche quel qualcosa di più
vicino che è chiamato "mio", e quel qualcosa di più distante che è
chiamato "tuo"» (Chuang-tzu, Nan-hoà-cienn
Ching, Milano, 1994, pp. 12-13).
[37] Al-Qushayri,
Principles of Sufism, Berkeley, 1990,
p. 214. Ricordiamo quanto abbiamo riportato nella nota 11, in cui è attestato
che la futuwwa consiste nel
comportarsi conformemente a ciò che ha fatto il Profeta; il cavaliere dovrà dunque
emulare il Profeta in questo suo altruismo, riflesso anche quest'ultimo, di
quello eminentemente divino manifestatosi con il Kun.
[38] Ivi.
[39] Ivi, p. 215.
[40] La
milizia o la guerra sono necessarie quantunque dolorose, al pari delle
punizioni o della legge del taglione: «non
vi è dubbio che la legge del taglione sia un male e una distruzione di quel che
Dio l'Altissimo ha costruito. Tuttavia questo male è parziale: serve a
proteggere gli uomini dall'omicidio, il che è un bene totale. Desiderare un
male parziale in vista di un bene totale non è un male; invece rinunciare alla
volontà divina parziale per accontentarsi di un male totale è male» (Rûmî, Il libro delle profondità interiori,
Milano, 1996, p. 219). La milizia contro le proprie passioni va anche a vantaggio
delle altre persone, in mezzo a cui noi viviamo: «Sorvegliate le vostre parole e la vostra condotta, perché le vostre
parole saranno ripetute e la vostra condotta sarà imitata» (Lieh-tzu, C'iung-hü-cienn Ching, Milano, 1994, p.
107).
[41] Boezio,
La consolazione della filosofia,
Milano, 1996, pp. 145-146.
[42] Cor., XLIX, 14.
[43] «Anche [se avresti] la comodità del serpente, tu non potrai rifugiarti da nessuna parte /
Hai visto il serpente quando striscia? Egli si muove sinuoso sul cammino / Ma
allorché si avvicina al suo nido, rinuncia alla sua andatura tortuosa / Perché
finché non avrà abbandonato le sinuosità [delle sue movenze], egli non potrà reintegrare [?] il suo nido. Tu, se rigetti lontano da te i
circuiti [le sinuosità, vale a dire le tortuosità che avvolgono i tuoi pensieri
e che condizionano la tua mente] il
cammino diritto ti condurrà fino al tuo nido». «Se tu ti smarrirai [nell'oscurità della] cecità, resterai sempre cieco... » (Fariddudine Attar, Le Livre divin, Paris, 1961, pp.
191-192).
[44] Il fatâ che segue la Sunna (vedi nota 11),
si conforma a quanto detto dal Profeta: «Io
sono il signore dei Figli di Adamo e senza vanagloria» (C. A. Gilis, Lo Spirito Universale dell'Islam,
Rimini, 1999, p. 139). «Il nobile (fatâ) è colui che non prende in considerazione
gli uomini (la lode degli uomini) e non si vanta con loro; perché (se) la
vanità (deve esserci) tra gli uomini [nel senso, se è stata prevista la sua
esistenza nel mondo del manifestato],
questa, come è stato detto, apparterrà ad Allâh. Agendo così, il servitore pone
la vanità (e l'affermazione di se stesso) dalla parte del Principio [riconoscendone
quindi la sua primazia], e nel favorirLo
in rapporto agli uomini, egli [il fatâ] non si afferma davanti a loro, se non nel
nome della verità o in suo favore [come abbiamo riportato nel testo, è
stato detto che la cavalleria non consiste nel ritenersi superiore agli altri], è il Principio che si afferma e non il suo
sevitore» (Ibn ‘Arabî, La station de
la Futuwwah et ses secretes (Cap., 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n.
499, pp. 24-25).
[45] «"Siamo tornati dalla guerra santa
minore alla guerra santa maggiore". Gli fu chiesto: "E che cos'è la
guerra santa maggiore?" Rispose: "La guerra santa contro le
passioni"». Al jihâd minore
corrisponde il mondo del divenire, a quello maggiore corrisponde il mondo
dell'essere. «La guerra santa è fatta di
dieci parti: una è quella contro gli infedeli, le altre nove sono il tuo
combattimento contro te stesso» (Ash-Sha'rani, Vite di sheikh musulmani, Bari, 1962, p. 127). Segnaliamo anche
l'esistenza di un grande pellegrinaggio e di un piccolo pellegrinaggio, in tal
senso rinviamo a: C. A. Gilis, La
Doctrine initiatique du Pèlerinage, Paris, 1982.
