"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 17 aprile 2015

Alberto de Luca, Fondamentalismo - Riflessioni e recensione su un libro su Kalâbâdhî


Alberto de Luca 
Fondamentalismo
Riflessioni e recensione su un libro su Kalâbâdhî

In genere risulta arduo parlare oggigiorno, perché la maggior parte dei termini, che si possono usare, ha assunto dei significati lontani dal loro vero etimo.
Questo è un po’ il segno dei tempi, ovverosia è la parodia che si fa strada e che capovolge l’idea che in-forma la parola, realizzando una sorta di pervertita reductio ad unum, in base alla quale è la molteplicità delle parole a determinare il loro significato.[1]
In questo senso va ricondotta anche la vasta problematica inerente al termine fondamentalismo, oggigiorno quasi sinonimo di Islâm grazie ai capolavori mediatici occidentali, voluti o meno, che l’hanno impresso nell’immaginario collettivo quale «tradizione del terrore».
È chiaro che non tutto il dar al-Islâm (la terra dove l’Islâm si è affermato) viene così presentato, ma è curioso notare come questi scampati alle purghe dei «libertari» occidentali, siano in realtà quei paesi in cui il senso di riconoscimento nella tradizione islamica sia il meno sentito. Da ciò l’amara constatazione dell’applicazione di quel principio «non-democratico», che però è applicato dai «paesi democratici», in base al quale non si accettano le posizioni degli altri in quanto altre, bensì gli altri in quanto non più altri. Nella misura in cui non si è più diversi, ma si diviene globalmente «democratici», allora si è accettati. Ecco perché nel momento in cui l’Islâm diventasse laico, nessuno avrebbe alcunché da ridire, di questo se ne è certi.
Si è di fronte, insomma, alla solita degenerazione occidentale, in forza della quale il laicismo è un valore assoluto. Va bene, il laicismo può essere un valore assoluto per l’occidentale, ma come la mettiamo con chi non è occidentale e del laicismo non sa cosa farsene? Ricorreremo al broccardo inglese del fardello dell’uomo bianco? Ma non si è sempre venduto a piene mani il fatto che la diversità è il valore aggiunto dell’umanità e che quindi va tutelato?
In realtà esiste già la risposta a questi quesiti - forse banali - e riposa nella distruzione dell’Assoluto a beneficio dei relativi, il quale comporta, infatti, che nel piano del relativo s’imponga la forza come unico strumento d’affermazione.[2] Le cose e le relazioni si basano oggi solo su rapporti di forza e pertanto non esprimono alcunché di verità.
Sulla base di questi pensieri si è ritenuto opportuno parlare del fondamentalismo, spiegandone succintamente la genesi ed il significato più autentico, e come contrastarlo, forse.
Il fondamentalismo nasce in Occidente, negli Stati Uniti per la precisione, in seno al Protestantesimo ed è caratterizzato da un rigorismo letterale nell’assolvimento degli obblighi religiosi.[3] La preoccupazione che ne sta alla base è che la scienza moderna possa intaccare l’integrità della verità contenuta nella Bibbia.
Iniziatori del tutto furono, dunque, due pastori battisti che diffusero, a cavallo del 1910-12, il «manifesto di Niagara Falls» tramite una serie di pubblicazioni intitolate The Fundamentals. In essi si può notare un chiaro linguaggio apocalittico, in forza del quale gli Stati Uniti, nuova Gerusalemme, sono la Nazione chiamata da Dio a far trionfare il Bene contro le manovre di Satana, che come una sorta di Ydra ha cento teste, sempre differenti e pronte ad essere invocate. All’interno di questa particolare visione del mondo si collocano quindi la Moral Majority e la Christian Coalition.[4] Da quanto ora esposto, Introvigne sostiene che estrapolando alcune caratteristiche dall’«originale» protestante, si è creata una categoria, usata per identificare movimenti e correnti all’interno dell’ebraismo, dell’induismo, del buddismo e dell’Islâm, facendo perdere così lo spessore scientifico al termine fondamentalismo.[5]
Se il termine rimanda, dunque, correttamente all’idea delle fondamenta, quindi della sicurezza e dell’essenzialità, la sua «applicazione» alla realtà, invece, comporta la cementificazione in un formalismo privo di alcuna adattabilità. Il fondamentalismo è la degenerazione delle fondamenta, che traggono valore dal verbo «fondare» così importante nel passo evangelico: «la casa dell’uomo saggio è fondata sulla roccia, quella dello stolto sulla sabbia» (Mt. 7:24-28).
Il fondamentalismo produce il fanatismo, che assieme al cinismo, frutto dell’albero del nichilismo, battono come venti impietosi quest’epoca. Entrambi nascono al di fuori dell’alveo della tradizione.[6] Non sono certamente «pneumacentrici», bensì egocentrici, visto il primato che l’uomo vi gioca.[7]
Il fondamentalismo sorge in realtà quando tremano i fondamenti ed allora vengono compensati dall’ideologia che ne sostituisce le basi e la tradizione con un atto di volontà intellettuale. L’integralismo – sinonimo del precedente - è frutto maturo di un’integralità appassita e perduta che si ricompone in maniera forzata nei percorsi utopici ed imperiosi dell’idea. Esso è l’ideologia di chi si ammanta fraudolentemente delle insegne del Regno di Dio, per realizzare hic et nunc il loro regno.[8] E se il fondamentalismo nasce nell’Occidente più-Occidente – ossia gli Stati Uniti -, l’ideologia, come concezione nasce, invece, in quel contesto culturale fortemente anti-platonico ed anti-tradizionale, che fu l’Illuminismo. Destrutt de Tracy, Helvétius e Condillac furono i propugnatori di quelle idee che sbocciavano dalle sensazioni, organizzazioni mentali delle nostre percezioni ma che non richiamavano alcuna trascendenza e non rimandavano ad alcun piano metafisico.
Il fondamentalismo è dunque essenzialmente moderno ed essenzialmente occidentale con buona pace di tutti quei nuovi libri di quegli esperti dell’Islâm appena usciti da un episodio delle Mille e una Notte.[9]
Da quanto finora detto, però, non si deve leggere un tentativo di scusa oppure la produzione di un alibi in favore dell’Islâm. Nulla di più lontano.
