René Guénon
San Bernardo
Fra le grandi figure del Medioevo poche ce ne sono il cui studio sia più atto di quella di San Bernardo a smentire certi pregiudizi cari allo spirito moderno.
Cosa, infatti, può sconcertare maggiormente quest’ultimo del vedere un contemplativo puro, che sempre volle essere e rimanere tale, venir chiamato a ricoprire un ruolo di primo piano nella conduzione degli affari della Chiesa e dello Stato, e riuscire spesso dove aveva fallito tutta la prudenza dei politici e dei diplomatici di professione? Cosa ci può essere di più sorprendente, addirittura di più paradossale stando al modo abituale di guardare alle cose, di un mistico che mostra solo disdegno per quelle che chiama «le sottigliezze di Platone e le ricercatezze di Aristotele», e batte poi senza fatica i più sottili dialettici del suo tempo sul loro proprio terreno?Tutta la vita di San Bernardo potrebbe sembrar destinata a mostrare, con un esempio smagliante, che per risolvere i problemi della sfera intellettuale e financo di quella delle cose pratiche, esistono mezzi totalmente diversi da quelli che si è usi da troppo tempo a considerare come i soli efficaci, indubbiamente perché sono gli unici che siano alla portata di una saggezza puramente umana, saggezza che non è neppure l’ombra della saggezza vera. Tale vita assume perciò in certo qual modo la fisionomia di una confutazione anticipata di quegli errori, in apparenza opposti, ma in realtà solidali, che sono il razionalismo e il pragmatismo; e nello stesso tempo svergogna e travolge agli occhi di coloro che la esaminino in modo imparziale, tutte le idee preconcette degli storici «scientistici» che pretendono ‑ con il Renan ‑ che «la negazione del soprannaturale costituisca l’essenza stessa della critica», concetto che d’altra parte anche noi accettiamo volentieri, ma solo perché in tale incompatibilità vediamo tutto il contrario di quanto vi vedono loro, e cioè la condanna della «critica» stessa, e null’affatto quella del sovrannaturale. In verità, quali lezioni potrebbero, nella nostra epoca, essere più profittevoli di queste?
Cosa, infatti, può sconcertare maggiormente quest’ultimo del vedere un contemplativo puro, che sempre volle essere e rimanere tale, venir chiamato a ricoprire un ruolo di primo piano nella conduzione degli affari della Chiesa e dello Stato, e riuscire spesso dove aveva fallito tutta la prudenza dei politici e dei diplomatici di professione? Cosa ci può essere di più sorprendente, addirittura di più paradossale stando al modo abituale di guardare alle cose, di un mistico che mostra solo disdegno per quelle che chiama «le sottigliezze di Platone e le ricercatezze di Aristotele», e batte poi senza fatica i più sottili dialettici del suo tempo sul loro proprio terreno?Tutta la vita di San Bernardo potrebbe sembrar destinata a mostrare, con un esempio smagliante, che per risolvere i problemi della sfera intellettuale e financo di quella delle cose pratiche, esistono mezzi totalmente diversi da quelli che si è usi da troppo tempo a considerare come i soli efficaci, indubbiamente perché sono gli unici che siano alla portata di una saggezza puramente umana, saggezza che non è neppure l’ombra della saggezza vera. Tale vita assume perciò in certo qual modo la fisionomia di una confutazione anticipata di quegli errori, in apparenza opposti, ma in realtà solidali, che sono il razionalismo e il pragmatismo; e nello stesso tempo svergogna e travolge agli occhi di coloro che la esaminino in modo imparziale, tutte le idee preconcette degli storici «scientistici» che pretendono ‑ con il Renan ‑ che «la negazione del soprannaturale costituisca l’essenza stessa della critica», concetto che d’altra parte anche noi accettiamo volentieri, ma solo perché in tale incompatibilità vediamo tutto il contrario di quanto vi vedono loro, e cioè la condanna della «critica» stessa, e null’affatto quella del sovrannaturale. In verità, quali lezioni potrebbero, nella nostra epoca, essere più profittevoli di queste?