[46] «Finora, abbiamo condotto la guerra contro le
forme, abbiamo combattuto contro nemici che avevano una forma; attualmente
combattiamo gli eserciti del pensiero, affinché i buoni pensieri distruggano
quelli cattivi e li caccino dal dominio del corpo» (Jalâl-ud-Dîn Rûmî, Il libro delle profondità interiori,
Milano, 1996, p. 80).
[47] Cor., XII, 53.
[48] Cor., LXXV, 2.
[49] R.
Guénon, Iniziazione e realizzazione
spirituale, Milano, 1997, p. 61.
[50] R.
Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden
persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, p. 287, nota
1528.
[51] Vedere
A. K. Coomaraswamy, La Doctrine du
Sacrifice, Paris, p. 191 ss.
[52] R.
Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden
persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, p. 289.
[53] Ivi, p. 293.
[54] Al-Qushayri,
Principles of Sufism, Berkeley, 1990,
p. 215.
[55] Ivi. Vedere anche la nota 44.
[56] F.
Skali, Futuwah, Paris, 1989, p.
27.
[57] Prima
quindi di parlare di guilds bisogna
focalizzare la propria attenzione sull'indipendenza e nobiltà del cavaliere.
[58] F.
Skali, Futuwah, Paris, 1989, pp.
27-28. Cfr. R. Gramlich, Abu l- ‘Abbâs
ibn ‘Atâ Sufi und Koranausleger, Stuttgart, 1995, p. 213.
[59] Sulamî,
Il libro della cavalleria, Roma,
1990, p. 65.
[60] Ambedue
significano "virilità".
[61] E.I., 1997, p. 637.
[62] Ci
sembra interessante presentare quello che Gramlich cita, di Gurayrî, in una
nota: «In der ersten Generation verkehrten
die Menschen miteinander nach der Religion; als dann die Religion schwach
wurde, standen in der zweiten Generation die menschlichen Beziehungen im
Zeichen der Treue. Als auch die Treue gegangen war, handelte man in der dritten
Generation nach ritterlichen Grundsätzen (murû'a, etwa im Sinne von Rechtlichkeit),
bis es auch diese nicht mehr gab und in der vierten Generation an deren Stelle
die Scham trat. Aber auch diese schwand und Begierde und Angst wurden zum
Maßstab ihrer Geschäfte» (R. Gramlich, Die
Schiitischen Derwischorden persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre,
Wiesbaden, 1976, pp. 155-156).
[63] I.
Goldziher, Muslim Studies, London,
1967, p. 22.
[64] Ivi, p. 23. L'autore afferma che l'Islam
non si è opposto alla gran parte delle concezioni pre-islamiche inerenti alla
virtù, e aggiunge che esse sono state incorporate nell'insegnamento islamico. A
conferma di quanto asserito, Goldziher cita la Sûra IV, 40: «Invero Allâh non commette ingiustizie,
nemmeno del peso di un solo atomo. Se si tratta di buona azione, Egli la
valuterà il doppio e darà ricompensa enorme da parte Sua».
[65] F.
Skali, Il libro della cavalleria,
Roma, 1990, p. 24.
[66] E.I., 1965, p. 983.
[67] I.
Goldziher, Muslim Studies, London,
1967, p. 25. «Una parte della muruwwa era conosciuta quando la moderazione non si
addiceva al carattere di un eroe e quando la ferocia (jahl) era al contrario indicata [per un eroe]: "Sono feroce (jahûl) mentre la moderazione (tahallum) farebbe l'eroe disprezzabile, mite quando
la ferocia (jahl) sarebbe inopportuna
ad un nobile" ... » (Ivi, p.
205).
[68] In
questo senso ci riferiamo a quanto detto precedentemente per la muruwwa.
[69] Ibn
‘Arabî, Le livre d'enseignement par les
formules indicatives des gens inspirés, Et. Trad., mars-avril, 1967, p. 81.
«Quello che cammina (ar-râjil) è più nobile che il cavaliere (al-fâris), perché il cavaliere ha una monture, e tutto l'essere che si tiene su una
cavalcatura è velato per il fatto che è portato» (Ivi, p. 87).
[70] W.
Chittick, The Sufi Path of Knowledge,
New York, 1989, p. 366.
[71] «"Manliness", as pointed out above,
is the "accidental" as opposed to the essential perfection of the
perfect men, the means whereby they manifest the names and attributes of God in
their multiplicity» (W. Chittick, The
Sufi Path of Knowledge, New York, 1989, p. 413, nota 18).