Le responsabilità esistono, ci sono e vanno generosamente distribuite a tutti quei musulmani modernizzati, che hanno tentato di seguire le orme dei loro «fratelli» pionieri occidentali. In questo senso si dissente dall’interpretazione fornita da Ernst Nolte in occasione del convegno internazionale della Fondazione Liberal a Trieste, in forza della quale «l’islamismo deve essere considerato il giacobinismo del Ventunesimo secolo».[10] Pur con tutti i se ed i ma, che lo studioso ha correttamente inserito nella sua affermazione, sembra, ma si può sbagliare, che si siano adottate delle «categorie» prettamente occidentali e laiche ad una civiltà che è totalmente avulsa dal laicismo. Il fatto che l’Islâm implichi l’«eguaglianza» dei suoi appartenenti non è certo una categoria sociologica oppure economica, come invece il giacobinismo implica. Si tratta invece di un’«appartenenza pnuemalogica» e come tale tradizionale, con all’interno tutta la sua varietà di differenziazioni. Non si è dunque di fronte ad un magma indifferenziato, bensì a qualcosa, forse, accostabile al broccardo una religio in rituum variegate, che rende ragione della molteplicità degli esseri ma anche della superiore Unità divina, che il tawhîd onora[11]. Si potrebbe pertanto rispondere a Nolte, riportando Solgenitsin, che ha invece detto che «la Rivoluzione francese si è svolta nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: libertà, uguaglianza, fraternità. Ma, nella vita sociale, libertà e uguaglianza tendono a escludersi reciprocamente, sono antagoniste: infatti, la libertà distrugge l’uguaglianza sociale ed è proprio questa una delle funzioni della libertà, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, non è della loro famiglia, è un'aggiunta avventizia allo slogan: la vera fraternità non può essere costruita da disposizioni sociali, è di ordine spirituale»[12] e nell’Islâm ciò è dato dal concetto di umma, comunità degli eguali credenti.
Se già come sopra, sembra poter leggere nelle parole di Nolte l’incomprensione della vera diversità dell’Islâm rispetto all’Occidente, pare allora naturale che mai si potrà capire la differenza che intercorre tra radicalità, intesa come tentativo di vivere radicalmente una fede religiosa, e fondamentalismo, «ideologia teologica» dietro cui si cela un programma politico.[13]
Nell’attesa dunque di determinare se esista o meno un nesso diretto tra cinismo – e quindi nichilismo – e fanatismo – e quindi fondamentalismo – va però ricordato come il «ritorno alle origini», dogma dei fondamentalismi in genere, sia la condizione esistenziale contemporanea degli sradicati dalla propria tradizione.[14] Ora l’impostazione di fondo di tutte queste correnti moderniste consiste, come dice giustamente Veneziani, nel «demitizzare il reale; vuol dire considerare tutto modificabile e deperibile, nulla realmente dato e stabilito per sempre, ma soggetto a mutamento».[15] Tutto è dunque un artificio, una convenzione storica, che può essere tranquillamente demistificata e destrutturata al fine di produrre una società su nuove basi.
Contrariamente al tentativo fondamentalista ossia modernista, che si ammanta fraudolentemente dei vessilli del Regno di Dio, di mitizzare il passato e di demonizzare il presente, esiste anche quello progressista tipico dell’Occidente - inteso non geograficamente bensì come insieme di stati economicamente all’avanguardia e secolarizzati – che vedono nel passato una sorta di stupidità latente. Due facce della medesima medaglia, la prora e la prua dello stesso bastimento.
Autentica «alternativa» è allora quella posizione che si fonda sulla continuità e sull’identità, seppure rielaborata incessantemente, che fa spregio di quelle esperienze discontinue ed auto-giustificate che divinizzano l’istante: è questa la «visione pneumacentrica», tradizionale per antonomasia.[16]
Sperando allora di non mancare troppo il bersaglio, si dirà che il fondamentalismo[17] è un’ideologia nazionalistica che utilizza, al fine di incontrare consenso, la bandiera della religione mentre lo šahîd, il «martire» che si fa saltare in aria, è un prodotto del nichilismo moderno. Ora l’«integralismo ideologizzato», che vede nel wahabismo e nella salafiyya i suoi labari, non è solo la degenerazione delle fondamenta, ma diventa stragismo terroristico[18] quando da «fondamento» diviene pretesto di affermazione nazionale oppure strada verso il progresso. Qui il paradosso dunque: movimenti nazionalistici panarabi sembrano andare contro lo «statuto universale» dell’Islâm, che vede sorgere e tramontare il sole su una comunità che scrive nella medesima maniera e che appunto si fonda sull’esistenza di una comunità transnazionale. E questo dovrebbe anche far pensare in Occidente.[19]
In ogni caso tutto inizia culturalmente in Occidente e forse è proprio lì che si dovrebbe finire.
Prima di proseguire, preme però evidenziare alcuni capisaldi.
Il contrasto e insieme l’irrisolvibile antitesi è quello tra «pneumacentrismo» ed «egocentrismo», dove il primo è la cifra di quello che potrebbe essere detto «mondo dello Spirito»[20] o «mondo della Tradizione», mentre l’altro è la negazione dello Spirito e l’affermazione dell’io, che viene così reso maiuscolo, senza che però questo implichi una realizzazione del trascendente quanto invece del «hic et nunc» tramite l’affermazione del libero arbitrio.[21]
La figura dello šahîd, così tristemente centrale nel terrorismo fondamentalista, deriva da un’interpretazione letterale e scorretta del Corano, scevra delle sue implicazioni autenticamente spirituali.
Il fondamentalismo non è il tentativo di vivere radicalmente una fede religiosa, perché non ricollega l’uomo a Dio, ma è unicamente il tentativo di costituire un moderno meccanismo di potere rivoluzionario, organizzato sul modello delle organizzazioni terroristiche occidentali.[22] Da qui l’impossibilità di accettare l’affermazione di Nolte, che non distingue tra Islâm e «degenerazione modernista» di esso,[23] un po’ come se identificassimo l’Occidente cristiano solo con gli Stati Uniti.
Alla base del tentativo riformista islamico sta il rovesciamento dell’importanza dell’Altro mondo nei confronti di «questo» mondo, cosa che è stata abilmente orchestrata da personalità come al-Afghani (1838-97),Abduhu (1849-1905), Rashid Rida (1865-1935), Hasan al-Banna (1906-49), Sayyd Qutb (1906-66) ed A‘ala al-Mawdûdî (1903-79).[24] Nella loro azione si è mostrata, infatti, tutta l’avversione verso il mondo sapienziale del Tasawwuf – Sufismo – depositario e guardiano del deposito tradizionale che nell’Islâm si trasmette da maestro a discepolo.[25]