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Bernardo nacque nel 1090 a Fontaines-lès Dijon; i suoi genitori appartenevano all’alta nobiltà della Borgogna, e se indichiamo il fatto è perché ci sembra che alcuni aspetti della sua vita e della sua dottrina, della quale avremo da parlare in seguito, possono fino a un certo qual punto essere ricondotti a tale origine. Vogliamo con ciò dire non soltanto che è possibile in questo modo spiegare l’ardore talvolta bellicoso del suo zelo o la violenza che spesse volte caratterizzò le polemiche in cui fu coinvolto, violenza che del resto era tutta di superficie, giacché il fondo del suo carattere era incontestabilmente segnato dalla bontà e dalla dolcezza. Quelli a cui intendiamo soprattutto riferirci sono i suoi legami con le istituzioni e l’ideale cavalleresco, ai quali d’altra parte bisogna sempre assegnare una grande importanza se si vogliono capire gli avvenimenti e lo spirito vero e proprio del Medioevo. Bernardo maturò la risoluzione di ritirarsi dal mondo verso i vent’anni; e in poco tempo riuscì a far condividere il suo modo di vedere a tutti i suoi fratelli, a qualcuno dei parenti e a un certo numero di amici. Nel corso di questo primo apostolato la sua forza di persuasione era tale, nonostante la giovane età, che presto «egli divenne ‑ dice il suo biografo ‑ il terrore delle madri e delle spose; gli amici erano presi dal timore quando lo vedevano accostarsi ai loro propri amici». Si tratta di qualcosa di poco comune, e insufficiente sarebbe certo far ricorso alla potenza del «genio», nel senso profano della parola, per spiegarsi un simile influsso. Non è forse invece il caso di interpretare la cosa riconoscendo in essa l’azione della grazia divina, la quale, penetrando in certo qual modo tutta la persona dell’apostolo e irraggiandosi al di fuori di essa con la sua sovrabbondanza, si comunicava attraverso lui come attraverso un canale, per usare il paragone da lui stesso adottato più tardi, quando lo applicherà alla Santa Vergine, ma che può applicarsi altresì ‑ con una portata più o meno ridotta ‑ a tutti i santi?
Bernardo entrò quindi, nel 1112, accompagnato da una trentina di giovani, nel monastero di Cîteaux, monastero che era stato da lui scelto a motivo del rigore con il quale vi era seguita la regola e che faceva contrasto con la negligenza penetrata in tutti gli altri rami dell’Ordine benedettino. Tre anni più tardi, i superiori non esitavano ad affidargli, nonostante l’inesperienza e la sua salute malferma, la conduzione dei dodici religiosi che avrebbero fondato una nuova abbazia, quella di Clairvaux, abbazia che diresse fino alla morte, rifiutando sempre gli onori e i gradi che tanto spesso gli si offrivano nel corso della carriera. La rinomanza di Clairvaux non tardò a diffondersi, e lo sviluppo che presto l’abbazia assunse ha veramente del prodigioso: quando il suo fondatore morì, essa dava asilo ‑ si dice ‑ a quasi settecento monaci, e aveva dato origine a più di sessanta nuovi monasteri.