[72] Ibn‘Arabî,
Il nodo del sagace, Milano, 2000, p.
61.
[73] F.
Skali, Futuwah, Paris, 1989, p.
32.
[74] Nel
piano microcosmico ciò equivale a dire, essere conforme al proprio swadharma.
[75] «[...] et il entre aussi dans le cadre de la
préférence que tu Lui réserves, si Lui te le demande, que tu sollicites une récompense
pour les actes nobles que tu as accomplis. Il fait partie de la Futuwwah que tu demandes une compensation, puisque
ta conformité à Son ordre te fait abandonner ton intérêt; tire donc avantage de
l'abandon de ton intérêt et réalise ainsi l'attribut de la Futuwwah»
(Ibn‘Arabî, La station de la Futuwwah et
ses secretes (Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n. 499, pp.
78-79).
[76] F.
Skali, Futuwah, Paris, 1989, p.
33.
[77] W.
Chittick, The Sufi Path of Knowledge,
New York, 1989, p. 64.
[78] Ibn
‘Arabî, La station de la Futuwwah et ses secretes
(Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n. 498, p. 21. Come avevamo
accennato nella nota 6, Ibn ‘Arabî afferma che: «per quello che concerne la Futuwwah divina, troviamo due referenze, l'una coranica e l'altra profetica»
(Ivi, p. 19). La prima è data dal
versetto 56 della Sûra "Quelle che spargono", «Non ho creato i Jinn e gli uomini se non perché Mi adorassero», la
seconda è quella appena citata nel testo.
[79] Vedere
quanto detto in nota 20.
[80] L'incoscienza
dell'uomo, può essere messa in relazione con il velo posto da Dio sul Suo altruismo
creatore, che si rinviene nella celebre tradizione profetica più volte citata.
[81] Jalâl-ud-Dîn
Rûmî, Il libro delle profondità interiori,
Milano, 1996, p. 244. Dice Ibn ‘Arabî: «è
sempre alla funzione, e non a noi stessi, che appartiene l'onore» (Fut. Mek., cap. 351).
[82] Ibn
‘Arabî, La station de la Futuwwah et ses
secretes (Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n. 498, p. 18.
[83] Sulamî,
La Cavalleria spirituale, Milano,
1998, p. 19.
[84] Cor., XVIII, 12. I fityân, «senza avere
intermediari e indicazioni, ugualmente credevano in Lui e acquisivano nobiltà
essendo sempre più ben diretti, finché si ersero sul terreno della prossimità:
"Dichiararono: Il nostro Signore è il Signore dei cieli e della
terra"» (Cor., XVIII, 13) (Sulamî,
La Cavalleria spirituale, Milano,
1998, pp. 19-20), perché seguivano il loro cuore ove era stato fatto discendere
l'adab al-khidma. Proponiamo di
seguito il commento di Ja‘far al-Sâdiq inerente al versetto 14 della Sûra Al-Kahf: «(Quando si levarono), cioè si levarono e furono sinceri nell'invocarCi;
si levarono verso la Verità in verità, con un gesto di rispetto e La chiamarono
in onestà e Le mostrarono l'autenticità della [loro] povertà, e cercarono rifugio presso di Lei nel modo migliore dicendo:
(Il Signor nostro è Signore dei cieli e della Terra), menandoNe così vanto e
magnificandoLa. Quindi la Verità li ricompensò» (P. Nwyia, Le Tafsîr Mystique, Beyrouth, 1968, t.
43, f.4, 206).
[85] L.
Lewisohn, Classical Persian Sufism: from
its Origins to Rumi, London, New York, 1993, p. 556.
[86] R.
Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden
persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, pp.
311-312.
[87] D.
Gril, Il Risveglio sulla Via d'Allâh,
titolo originale Le Kitâb al-inbâh ‘alâ
tarîq Allâh, «Annales Islamologiques», t. XV, 1979, p. 132.
[88] P.
Dall'Oglio, Speranza nell'Islam,
Genova, 1991, pp. 172-173.
[89] Favoloso
è il commento di Tabarî ai versetti 13 e 14, da cui traspare la fede e il
distacco dal mondo come un'uscita, una "egira" verso Dio: «(E li facemmo avanzare nella retta via), nel
senso che aggiungemmo, alla loro fede nel Signore loro, un aumento di fede e di
penetrazione nella loro religione per poter sopportare il distacco dalla dimora
del loro popolo, lo sfuggire dal loro esser nel novero della religione di
quelli, [fuggendo] verso Dio, ed il
lasciare l'agiatezza e la dolcezza, dell'esistenza che avevan menato, per la
rozzezza della permanenza nella grotta sulla montagna» (Ivi, p. 66).