La contrapposizione Sufismo /fondamentalismo è di tipo culturale ovviamente, tanto è vero che «nella repubblica del Daghestan, tra la Cecenia e il Mar Caspio, il fondamentalismo islamico è stato fermato dalle confraternite sufi», dice Marietta Stepanyants – accademica russa delle scienze orientali – che continua, affermando «il ruolo del Sufismo e delle confraternite musulmane come un’alternativa all’Islâm politico», titolo tra l’altro del convegno tenutosi a Torino alla Fondazione «Edoardo Agnelli» nel novembre del 2002.[26]
Va subito precisato però, che il Sufismo[27] non guarda alla politica e nemmeno alla morte o all’aldilà, ma insegna a raggiungere il divino qui e ora, in vita, attraverso la preghiera e la pratica ascetica, possibile solo attraverso l’incondizionato, assoluto amore per Dio, più importante che qualunque precetto. Dal concetto dell’amore di Dio, deriva l’idea di tolleranza ontologica di Ibn‘Arabî: «se è vero che ogni essere umano è diverso dall’altro, è altrettanto vero che tutti sono in relazione con Dio, dove sta l’unità che annulla ogni alterità. Da ciò discende la tolleranza perché ogni uomo e ogni credenza discendono da Lui». Va anche però detto che le confraternite lavorano ancora nell’ombra e nonostante i loro sublimi testi, è anche vero che questo volto spirituale dell’Islâm può apparire ancora troppo sfumato.
In tal senso in questa seconda parte dell’intervento si presenteranno alcune «confutazioni» ad alcuni capisaldi del fondamentalismo, aiutati dalla recensione di un libro di Kalâbâdhî recentemente pubblicato.
Da poco uscito il volume Il Sufismo, opera di Kalâbâdhî – tradotto da Paolo Urizzi per l’Officina di Studi Medievali di Palermo[28] -, esso costituisce una testimonianza eminente del perfetto ancoraggio del Sufismo nel Corano e nella Sunna e pertanto dell’assoluta aderenza degli insegnamenti del tasawwuf all’Islâm ortodosso.[29] Il libro «si direbbe, implicitamente, una risposta a coloro che accusavano [i sufi] o d’introdurre delle innovazioni (bida‘), com’era il caso da parte dei tradizionisti più intransigenti, oppure d’essere bâtiniti, ossia esoteristi che professano una dottrina eretica (zandaqa) in contrasto con la lettera della Rivelazione. Benché in origine quest’ultimo termine fosse servito per indicare gli Ismâ‘îliti, esso venne impiegato dai polemisti sunniti per designare tutti coloro che rigettavano l’aspetto esteriore (zâhir) della rivelazione (tanzîl) in favore del suo significato puramente interiore (bâtin) ..».[30] Il Sufismo, nonostante la desinenza –ismo che si adotta solo convenzionalmente, è, quindi, la parte più profonda della religione islamica anche detta ‘ilm al-bâtin, «scienza dell’interiore» e può essere detta anche «mistica islamica», quando però si abbia ben presente il significato di mystikos.
Il libro si caratterizza per l’eccellenza delle tematiche trattate e la loro importanza tecnica, suggellate da un impianto di note e riferimenti bibliografici di prim’ordine, utili per chiarificare alcune nozioni che Kalâbâdhî, ovviamente, da per acquisite dal lettore.
Nel trattato - Kitâb al-Ta‘arruf li-madhab ahl-al-tasawwuf - , titolo originale – trova spazio anche la spiegazione di ciò che è realmente lo šahîd, termine sovente usato purtroppo nella cronaca nera e dai fondamentalisti islamici per indurre a compiere azioni disumane e certamente non provvidenzialmente volute.
Partendo dalla «dottrina sull’estinzione (fanâ’) e la permanenza (baqâ’)», a pagina 233 si trova la nota 550, una chiarificazione del traduttore molto importante e dettagliata, in cui si dice tra l’altro che «il fanâ’ [annihilimento dell’anima, che diviene puro Aperto e quindi equivalente al Ni-ente del puro Inizio, al di là pertanto di ogni determinazione-negazione] è inevitabilmente un’esperienza di morte, risarcita però con la Vita divina: “Non pensate di coloro che sono stati uccisi sulla Via di Dio che sono morti, essi sono viventi presso il loro Signore, e ben provvisti” (Cor. 3:169), versetto che ha evidentemente una valenza spirituale ben diversa da quella che possiamo ottenere da una lettura meramente essoterica; il šahîd, “martire”, è prima di tutto un “testimone contemplativo”, colui in cui lo Spirito è diventato il šâhid, il “Testimone divino”. Se d’un martire si tratta, è un “martire dell’Amore mystico..».[31]
Si vede, quindi, corroborato quanto già prima si diceva e cioè che il letteralismo priva il testo dell’ermeneutica, finendo per ridurre tutto all’aridità dei segni grafici. In quest’ottica vanno visti non solo le «interpretazioni curiose», a dir poco, dei fondamentalisti islamici, ma anche quei tentativi da parte di certa Cristianità di riportare versetti coranici scevri della necessaria esegesi, al fine di dipingere l’Islâm quale «tradizione sanguinaria».[32] Appartiene a questo tipo di manovra anche la questione dell’infibulazione della donna: centinaia di dibattiti che spendono parole giuste per denunciare questa pratica aberrante, curiosamente però non chiari nell’affermare la sua origine non islamica, che è proibita esplicitamente dal Profeta in persona.
Il fondamentalismo, come si spera di riuscire a dimostrare, è dunque la secolarizzazione in atto dell’Islâm. Uno spunto questo certamente da verificare e sviluppare, ma sicuramente è abbastanza logico poter pensare in questi termini, dato che in una tradizione in cui non esiste de facto la differenza tra spirituale e temporale, l’unico modo per capovolgerla è quello di utilizzare la religione come strumento ideologico, rendendola meno spirituale e più temporale.[33] Su queste basi, allora, il discorso di Nolte sopra esposto può avere forse una certa ragione, in quanto implicherebbe il nascere di un’ideocrazia all’interno di un sistema teocratico. Ma si ripete, che privo di una differenziazione tra Islâm e degenerazione di esso, qualsiasi discorso mancherebbe il bersaglio.[34]