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L’attenzione e la cura da Bernardo dedicate all’amministrazione di Clairvaux, della quale stabiliva le regole fin nei più minuziosi dettagli di vita corrente, la partecipazione alla direzione dell’Ordine cistercense quale capo di una delle sue abbazie più importanti, l’abilità e il successo dei suoi interventi tesi a superare le difficoltà che frequentemente insorgevano con Ordini rivali; tutte queste cose, dovrebbero già bastare per provare che quello che riceve il nome di senso pratico può benissimo accoppiarsi talvolta alla spiritualità più elevata. Esse erano, di per sé, più che sufficienti ad assorbire tutta l’attività di un uomo comune; e ciò nonostante, Bernardo avrebbe visto spalancarglisi davanti un altro campo d’azione, contro il suo stesso volere, d’altronde, giacché egli non provò mai ripugnanza maggiore di quella che sentiva per essere costretto a uscire dal proprio chiostro a occuparsi degli affari del mondo esterno, dal quale aveva creduto di potersi isolare per sempre allo scopo di dedicarsi totalmente all’ascesi e alla contemplazione, senza che nulla venisse a distrarlo da quella che era per lui, secondo la parola del Vangelo, «la sola cosa necessaria». A tal riguardo egli si era fortemente ingannato; sennonché tutte le «distrazioni» ‑ nel senso etimologico ‑ alle quali non poté sottrarsi e delle quali gli avvenne di lamentarsi con una certa amarezza, non gli impedivano affatto di arrivare ai culmini della via mistica. E questa è una cosa assai degna di essere messa in rilievo; non meno notevole è il fatto che, nonostante tutta la sua umiltà e tutti gli sforzi che fece per rimanere nell’ombra, alla sua collaborazione sia stato fatto appello in tutte le circostanze importanti, e che, quantunque egli non fosse nulla agli occhi del mondo, tutti, compresi i più alti dignitari civili ed ecclesiastici, riconobbero sempre spontaneamente la sua autorità tutta spirituale e, quanto a questo, noi non possiamo dire se ciò sia da ascrivere a maggior lode del santo o dell’epoca nella quale visse. Quale contrasto tra il nostro tempo e quello in cui un semplice monaco poteva, per il solo influsso delle sue eminenti virtù, diventare in qualche modo il centro dell’Europa e della Cristianità, l’arbitro incontestato di tutti i conflitti nei quali fosse in questione il pubblico interesse, sia in campo politico sia in campo religioso, il giudice dei maestri più considerati della filosofia e della teologia, il restauratore dell’unità della Chiesa, il mediatore tra il Papato e l’Impero, e vedere alla fine eserciti forti di svariate centinaia di migliaia di uomini prendere corpo in conseguenza della sua predicazione!
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Bernardo aveva incominciato presto a denunciare il lusso in cui vivevano a quel tempo la maggior parte dei membri del clero secolare e financo i monaci di talune abbazie; le sue rimostranze erano state causa di conversioni che avevano fatto scalpore, fra di esse quella di Suger, illustre abate di Saint-Denis, il quale, benché non avesse ancora il titolo di primo ministro del re di Francia, già ne ricopriva la funzione. Questa conversione aveva fatto conoscere a corte il nome dell’abate di Clairvaux, che da quel momento sembra vi venisse pronunciato con un rispetto misto a timore, in quanto si vedeva in lui l’avversario irriducibile di tutti gli abusi e le ingiustizie; e presto lo si vide infatti intervenire nei conflitti che erano sorti tra Luigi il Grosso e alcuni vescovi, e protestare con veemenza contro le interferenze del potere civile nei diritti della Chiesa. A dire il vero, non si trattava ancora d’altra cosa se non di affari esclusivamente locali, i quali coinvolgevano soltanto questo monastero o quella diocesi; sennonché, nel 1130, si presentarono avvenimenti di ben diversa gravità, i quali misero in pericolo l’intera Chiesa, lacerata dallo scisma dell’antipapa Anacleto II, e fu questa l’occasione che fece sì che la fama di Bernardo si diffondesse in tutta la Cristianità.