[90] Sulamî,
Il libro della Cavalleria, Roma,
1990, p. 123.
[91] Ivi.
[92] Sulamî,
Tabaqat as-Sufiyya, Cairo, 1969, p.
10. La citazione ci è stata fornita e tradotta dal signor Urizzi, senza il cui
aiuto tutto sarebbe stato quasi impossibile. Confrontare anche Rûmî, Il libro delle profondità interiori,
Milano, 1996, pp. 19-24.
[93] «Il segno della ricchezza in Allâh è
l'indipendenza dell'anima (‘izza al-nafs)
nei confronti di quel che possiedono gli uomini; la ricchezza nelle cause
seconde si situa al lato opposto di questa. Le realtà essenziali, in effetti,
sono tali che appoggiarsi all'Indipendente (al‘ Azîz) genera l'indipendenza (‘izza):
ora, non è indipendente che Allâh. Analogamente, appoggiarsi ad un essere servile
genera asservimento: ora, di servile non vi hanno che le creature. Chi
preferisce l'indipendenza all'asservimento preferisce Dio alle creature»
(D. Gril, Il Risveglio sulla Via d'Allâh,
titolo originale Le Kitâb al-inbâh ‘alâ
tarîq Allâh, «Annales Islamologiques», t. XV, 1979, p. 140).
[94] Per
quanto riguarda il versetto 28, confrontare anche: R. Gramlich, Abu l- ‘Abbâs ibn ‘Atâ Sufi und
Koranausleger, Stuttgart, 1995, p. 196.
[95] P.
Nwyia, Exégèse coranique et langage
mystique, Beyrouth, 1970, p. 283.
[96] «Non ho creato i Jinn e gli uomini se non
perché Mi adorassero» (Cor., LI,
56); «Ero un tesoro nascosto e ho voluto
essere conosciuto, allora ho creato gli uomini e Mi sono fatto conoscere, così
essi Mi hanno conosciuto», hadîth qudsî.
[97] Ibn
‘Arabî, La station de la Futuwwah et ses
secrets (Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n. 498, p. 21.
[98] Ivi, p. 19.
[99] Citazione
da Ibn ‘Arabî fatta in W. Chittick, The
Sufi Path of Knowledge, New York, 1989, p. 65.
[100] «Egli è Colui che porta le cose dalla
non-esistenza all'esistenza e poi le fa ritornare alla non-esistenza. Egli ha lasciato
l'esistenza delle cose a tale livello al fine di renderla capace di espressione
verbale. Egli ha fatto questo affinché non potessimo percepire la verità
dell'essere creato e del non essere creato, e affinché non potessimo oltrepassare
questo limite di realizzazione - fissato da Lui per noi - relativamente al Suo
autentico non essere creato» (Citazione dell'apertura delle Futûhât al-Makkiyya, in ‘Ayn al-Hayât, 1996, n. 2, p.
129).
[101] Vedi
nota 8.
[102] Ibn
‘Arabî ha affermato che è al-Ghanî il
Nome divino della futuwwa. Cfr. Ibn
‘Arabî, La station de la Futuwwah et ses
secrets (Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Et. Trad.», n. 498, p. 19. «L'opposto di ghinâ (ricchezza) è faqr,
"povertà" o "necessità", che, come noi abbiamo visto in
diverse occasioni, è l'attributo essenziale e insito di tutte le cose create o
"originate temporalmente" (hâdith)» (W. Chittick, The Sufi
Path of Knowledge, New York, 1989, p. 64).
[103] Ibn‘Arabî,
La station de la Futuwwah et ses secretes
(Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Etudes Trad.», n.499, p. 78.
[104] Vedi
nota 9.
[105] La
ricettività alla parola divina esercita una funzione equilibratrice e ispira
quindi l'attitudine giusta in ogni circostanza. Sulamî ha a tal proposito un hadîth: «Secondo Shaqîq, da ‘Abdallâh (Ibn Mas‘ûd) l'Inviato di Dio ha detto:
"Dio m'ha inculcato l'adab e
l'ha reso perfetto in me, e quindi mi ha comandato d'osservare i nobili
caratteri dicendo: 'Sii indulgente, ordina il bene e tienti lontano dagli ignoranti'
(Cor., VII, 199)"» (D. Gril, Scritti
su Ibn‘Arabî, titolo originale Adab
and Revelation or One of the Foundations of the Hermeneutics of Ibn‘Arabî,
in "Muhyiddin Ibn‘Arabî, a
commemorative volume", Shaftesbury, 1993, p. 256.). Il maqâm dell'adab consiste nell'agire secondo il Diritto ed attenervisi.