Altro «cavallo di battaglia» di questa «ideologia teologica» è il concetto di jihâd,[35] riportato poi a piene mani da giornalisti orecchianti che non sbiascicano nemmeno una parola di arabo, ma fanno comunque gli inviati dalla Terra Santa.
Puntualizzato che il termine nel suo significato religioso primario indica «sforzo sulla Via di Dio», risulta successiva e secondaria l’applicazione al concetto di «guerra santa» guerreggiata. In tal senso spinge un hadîth, spesso citato nel Sufismo, secondo cui il Profeta, a qualcuno che rientrava dalla battaglia, disse: «siete tornati dalla piccola guerra santa alla grande guerra santa», precisando che la grande guerra santa (al-Jihâd al-akbar) è la lotta contro l’anima, dunque un processo ascetico-catartico dell’uomo che combatte contro le proprie imperfezioni spirituali.
Lo jihâd[36] è pertanto primariamente, per chi si auto-proclama fedele interprete del Corano, una via remotionis, una purificazione da tutto ciò che è accidentale, che può esserci o non esserci, ma non ci costituisce davvero. Lo si potrebbe visualizzare alla stregua dell’immagine proposta da Meister Eckhart nel suo De anima: «quando un artigiano fa una statua di legno o di pietra, non introduce l’immagine nel legno, ma toglie i trucioli che coprivano e nascondevano l’immagine. Non aggiunge nulla al legno, ma, al contrario, scava e toglie ciò che la ricopre, leva via le scorie: allora brilla ciò che era nascosto al di sotto».[37]
Alla luce di queste interpretazioni fuorvianti del Corano e della Sunna operate da chi sosterrebbe invece di essere paladino dell’Islâm, sembrano azzeccate le parole di risposta di al-Nûrî alla domanda rivoltagli sull’opportunità dell’uomo di parlare o meno di spiritualità ad altri, risposta che viene riportata da Kalâbâdhî: «quando [l’uomo] comprende ciò che concerne Dio – che sia esaltata la Sua Maestà ! -, solo allora è giusto che insegni ai Suoi servitori; in caso contrario costui è una disgrazia per il luogo in cui vive e per i suoi abitanti».[38]
Il Sufismo può essere, dunque, un «rimedio» al fondamentalismo letteralista islamico, visto che esso ha sempre posto in atto una lettura equilibrata del Corano, perché il Corano, senza interpretazioni interessate e faziose, non è assolutamente ciò che taluni vogliono che sia. La mystica islamica, come anche lo si è definito, può essere visualizzato come una rosa: si erge su di un gambo irsuto di spine. I fondamentalisti – nel significato che qui si è esaminato, ovverosia di «ideologi teologici», di utilizzatori della religione a fini politici, nel significato proprio che l’Occidente attribuisce a quest’ultima parola – ne afferrano il gambo; ma l’Islâm è il fiore, splendido nei suoi molti petali e il profumo del fiore è il Sufismo.
Il giudice Said al-Ashmawî, grande giurista islamico contemporaneo, ha affermato che la religione non può essere usata come politica, poiché la religione eleva mentre la politica corrompe, limita, divide ed infine uccide. Non si può quindi accettare una formula religiosa spinti dall’ignoranza, dalla paura o dal preconcetto.[39] Il Sufismo è impegnato da secoli nei suoi due principi cardine: fede in Dio e rettitudine nel comportamento. In questa linea ha proposto soluzioni alla ricerca di identità cui attualmente tende l’Islâm contemporaneo, che nelle plurime e a volte perfino aberranti o inquinate manifestazioni oggi rischia di allontanarsi dai precetti coranici, così come ne sono (o ne erano) lontani – pur proclamandosi invece mussulmani – alcuni capi di Stato attuali.
Scrisse Rûmî: «le vie sono diverse, la meta unica. Non sai che molte vie conducono a una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; lì non sussiste contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute e le controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi si diceva l’un l’altro durante la strada “tu sei un empio” dimentica allora il litigio, poiché la meta è unica». Da ciò non si legga un «superamento» della religione, ma un «rispetto» d’ogni religione, come insegna lo stesso Corano.
La recensione del libro che qui si è fatta, non deve incoraggiare un suo uso scorretto ad usum delphini, vale a dire che il libro nasce dall’esigenza sapienziale di conoscere e leggere anche in italiano questo testo importantissimo che è il Kitâb al-Ta‘arruf li-madhab ahl-al-tasawwuf e basta. La contrapposizione, che si è tratteggiata, tra Sufismo e fondamentalismo islamico è prima di tutto spirituale, quindi culturale e solo latamente politica.
L’immagine della rosa sopra accennata rimane comunque come paradigma dell’enorme differenza tra le due realtà islamiche succintamente analizzate, ma forse può assurgere a paradigma universale simboleggiante la diversità tra «pneumacentrismo» ed «egocentrismo». Quest’ultimo, il vero ed autentico scontro in barba a tutti i pretesi «scontri di civiltà», che da un po’ di tempo si vanno vaticinando.
Concludendo, si riporta uno stralcio dell’intervento di Faouzi Skali – esperto di Sufismo e docente all’Università di Fez – sul giornale «le Matin du Sahara et du Maghreb», risalente al venerdì 3 marzo 2000: «des enseignements sont mis en place pour réveiller ce coeur, pour à nouveau le revivifier – c’est le sens du titre du livre de Ghazâlî “Revification des sciences de la religion”, c’est-à-dire la revification du coeur de la Religion -. A ce moment là, par ces pratiques, le coeur réagit d’une certaine façon d’où les hadra, les états extatiques, etc .. qui peuvent parfois surprendre dans une époque où l’on a perdu cette dimension là, mais qui constituent vraiement la dimension la plus profonde et importante de la religion, sans laquelle la religion ne pourrait être qu’un système formel parmi d’autres et perdre sa dimension spirituelle. .. Et certains hadith indiquent qu’il arrivera des temps où l’on verra de nombreuses personnes prier de la manière la plus formelle et adéquate possible, mais qu’en réalité tout cela ne sera aucunement conforme à une véritable spiritualité. .. Et lorsqu’il s’agit de “revenir” à l’Islâm, comme on entend dire souvent, il ne s’agit pas d’enjamber l’histoire ou de remonter le temps, il s’agit de revenir au coeur de cette tradition à partir duquel celle-ci est vécue dans sa véritable signification et authenticité».