Non è nostra intenzione ripercorrere qui la storia dello scisma in tutti i suoi particolari: i cardinali, suddivisi in due fazioni rivali, avevano eletto successivamente Innocenzo II e Anacleto II; il primo, costretto a fuggire da Roma, non perdette le speranze di far valere il suo diritto e fece ricorso al giudizio della Chiesa universale. La prima a rispondere fu la Francia; in occasione del concilio convocato dal re a Etampes, Bernardo vi comparve, dice il suo biografo, «quale un vero inviato di Dio» in mezzo al vescovi e ai signori riuniti; il suo parere sulla questione sottoposta al loro esame fu condiviso da tutti, e tutti riconobbero la validità dell’elezione di Innocenzo II. Quest’ultimo era in quel momento in Francia, e Suger si recò all’abbazia di Cluny per annunciargli la decisione del concilio; Innocenzo visitò le diocesi principali della Francia e fu dappertutto accolto con entusiasmo; questa reazione ebbe l’effetto di indurre l’adesione di quasi tutta la Cristianità. L’abate di Clairvaux si recò dal re d’Inghilterra ed ebbe rapidamente ragione delle sue esitazioni; è probabile che la sua influenza si esercitasse inoltre, sia pure in modo non diretto, sulla decisione, da parte di Lotario e del clero tedesco, di riconoscere la validità dell’elezione di Innocenzo II. Si recò poi in Aquitania per contrastare la posizione del vescovo Gérard d’Angoulême, favorevole ad Anacleto II; ma fu soltanto in occasione di un secondo viaggio in questa regione che riuscì, nel 1135, a debellare lo scisma ottenendo la conversione del conte di Poitiers. Nell’intervallo era stato costretto a partire per l’Italia, chiamatovi da Innocenzo II che era qui ritornato con l’appoggio di Lotario, ma era stato fermato da difficoltà impreviste, cagionate dall’ostilità di Pisa e di Genova; occorreva operare una composizione tra le due città rivali e farglielo accettare; Bernardo fu incaricato di questa difficile missione, e la portò a termine con il più completo successo. Alla fine Innocenzo fu in grado di rientrare a Roma, sennonché Anacleto continuava a essere asserragliato in San Pietro, di cui non ci si poté impadronire; Lotario, incoronato imperatore in San Giovanni in Laterano, si allontanò presto con il suo esercito; dopo la sua partenza, l’antipapa riassunse l’offensiva, e il pontefice legittimo dovette nuovamente scappare e si rifugiò a Pisa.
L’abate di Chiaravalle, rientrato nel suo chiostro, aveva appreso queste notizie con costernazione; poco dopo gli doveva giungere informazione sull’attività che Ruggiero, re di Sicilia, stava dispiegando per attirare l’Italia intera alla causa di Anacleto, e per assicurarsene il predominio. Bernardo scrisse immediatamente agli abitanti di Pisa e di Genova incoraggiandoli a rimanere fedeli a Innocenzo; tale fedeltà, però, era un appoggio ben debole per riconquistare Roma, e l’unico soccorso efficace su cui si poteva sperare era quello della Germania. Disgraziatamente l’Impero era continuamente preda della divisione, e Lotario non era in grado di tornare in Italia prima di aver garantito la pace al suo proprio paese. Bernardo partì per la Germania e si occupò della riconciliazione tra gli Hohenstaufen e l’imperatore; anche in questo caso i suoi sforzi furono coronati dal successo; ne vide i frutti in occasione della dieta di Bamberg, subito dopo la quale si recò al concilio che Innocenzo II aveva convocato a Pisa. In tale occasione fu indotto a rivolgere i suoi strali contro Luigi il Grosso, il quale si era opposto alla partenza dei vescovi dal suo regno; la proibizione venne ritirata e i membri principali del clero francese furono in grado di rispondere all’appello del capo della Chiesa. Bernardo fu l’anima del concilio; uno scrittore del tempo racconta che durante gli intervalli delle sedute, la sua porta era assediata da tutti coloro che avevano qualche grave argomento da discutere, quasi che in quell’umile monaco risiedesse la potestà di decidere a suo giudizio su ogni questione ecclesiastica. Delegato poi a Milano, per ricondurre la città a Innocenzo II e a Lotario, si vide qui acclamato da clero e fedeli, i quali, con spontanea manifestazione di entusiasmo, vollero fare di lui il proprio arcivescovo, ed egli incontrò le più grandi difficoltà a sottrarsi a questo onore. La sua unica aspirazione era quella di ritornarsene al proprio monastero; alla fine vi riuscì, ma non doveva restarvi per molto.
All’inizio del 1136, Bernardo dovette lasciare un’altra volta la sua solitudine e venire a raggiungere in Italia, seguendo l’invito del papa, l’esercito tedesco comandato dal duca Enrico di Baviera, genero dell’imperatore.