[106] Ciò
corrisponde all'attenersi al compito che gli è stato affidato. Il servo di Dio,
che qui è il cavaliere, è paragonabile all'esattore d'imposte che deve
raccogliere tutto ciò che è di sua pertinenza; terminato il suo incarico, il
servo diligente riceve solo che l'elogio, non essendo lui altro che uno cui è
stata data fiducia (amâna) di agire
per conto di un Altro.
[107] Questo
corrisponde all'adab al-haqîqa che è
il superamento della dualità, presupposto dell'adab stesso. «L'adab esige l'Altro. Ora, [colui che ha
sorpassato la dualità] si trova in una
stazione nella quale gli altri scompaiono; l'adab cessa, poiché non c'è più il con chi» (Fut. Mek., II, 286; in D. Gril, Scritti
su Ibn ‘Arabi, titolo originale Adab
and Revelation or One of the Foundations of the Hermeneutics of Ibn‘Arabî,
in "Muhyiddin Ibn‘Arabî, a
commemorative volume", Shaftesbury, 1993, p. 230).
[108] Cfr.
nota 61.
[109] Vedi
nota precedente.
[110] Cor., XXII, 46. I cuori sono come i
campi dei segreti che devono essere lavorati tramite esercizi spirituali e con
l'emendamento dei caratteri. Non si deve mai lasciarli incolti affinché
divengano pastura per le bestie da soma!
[111] Da
T. Izutsu, Sufism and Taoism, ....,
p. 104. Cfr. Rûmî, Il libro delle
profondità interiori, Milano, 1996, p. 218.
[112] Ibn‘Arabî,
La station de la Futuwwah et ses secrètes
(Cap. 146 delle Fut. Mek.), «Et. Trad.», n. 499, pp. 81-82, nota 4. «Few concepts have been as important in
shaping the Islamic ethos as ‘courtesy' or ‘etiquette' (adab), which, in the view of the religious
scholars, goes back to the Prophet's Sunna. He who has courtesy has achieved perfect
refinement of words and deeds by weighing himself in the Scale of the Law as
embodied in the person of the Prophet» (W. Chittick, The Sufi Path of Knowledge, New York, 1989, p.175).
[113] In
tal senso si deve interpretare l'episodio di Ibn ‘Arabî e il fatâ mentre compiono il tawâf.
[114] W.
Chittick, The Sufi Path of Kowledge,
New York, 1989, p. 175.
[115] W.
Chittick, The Sufi Path of Knowledge,
New York, 1989, p.176.
[116] Nella
tradizione taoista, troviamo un affermazione in tal senso nel Tao Te Ching: «Il Saggio non accumula, ma dà/Più agisce a favore degli uomini,/più
può;/più dà loro,/più ha in ritorno./Il cielo fa il bene di tutti,/a nessuno fa
il male./Lo imita il Saggio,/che agisce per il bene di tutti/ e a nessuno si
oppone» (Lao-tzu, Tao Te Ching,
Milano, 1994, cap. LXXXI).
[117] Ivi, p.174.
[118] Essa
è l'Ambula ab intra ermetico
racchiuso enigmaticamente nella sigla VITRIOL:
«Visita le profondità della terra (del
tuo corpo), rettificandola (rettificandolo) troverai la pietra occultata(vi) [nel
senso di velata dalla nafs]». Lao-tzu
ha scritto: «Conoscere gli altri, è
saggezza;/ma conoscere sé stessi è saggezza superiore,/(la natura propria,
essendo ciò che è più profondo e nascosto)./Imporre la propria volontà agli
altri, è forza;/ma imporla a sé stessi, è forza superiore,/(essendo le proprie
tendenze ciò che c'è di più difficile, da dominare) [...]» (Lao-tzu, Tao Te Ching, Milano, 1994, cap.
XXXIII).
[119] È
chiara comunque la distanza intercorrente tra il mandato del Califfo e quello
del fatâ.
[120] Cor., XVIII, 7. Vedere anche R.
Gramlich, Abu l- ‘Abbâs ibn ‘Atâ Sufi und
Koranausleger, Stuttgart, 1995, p. 192.
[121] Jalâl-ud-Dîn
Rûmî, Il libro delle profondità interiori,
Milano, 1996, p. 245.