Tratto da: http://www.simmetria.org



[1] «La decadenza dell’analfabetismo è la decadenza della cultura spirituale quando la cultura letterale la perseguita e la distrugge. Tutti i valori spirituali appassiscono se la lettera o le lettere morte sostituiscono la parola, che si esprime soltanto a viva voce. Il valore spirituale di un popolo è in ragione inversa alla diminuzione del suo analfabetismo pensante e parlante. Perseguitare l’analfabetismo significa perseguitare bassamente il pensiero a causa dell’orma, luminosamente poetica, che lascia nella parola. Le conseguenze di tale persecuzione sono la morte del pensiero e un popolo, come un uomo, non esiste che quando pensa ..» (José Bergamin, La decadenza dell’analfabetismo, 1933). È una citazione volutamente scioccante, quasi fosse un khoan giapponese, ma il tutto per anticipare quello che sarà un leitmotiv, ovverosia il letteralismo come tomba dello Spirito, il letteralismo come assenza di ermeneutica, il letteralismo come appiattimento verso il basso, il letteralismo come indice della «solidificazione» guenoniana. Lontani dal caldeggiare l’analfabetismo, si è risolutamente avversi però a quel sapere enciclopedico catalogatore, che giudica gli altri alla stregua di bigotti primitivi, quando non accettano di porre al centro del loro sistema valoriale tutto ciò che rientra sotto il nome di scienza. Va anche però ricordata l’allusione che Bergamin fa, in quanto riportato, alla produzione cartacea di sapienza o presunta tale: chi sa non scrive - direbbe una persona che si conosce. Ma chi scrive, non scrive per affermare la propria individualità: lo fa per gli altri, forse.

[2] are interessante, allora, riportare quanto dice Veneziani e in altre parole che «la perdita dell’Assoluto comporta il risarcimento nel molteplice; senza la prospettiva dell’eternità non resta che prolungare il tempo, vivere più vite reincarnandosi seduta stante» (M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, p. 60).

[3] i rimanda all’illuminante analisi sulla teologia protestante di Cornelio Fabro contenuta in L’avventura della teologia progressista (Milano, 1974).

[4] Queste organizzazioni sono ormai dei gruppi di pressione politica che predicano, anche se non direttamente, l’egemonia culturale WASP.

[5] Cfr. M. Introvigne, I Protestanti, Ellenici, Leumann (TO), 1998; J.F. Mayer, I fondamentalismi, Ellenici, Leumann (TO), 2001.

[6] Cfr. M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, «Attraversare il deserto»; E. Jünger, Oltre la linea, Milano, 1989.

[7] Nel parlare di «pneumacentrismo» si ha in mente quanto asserito da Vannini nel suo Mistica e filosofia (Casale Monferrato, 1996), relativamente all’esistenza di una «differenza antropologica» tra gli «uomini che capiscono» - «spirituali, pneumatici» - e «quelli che non capiscono» - «psichici» -. La distinzione indubbiamente risente d’echi gnostici ma possiede pure appigli anche in Paolo di Tarso. Il solco tra queste due «categorie» passa attraverso la razionalità, la quale si ribella di fronte alla «mancanza d’argomenti» mostrata dallo «pneumatico» nel giustificare la sua posizione. Pertanto da questa disamina del Vannini si è inteso riformulare, quello che è lo iato tra mondo tradizionale e mondo moderno oppure mondo secolarizzato e non. In questo senso quello che si chiama «fenomenologia», è l’analisi che libera l’intenzionalità nascosta sotto il fenomeno, sotto ciò che è l’apparente, zâhir in arabo, se si vuole la scorza o buccia che ricopre il nocciolo (al-qišr wa-l-lobb). Strumenti propri della fenomenologia sono pertanto la divinazione, la percezione intuitiva e l’ispirazione: proprio quanto il mondo degli «psichici» non è disposto ad accettare come validi. È anche per questa differenza che passano le infinite distanze tra questi due mondi.

[8] Su questo punto, già si può notare l’enorme differenza che intercorre tra questa visione del mondo e l’orizzonte dilatato del mondo della tradizione. Per quest’ultimo non v’è nel mondo alcun valore e la concezione del tempo è essenzialmente mitica.

[9] È stupefacente notare come dopo l’11 settembre nelle librerie si siano trovati libri sull’Islâm, delle vere e proprie chicche certi, pieni di pregiudizi e editati velocemente su carta di seconda scelta per arrivare prima sul mercato e quindi incassare denaro. Pertanto alcun tentativo di conoscenza, bensì solo la risposta morbosa di un mercato in preda ad un surplus di notizie valide solo ad affermare i propri pregiudizi.

[10] «Corriere della Sera», 20 settembre 2002, p. 37.

[11] È, metafisicamente, l’Unità trascendente di Dio.

[12] «Le Monde», del 28 settembre 1993, p. 26.

[13] Per quanto riguarda il «facile» discorso in merito al fatto che l’Islâm sia una religione politicizzata, andrebbero fatte alcune puntualizzazioni. La teologia mussulmana distingue molto bene religione, fede e islâm. Così, religione ha come equivalente in arabo dîn, che evoca ogni volta la nozione di debito, legge e giudizio. Nell’Islâm la religione è un credito, un debito di riconoscenza, che lega ogni essere umano al suo Creatore. Dio, infatti, ha creato l’uomo per vivere fisicamente in questo mondo, dotandolo di un corpo per gioire dei beni terrestri, così come lo ha fornito dello spirito per trascenderli, al fine di elevarsi a Lui. Il debitore mussulmano, tramite la pratica cultuale, assolve il suo debito, rendendo grazie al Signore. Da ciò si dovrebbe capire, che la preghiera non è primariamente una richiesta indirizzata a Dio, da cui poi trarne profitto, un petitum quindi, bensì è un atto di ringraziamento dell’essere umano per la sua stessa creazione e per il tempo di cui ha goduto. Un detto ebraico dice, infatti, di non pregare perché la vita sia più facile, ma, ammesso che si possa ancora chiedere qualcosa, unicamente di essere provvisti della necessaria forza per proseguire nella vita terrena. Questo debito spirituale è in ogni caso individuale, perché nel Giorno del Giudizio (Yom al Dîn) ognuno risponderà personalmente dei propri atti. Individuale è così anche l’imân significante fede, confidenza e sicurezza. Oltre ad un affare di coscienza, è una adesione interna, una conoscenza del cuore, preliminarmente necessaria a una pratica cultualmente valida. Recentemente, eminenti teologi islamici si sono interrogati sulla validità delle conversioni forzate, suscettibili di incoraggiare un islâm spoglio di imân. Nessuna costrizione nella religione (Cor., 2:256) è la risposta cui sono arrivati, un verdetto ben ancorato nel Libro, che sembra dare loro ragione. A ben guardare, infatti, se l’aggregazione pratica alla comunità, umma, che si riconosce nelle cinque salat, è privata dell’imân, vale a affermare che si compie la salat senza sincera sottomissione, allora si è alla presenza di una falsità individuale molto grave, ma nonostante tutto non vi è abbandono dell’Islâm. Così, se si diventa cristiano attraverso il battesimo, si nasce mussulmano o all’uso ebreo. Insomma l’Islâm è tanto società che cultura che religione, perché, in ognuno dei tre ambiti, Dio vi è presente e tutto è fatto in Suo favore. È in questa particolarità più che in una nozione sacrale dell’organizzazione politica che si radica questa apparente fusione di spirituale e temporale specifico della Città mussulmana. Si sostiene insomma, che non si può parlare nell’Islâm di una scelta istituzionale relativamente ad una forma di governo, perché contrariamente ciò farebbe pensare in ogni modo, che sia stato l’uomo a sceglierla.