Un dissenso era sorto tra quest’ultimo e Innocenzo II; Enrico, che poco si curava dei diritti della Chiesa, mostrava in ogni circostanza di preoccuparsi esclusivamente degli interessi dello Stato. Di conseguenza l’abate di Clairvaux ebbe il suo bel da fare per ristabilire la concordia tra i due poteri e per conciliare le loro opposte pretese, in particolare al riguardo di certe questioni di investiture, nelle quali, a quanto pare, ebbe sempre una funzione di moderatore. Nel frattempo, Lotario, che aveva assunto personalmente il comando dell’esercito, aveva assoggettato tutta l’Italia meridionale; sennonché aveva commesso l’errore di respingere le proposte di pace del re di Sicilia, che non tardò a prendersi la rivincita mettendo quest’ultima a ferro e fuoco. A questo punto Bernardo non temette di presentarsi al campo di Ruggiero, che reagì malissimo alle sue parole di pace e al quale egli preannunciò una sconfitta, che in effetti non tardò a prodursi; poi, seguendolo nei suoi movimenti, lo raggiunse a Salerno, dove mise in opera un tentativo di distoglierlo dallo scisma nel quale era stato indotto dalla sua ambizione. Ruggiero acconsentì ad ascoltare in contraddittorio i partigiani di Innocenzo II e di Anacleto, ma pur dando l’impressione di condurre l’inchiesta imparzialmente, cercava soltanto di guadagnar tempo e rifiutava di prendere una decisione; ad ogni buon conto questa controversia portò il felice risultato di provocare la conversione di uno degli autori principali dello scisma, il cardinale Pietro da Pisa, che Bernardo accompagnò personalmente da Innocenzo II. Tale conversione inferiva un terribile colpo alla causa dell’antipapa; Bernardo seppe approfittare di ciò e in Roma stessa riuscì in pochi giorni, con la sua parola ardente e convinta, a separare dal partito di Anacleto la maggior parte dei dissidenti. Ciò accadeva nel 1137, all’epoca delle feste natalizie; un mese più tardi Anacleto moriva improvvisamente. Alcuni fra i cardinali maggiormente coinvolti nello scisma elessero un nuovo antipapa col nome di Vittorio IV; ma la loro resistenza non poté durare a lungo, e nel giorno dell’ottava di Pentecoste tutti fecero atto di sottomissione; la settimana seguente l’abate di Clairvaux risaliva la strada che lo riportava in monastero.
Questo rapido sunto basta per dare un’idea di quella che potrebbe esser detta l’attività politica di San Bernardo, attività che del resto non si limitò a quanto abbiamo esposto: dal 1140 al 1144 Bernardo intervenne, protestando contro l’ingerenza abusiva del re Luigi il Giovane nelle elezioni vescovili, poi facendo da paciere in occasione di un grave conflitto sempre tra questo re e il conte Thibaud de Champagne; ma sarebbe tedioso dilungarsi su questi avvenimenti. Riassumendo, possiamo dire che l’azione di Bernardo fu costantemente diretta secondo le stesse intenzioni: difendere il diritto, combattere l’ingiustizia, e forse ‑ al di sopra d’ogni altra cosa ‑ preservare l’unità nel mondo cristiano. Quella che lo animò nella sua lotta contro lo scisma fu questa preoccupazione costante di unità; sempre essa gli fece intraprendere nel 1145 un viaggio nel Languedoc allo scopo di riportare alla Chiesa gli eretici neo-manichei che incominciavano a diffondersi in tale contrada. Appare come se egli abbia sempre avuto presente nel suo pensiero la parola evangelica: «Siano essi tutti uno, così come il Padre e io siamo uno».