[14] Cardini/Lerner, Martiri e Assassini, Bergamo, 2001, p. 153.

[15] M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, p. 70.

[16] «Il punto di svolta tra la vita plurale e la vita fedele è là, nell’accettazione di un orizzonte di vita come il nostro destino e il suo rifiuto nel nome dell’eccedenza di esperienze da sperimentare nell’arco di una sola esistenza» (M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, p. 60). Piace il ragionamento di Veneziani in questo suo confrontare la pluralità/molteplicità alla fedeltà all’Assoluto. Dello stesso autore riportiamo anche un’altra sua considerazione in base alla quale «a volte, nelle società dominate da uno spirito antitradizionale, la Tradizione è l’unica vera trasgressione» (M. Veneziani, Di padre in figlio, Bari, 2002, p. 23).

[17] In questo intervento non si farà alcuna menzione dell’anti-americanismo, perché si pensa che l’analisi del presente sia sufficiente per capire la posizione rispetto al succitato, dato che li si ritiene rami diversi del medesimo arbusto spinoso.

[18] Si ricorda come il terrorismo, quanto a genesi ed applicazione, sia essenzialmente moderno e nasca quando lo ius belli viene cancellato, quando il nemico non è più un iustus hostis, quando si fa strada la «teoria del partigiano» sapientemente descritta da Carl Schmitt. Cfr. M. Fini, Elogio della guerra, Trento, 1989; e tutta l’opera jüngeriana attinente alla figura del guerriero.

[19] Si potrebbe ricordare a questo punto la dicotomia sociologica Gemeinschaft / Gesellschaft - Comunità / Società -, in cui la prima è l’«essere» mentre la seconda è il «divenire». Sarebbe questa la traduzione appunto sociologica di ciò che è il vero scontro tra tradizione e anti-tradizione, tra «pneumacentrismo» ed «egocentrismo», tra «noi» ed «io». Recentemente, va detto, molti studiosi, tra cui lo stesso Veneziani e Tarchi, hanno sostenuto la desuetudine delle contrapposizioni classiche dell’Ottocento tra «destra» e «sinistra», soffermandosi su analisi ben più dettagliate e profonde di questa scarna nota, che in ogni modo muovono verso il riconoscimento di uno scontro tra Global-No Global/comunitaristi. Cfr. M. Veneziani, Comunitari o liberal, Bari, 2002; M. Tarchi, Al di là della destra e della sinistra, Roma, «Atti del convegno», 1982.

[20] Preme subito fugare ogni dubbio circa il rapporto tra questa locuzione e lo spiritismo, ma per farlo bisognerebbe impiegare un numero di pagine tali che lo sconsiglia in questa sede: si rimanderà pertanto a R. Guénon, L’errore dello spiritismo, Milano, 1988. È assodato, infatti, che la parola «spirito» sia familiare al nostro mondo, ma in realtà esso ne ha un’idea piuttosto vaga. Questo può essere imputato alla nostra cultura, che ha perduto l’antropologia antica – corpo, anima, spirito – sostituendola con quella a due poli – corpo e psiche – nella quale di fatto lo spirito è scomparso. Ma ad essere corretti pare che già i Padri del deserto parlassero in termini binari più che ternari, forse però la risposta a questa concordia discordans risiede nel particolare punto d’osservazione in cui si pone l’uomo: dal basso della sua corporeità, alzando lo sguardo, la prima cosa che vede è l’anima – fermandosi pertanto alla diade anima-corpo -, mentre se fosse un osservatore distaccato potrebbe coglierne la triplicità.  Per quanto riguarda il «mondo della Tradizione», si deve anche segnalare il pericolo di una sua possibile deriva in tradizionalismo, ovverosia in ideologia della tradizione, il che può essere equiparato, anche se con varie sfaccettature, a ciò che è il fondamentalismo, ideologia delle fondamenta. «La Tradizione non è una categoria della politica, anche se ogni politica presuppone il richiamo ad una tradizione. La Tradizione è una categoria prepolitica, che non disdegna di manifestarsi come impolitica. Non esiste alcun automatismo che collochi la difesa della Tradizione in uno schieramento anziché in un altro; semmai gli schieramenti possono essere collocati in base al loro rapportarsi all’idea di Tradizione» (M. Veneziani, Di padre in figlio, Bari, 2002, p. 42).

[21] Dice in merito al libero arbitrio Rûmî: «In ogni atto che tu hai desiderio di fare, tu scorgi chiara la tua potenza di compierlo; in ogni atto che tu non hai voglia di fare, allora vedi la costrizione e dici: «È da Dio!» (Rûmî, Poesie mistiche, Milano, 2000, p. 24.) in realtà attraverso il libero arbitrio dell’uomo è il Volere di Dio che si manifesta e non il volere dell’uomo in quanto tale. Per questo, nonostante non ci sia «agente» e «volere» se non Dio e da Dio, tale verità è uno dei segreti della natura divina, che Dio stesso ha celato ai Suoi servi, conferendo loro esteriormente al-ikhtiyâr, il «libero arbitrio», affinché quest’ultimo costituisca un argomento contro gli stessi servi quando ne abusino: Dì: a Dio appartiene l’argomento definitivo (Cor. 4:149) Questo segreto, opportunamente nascosto da Dio, non può essere invocato da parte del servo in suo favore, evitando così di compiere gli atti che gli sono prescritti dalla Legge sacra o addirittura di disobbedirne le disposizioni, dal momento che questi atti prescritti sono contenuti nella Legge e concernono gli atti esteriori, in vista dei quali ogni servo è stato dotato del libero arbitrio per compierli adeguatamente. Da ciò l’importanza di non innalzare a faro dell’esistenza il libero arbitrio, sino a renderlo una luce autonoma.

[22] Come insegnava Meister Eckhart, bisogna investire di assoluto ogni singolo atto, dato che è il come e non già il che cosa a costituire il valore dell’opera. In questo senso si ritiene che il fondamentalismo insegua il che cosa e non badi al come, in ciò abile e corretta applicazione del machiavellismo moderno tipico dell’Occidente. È per questo che la bandiera dell’Islâm spesso solo fatta sventolare, viene utilizzata per arrivare al che cosa, che è l’organizzazione di un centro di potere esclusivamente umano. Su questo punto però va fatta una puntualizzazione. La tirannia dell’ideologia sulla realtà in Occidente è tale da giudicare criminali o giuste le idee e le cause, non già gli atti compiuti oppure gli attori; si arriva così ad addossare all’Islâm le colpe dell’uomo, un po’ come «l’incomparabilità del comunismo rispetto al nazismo nasce proprio dalla diversa intenzione che animerebbe il primo rispetto al secondo: il fine del primo era migliorare l’umanità, il fine del secondo no» (M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Bari, 2003, p. 75). Assolutamente convinti dell’inesattezza di questi ragionamenti, si ritiene che quest’ultimi siano la prova che le ideologie non siano assolutamente cadute, altrimenti perché di questi ragionamenti ideologici?

[23] l discorso che Zapponi fa in La modernità deviante, (Imola, 1993) vale non solo per l’Occidente geografico, bensì per tutti gli Occidenti del mondo, per tutti quei posti in cui il Sole è tramontato, pertanto anche per quei posti nel dar al-Islâm in cui ciò avvenga.

[24] Questo capovolgimento, cifra di ciò che non è tradizionale e perciò stesso essenzialmente «modernista» e diabolico, è presente all’interno di ogni tradizione. A corroborare questo, si può consultare uno stupendo volumetto di Theologia Diaboli di C.S. Lewis, intitolato Le lettere di Berlicche (Trento, 1979). In questo dialogo epistolare tra Berlicche - il Diavolo - e il suo nipote Mandragola, intento a guadagnare a sé un’anima umana, il primo consiglia al secondo di «fargli [si intende l’essere umano] trattare il patriottismo o il pacifismo come parte della sua religione. Poi, sotto l’influsso dello spirito di partigianeria, fa in modo che lo consideri come la parte principale. Poi, senza chiasso e per gradi, curalo in maniera da portarlo al livello nel quale la religione diviene soltanto una parte della “Causa”, nel quale il cristianesimo è valutato principalmente per gli argomenti eccellenti che può produrre in favore dello sforzo bellico britannico o del pacifismo. L’atteggiamento dal quale è necessario che tu lo difenda è quello nel quale gli affari tamporali vengono trattati soprattutto come materiale per l’obbedienza. Una volta che sarai riuscito a fare del Mondo il fine e della fede un mezzo [cfr. supra nota 22], avrai quasi guadagnato il tuo uomo, e poco importa il genere dello scopo mondano al quale tenderà. Una volta che i comizi, gli opuscoli, le mosse politiche, i movimenti, le cause, e le crociate, saranno per lui più importanti delle preghiere e dei sacramenti e della carità, sarà tuo – più sarà “religioso” (in quel senso) e più sicuramente sarà tuo» (pp. 31-32). In questo stupendo e sottile esempio di apolegitica divina operata dal Diavolo, che parla di Dio chiamandolo «il Nemico», l’«illuminatissimo» Lewis riporta, nella lettera XV, la disquisizione sul Tempo, che nel testo qui presente si è fatta in merito alla mitizzazione del passato e del futuro. Si apprende così che il Presente è il tempo privilegiato da Dio perché esso è «il punto nel quale il tempo tocca l’eternità», mentre il Diavolo lavora sul Passato, in quanto esso può funzionare come una tentazione, ma soprattutto sul Futuro, che è «fra tutte le cose, la cosa meno simile all’eternità». Un libro, dunque, estremamente interessante, che dal versante cristiano mette alla frusta tutti quegli atteggiamenti «modernisti», che fanno della tradizione cristiana ciò che non è. Lo stesso discorso che va fatto nei confronti del fondamentalismo ideologizzato dell’Islâm.

[25] Dice Olivier Roy che «l’islamismo contemporaneo» - così lui designa ciò che si chiama fondamentalismo -«è un’ideologia rivoluzionaria assai poco rispettosa delle autorità tradizionali, che pensa l’Islâm a partire da una concezione politica della società - [politica nel senso occidentale, quindi essenzialmente basata sull’intervento umano nella costruzione dello stato] - assai più moderna di quanto vorrebbe far credere» (O. Roy, Généalogie de l’islamisme, Hachette, Parigi, 1995, p.30). Come già detto, invece, « si sostiene, insomma, che non si può parlare nell’Islâm di una scelta istituzionale relativamente ad una forma di governo, perché contrariamente ciò farebbe pensare comunque, che sia stato l’uomo a sceglierla» e ciò tradirebbe l’assunto per cui è Dio «che sceglie». Vedi supra nota 13.

[26] Tratto dal «Corriere della Sera», 21 novembre 2002, p. 35. «The regional geography of Sufism in the Caucasus is scrappy in character. In Shi‘itic Azerbaijan , where Sufism is practised only by few ethnic minorities, its influence has marginal effect. In Adzharia , a Muslim republic within Georgia, wherer the Turkish traditions were nullified during the Soviet years, its influence is also negligible. It is a different matter with Daghestan, where the Islamic idea actually inspires local societes owing to their ethnical diversity either in the form of “folk of Islâm”, i. e., Sufism, or various foundamentalist teachings preached by the Arab missionaries and certain graduates of foreign Muslim schools» dice Alikber Alikberov nel suo intervento al convegno torinese sul Sufismo, aggiungendo anche che «their [del Sufismo] influence particulary intensified after a total fight was provoked against the so called “Wahhabits” in the corse of which the political establishment in Daghestan entered into a private alliance whit the Sufi elite». A testimonianza ulteriore delle repressioni subite dal Sufismo, non perché eterodosso, bensì perché non funzionale all’idea di stato moderno nell’Islâm e dunque contrario alle innovazioni (bida‘) moderniste, vi è la relazione, sempre nello stesso convegno di Torino, di Itzchak Weismann che riporta l’operato del partito Ba‘th siriano.