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Nel frattempo all’abate di Chiaravalle non incombeva di lottare soltanto in campo politico, ma la stessa cosa gli occorreva di fare nella sfera intellettuale, nella quale i suoi trionfi non conseguirono eco minore, in quanto ebbero come risultato la condanna di due avversari eminenti, Abelardo e Gilberto de la Porrée. Il primo si era procurata, con l’insegnamento e gli scritti, una reputazione di dialettico fra i più abili; della dialettica egli addirittura abusava, giacché, invece di non vedere in essa che quel che essa è realmente, un semplice mezzo ‑ cioè ‑ per giungere alla conoscenza della verità, la riteneva quasi un fine di per se stessa, cosa che naturalmente lo portava a una sorta di verbalismo. Sembra anche che ci fosse in lui, sia per quanto riguarda il metodo, sia per il fondo stesso delle idee, una ricerca di originalità che lo avvicina un po’ ai filosofi moderni; e in un’epoca in cui l’individualismo era cosa quasi sconosciuta, tale difetto non poteva rischiare di esser preso per una qualità, come capita ai nostri giorni. Cosicché taluni si preoccuparono presto di queste novità, le quali non portavano nientemeno che a instaurare una vera e propria confusione tra la sfera della ragione e quella della fede; non che Abelardo fosse in modo proprio un razionalista come si è talvolta preteso trovare, dal momento che non ci furono razionalisti prima di Cartesio; però egli non seppe fare la distinzione tra quel che è situato nel campo della ragione e quel che è superiore a quest’ultima, tra la filosofia profana e la saggezza sacra, tra il sapere puramente umano e la conoscenza trascendente, ed è in ciò che si può ritrovare la radice di tutti i suoi errori. Non è forse vero che egli giunse a sostenere che filosofi e dialettici fruiscono di una ispirazione abituale che sarebbe paragonabile all’ispirazione sovrannaturale dei profeti? Non è difficile capire come mai San Bernardo, quando si attirò la sua attenzione su simili teorie, sia insorto con forza contro di esse e financo con un certo impeto, e abbia rimproverato anche con amarezza al loro autore di aver insegnato che la fede era soltanto una semplice opinione. La controversia tra due uomini così diversi, apertasi con scambi di vedute privati, ebbe presto un’eco immensa nelle scuole e nei monasteri; Abelardo, contando sulla propria abilità a manipolare il ragionamento, chiese all’arcivescovo di Sens di riunire un concilio di fronte al quale si sarebbe giustificato pubblicamente, giacché egli si riteneva capace di condurre la discussione in modo tale da indurre il suo avversario a confusione. Le cose andarono in modo del tutto diverso: l’abate di Clairvaux, di fatto, non riteneva il concilio se non come un tribunale davanti al quale il teologo sospettato sarebbe comparso quale accusato; nel corso di una seduta preparatoria egli presentò le opere di Abelardo e ne estrasse le argomentazioni più temerarie, delle quali provò l’eterodossia; il giorno dopo, in presenza del loro autore, che era stato fatto partecipare alla seduta, gli ingiunse, enunciate tali argomentazioni, di ritrattarle o di giustificarle. Abelardo, che presagiva una condanna, non aspettò il giudizio del concilio e dichiarò immediatamente che si appellava alla corte di Roma; ciononostante il processo seguì il suo corso e, la condanna una volta pronunciata, Bernardo scrisse a Innocenzo II e ai cardinali lettere di ardente eloquenza, a seguito delle quali, sei settimane dopo, la sentenza venne confermata da Roma. Non restava ad Abelardo altra soluzione che di sottomettersi; egli si rifugiò a Cluny, da Pietro il Venerabile, che gli ottenne un colloquio con l’abate di Clairvaux e riuscì a riconciliarli.
Il concilio di Sens aveva avuto luogo nel 1140; nel 1147 Bernardo, in occasione del concilio di Reims, ottenne parimenti che fossero condannati gli errori di Gilberto de la Porrée, vescovo di Poitiers, riguardanti il mistero della Trinità; tali errori avevano la loro origine nel fatto che il loro autore ravvisava in Dio la distinzione reale tra l’essenza e l’esistenza, distinzione che è attribuibile ai soli esseri creati. Gilberto ritrattò però senza opporre resistenza; cosicché ne derivò la semplice proibizione di leggere o trascrivere la sua opera prima che venisse corretta; la sua autorità, esclusi i punti specifici in causa, non ne era compromessa, e la sua dottrina conservò il grande credito di cui godeva nelle scuole durante tutto il Medioevo.