[27] Basato come è sugli insegnamenti giuridici e sociali dell’Islâm, il Sufismo va praticato nella comunità e non in un ambiente monastico fuori quindi dall’ordine comunitario. Il sufi possiede la povertà spirituale (faqr) in sé, quantunque viva esteriormente fra le ricchezze del mondo. In lui è morto il mondo ed egli vi vive senza esserne sedotto. Il Sufismo è l’integrazione della vita attiva e della contemplativa, in modo tale che l’uomo possa rimanere interiormente ricettivo agl’influssi del cielo, mentre esternamente rimane attivo in un mondo che egli plasma secondo la sua natura spirituale interiore, invece di esserne prigioniero, come il profano. Essendo un esempio vivo e completo della vita mistica, contiene insegnamenti universali che potrebbero certo aiutare a risuscitare certi elementi dimenticati della vita mistica cristiana, che soli potrebbero ridare vigore agli insegnamenti ed ai metodi della Cristianità – in questo senso si rileva il tentativo di Thomas Merton di avere contatti con il Sufismo per questo. I problemi che oggigiorno attanagliano l’uomo moderno discendono da una particolare ignoranza: la volontà di eliminare la dimensione trascendente della sua vita e non essere soffocato nel mondo bidimensionale che si è foggiato. Vuole uccidere tutte le divinità e rimanere però umano, contraddizione insolubile visto che si può essere umani solo mantenendosi fedeli alla natura teomorfica dell’uomo. Il fondamentalismo moderno islamico – forse tutti i fondamentalismi in quanto moderni - non prevede soluzioni a quanto ora esposto, rifugiandosi dietro una bandiera senza capire perché essa sventoli e da dove venga il vento.

[28] Kalâbâdhî, Il Sufismo nelle parole degli Antichi. Con testo arabo in appendice. Introduzione, traduzione e note a cura di P. Urizzi, con una prefazione di D. Gril. Ed. Officina di Studi Medievali, Palermo, 2002, cm . 14 x 21, pp. xvi + 576, Euro 35. ISBN 88-88615-41-5. Officina di Studi Medievali, via del Parlamento, 32, 90133 Palermo. Tel. 091586314; fax. 091 6161333. www.officinastudimedievali.it.

[29] Si rinvia al libro ora citato per quanto attiene alla genesi etimologica del termine «Sufismo»

[30] Kalâbâdhî, Il Sufismo, Palermo, trad. di P. Urizzi, 2003, p. 13. «Vi è poi tra i modernisti – i quali non hanno in gran conto gli insegnamenti della tradizione .. – chi afferma che gli gnostici [sono coloro che seguono il Ta¡awwuf] non credono nell’Islâm e che l’‘irfân e il sufismo furono introdotti da un movimento antiislamico .. . [a questo fa seguito la sconfessione di questa idea] Quindi, si può senza dubbio affermare che la posizione degli gnostici non va vista come una forma di eterodossia ..» (R.M. Khomeynî – M. Motahharî, La via spirituale, Roma, 2002, p. 30).

[31] Kalâbâdhî, Il Sufismo, Palermo, trad. di P. Urizzi, 2003, p. 235. Cfr. A.K. Coomaraswamy, Il grande brivido, Milano, 1987, pp. 357-358. La sottolineazione è di chi scrive.

[32] Lo stesso «giochetto» sarebbe attuabile anche nei confronti del Vangelo, ma sarebbe un tentativo ipocrita di discreditare il Cristianesimo. In questo senso si pensa che il recupero, se ancora possibile, di ciò che è la tradizione cristiana, non passi attraverso il discredito delle altre tradizioni, quanto forse dallo studio di queste ultime per riscoprire la prima.

[33] Già nella nota 13 si ha avuto modo di ripetere l’assoluta specificità della nozione sacrale dell’organizzazione politica nell’Islâm, ora si riproporrà che il Corano non fissa alcuna dottrina del potere con una formula fatta, che riguardi la relazione tra religione e politica, bensì richiama all’obbedienza: «O voi che credete! Obbedite a Dio, obbedite all’Inviato e a coloro che hanno autorità!» (Cor. 4:59). Questa asimmetria non permette di individuare una figura reale che detenga il potere; se la si introducesse, infatti, questa sarebbe posta sul medesimo piano del Profeta, cosa che ovviamente non può e non deve avvenire. Il potere viene quindi misurato dall’obbedienza a Dio e pertanto il potere serve Allâh.

[34] Alla fine di ogni discorso possibile oggigiorno, il vero scontro avviene tra «mondo dello Spirito» e non, anche se si assistono a conflitti localizzati essi sono tutto sommato interni a quello stesso mondo privo dello Spirito: le varie guerre oppure le «operazioni di pace» ne sono l’esempio. Spiace doverlo ammettere, ma ciò non significa adeguarvisi, che ha ragione Massimo Fini, quando sostiene che «non ci saranno guerre di civiltà perché ne rimarrà una sola, la nostra», cui si aggiunge, fondata sull’assenza dello Spirito. Cfr. M. Fini, Il vizio oscuro dell’Occidente (Venezia, 2002, p. 69), autore di cui si apprezzano certe sue conclusioni, ma che comunque rimane confinato nel medesimo piano che lui stesso critica correttamente del resto.

[35] La traslitterazione più corretta sarebbe forse jihâd.

[36] È maschile e non femminile.

[37] M. Eckhart, De anima, 413b.

[38] Kalâbâdhî, Il Sufismo, Palermo, trad. di P. Urizzi, 2003, p. 275. A tal proposito è interessante ricordare come San Nilo affermasse a suo tempo, che colui che fosse ancora immerso nelle passioni non potesse essere una guida spirituale.


[39] Nel caso malaugurato che qualcuno, leggendo, abbia la pretesa di affermare che nei secoli addietro l’Islâm si sia affermato imponendo manu militari la propria fede, ebbene sarebbe il caso di tenere subito a mente quanto successe in altri continenti e per altre confessioni.

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