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Due anni prima di quest’ultima vicenda, l’abate di Clairvaux aveva avuto la gioia di vedere salire al soglio pontificale uno dei suoi vecchi monaci, Bernardo da Pisa, il quale aveva assunto il nome di Eugenio III, e continuò poi sempre ad avere con lui i più affettuosi rapporti; questo nuovo papa, anzi, gli conferì l’incarico ‑ fin quasi dall’inizio del suo regno ‑ di predicare la seconda crociata. Fino a quel momento la Terra Santa non aveva occupato ‑ per lo meno in apparenza ‑ che un posto piuttosto secondario fra le preoccupazioni di San Bernardo; sarebbe però errato credere che egli era restato totalmente estraneo al fatti che vi avvenivano, e la prova di ciò risiede in un episodio sul quale si riporta un’attenzione molto minore di quella che esso richiederebbe. Intendiamo riferirci alla parte da lui sostenuta nella costituzione dell’Ordine del Tempio, primo fra gli Ordini militari per data e per importanza e modello di tutti quelli che sarebbero seguiti. Tale Ordine aveva ricevuto la propria regola in occasione del concilio di Troyes, nel 1128, circa dieci anni dopo la sua fondazione, e fu Bernardo ‑ nella sua qualità di segretario del concilio ‑ a essere incaricato della sua redazione, o per lo meno della tracciatura dei suoi primi lineamenti, giacché sembra che solo un po’ più tardi egli sia stato chiamato a completarla e a fornirne la redazione definitiva nel 1131. Più tardi egli ebbe a commentare questa regola nel trattato De laude novæ militiæ, trattato nel quale espose in termini di magnifica eloquenza la missione e l’ideale della cavalleria cristiana, di quella ‑ cioè ‑ che era da lui chiamata la «milizia di Dio». Questi rapporti esistenti tra l’abate di Clairvaux e l’Ordine del Tempio, rapporti che gli storici moderni tengono in conto di un episodio piuttosto secondario della sua vita, assumevano un’importanza del tutto diversa agli occhi di uomini del Medioevo; e noi abbiamo fatto vedere in altra occasione come essi costituiscano senza alcun dubbio la ragione per cui Dante doveva scegliere San Bernardo come guida negli ultimi cerchi del Paradiso.
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Fin dal 1145 Luigi VII aveva concepito il progetto di portare un aiuto ai principati latini d’Oriente, i quali erano minacciati dall’emiro di Aleppo; ma l’opposizione dei suoi consiglieri l’aveva costretto a rimandarne la realizzazione, e la decisione definitiva era stata demandata a un’assemblea plenaria che avrebbe dovuto tenersi a Vézelay nel corso delle feste pasquali dell’anno dopo. Eugenio III, trattenuto in Italia da una rivoluzione sollevata a Roma da Arnaldo da Brescia, incaricò l’abate di Clairvaux di rappresentarlo in occasione di tale assemblea; dopo aver dato lettura della bolla che perorava la partecipazione della Francia alla crociata, Bernardo pronunciò un discorso che fu, a giudicare dall’effetto prodotto, la più grande azione oratoria della sua vita; tutti i partecipanti all’assemblea si precipitarono a ricevere la croce dalle sue mani. Rincuorato da questo successo, Bernardo percorse città e province, predicando a favore della crociata con infaticabile zelo; nel luoghi dove non poteva recarsi di persona mandava lettere che erano non meno eloquenti dei suoi discorsi. Passò poi in Germania, nella quale la sua predicazione ebbe lo stesso risultato che aveva ottenuto in Francia; l’imperatore Corrado, dopo aver resistito per qualche tempo, dovette cedere alla sua influenza e dare la sua adesione alla crociata. Verso la metà dell’anno 1147 gli eserciti francese e tedesco si mettevano in marcia per questa grande spedizione, la quale, nonostante la loro apparenza formidabile, doveva concludersi con un gran disastro. Le cause di tale smacco furono molteplici; le principali di esse sembrano essere state il tradimento dei Greci e la mancata intesa tra i diversi capi della crociata; ma qualcuno cercò, assai ingiustamente, di farne ricadere la responsabilità sull’abate di Clairvaux. Questi dovette scrivere una vera e propria apologia della propria condotta, apologia che nello stesso tempo era una giustificazione dell’azione della Provvidenza; egli dimostrava che le disgrazie accadute erano attribuibili soltanto agli sbagli dei cristiani e che, conseguentemente, «le promesse di Dio permanevano intatte, poiché esse non presuppongono contrasti con i diritti della sua giustizia»; tale apologia è inclusa nel libro De consideratione, dedicato a Eugenio III, libro che rappresenta in certo qual modo il testamento di San Bernardo e che contiene, in particolare, il suo modo di vedere riguardo al doveri del papato. Del resto, non tutti si abbandonavano allo scoramento, e Suger ebbe presto l’idea di una nuova crociata, della quale proprio l’abate di Clairvaux avrebbe dovuto essere il capo; sennonché l’esecuzione di questa impresa fu impedita dalla morte del grande ministro di Luigi VII. San Bernardo moriva pure lui poco dopo, nel 1153, e le sue ultime lettere danno testimonianza del suo preoccuparsi fino alla fine della liberazione della Terra Santa.
Se lo scopo immediato della crociata non era stato raggiunto, si dovrà per questo forse dire che la spedizione era stata completamente inutile e che gli sforzi di San Bernardo avevano sortito soltanto uno spreco di forze? Non è questa la nostra conclusione, nonostante quel che potrebbero pensare gli storici che si contengono nell’osservazione delle sole apparenze esteriori, giacché esistevano per questi grandi movimenti del Medioevo, dal carattere insieme politico e religioso, ragioni più profonde, delle quali una ‑ l’unica che vogliamo qui segnalare ‑ era quella di preservare per la Cristianità una viva coscienza della sua unità. La Cristianità era identica alla civiltà occidentale, allora fondata su basi essenzialmente tradizionali, come è ogni civiltà normale, e avrebbe raggiunto il suo apogeo nel secolo XIII; la perdita di tale carattere tradizionale doveva conseguire necessariamente alla distruzione di quest’unità della Cristianità. Questa distruzione, in campo religioso, fu provocata dalla Riforma, in campo politico fu operata dall’instaurazione delle nazionalità, che era stata preceduta dalla distruzione del regime feudale; e si può affermare, sotto quest’ultimo aspetto, che colui che assestò i primi colpi al grandioso edificio della Cristianità sia stato Filippo il Bello, quegli stesso che, per una coincidenza non certamente fortuita, distrusse l’Ordine del Tempio, aggredendo con ciò direttamente proprio l’opera di San Bernardo.
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Nel corso dei suoi viaggi San Bernardo accompagnò sempre la predicazione con numerose guarigioni miracolose, guarigioni che per la folla rappresentavano altrettanti segni visibili della sua missione, tali fatti sono stati riferiti da testimoni oculari, ma egli non ne parlava se non malvolentieri. Forse questo riserbo gli era dettato dalla sua estrema modestia; senza nessun dubbio però, egli non attribuiva a tali miracoli che un’importanza secondaria, ritenendoli soltanto una concessione accordata dalla misericordia divina alla debolezza della fede nella maggior parte degli uomini, secondo la parola di Cristo: «Beati coloro che crederanno senza aver visto!». Tale atteggiamento si sposerebbe bene con il disdegno da lui in generale manifestato per tutti i mezzi esteriori e sensibili, quali la pompa delle cerimonie e l’ornamentazione delle chiese; gli è stato financo rimproverato, con qualche apparenza di verità, di aver manifestato soltanto sprezzo per l’arte religiosa. Coloro che esprimono simile critica dimenticano tuttavia una distinzione necessaria, da lui stesso messa in valore, tra quella che egli chiama l’architettura episcopale e l’architettura monastica: soltanto quest’ultima deve possedere l’austerità che egli raccomanda; soltanto ai religiosi e a coloro che seguono la strada della perfezione egli proibisce il «culto degli idoli», ossia delle forme, delle quali anzi proclama l’utilità, quale mezzo d’educazione, per i semplici e gli imperfetti. Egli protestò contro l’abuso delle figure prive di significato e dal valore esclusivamente ornamentale, ma non volle certo ‑ come falsamente si è sostenuto ‑ proscrivere il simbolismo dell’arte architettonica, giacché egli stesso se ne serviva molto frequentemente nel corso dei suoi sermoni.
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La dottrina di San Bernardo è essenzialmente mistica; con ciò intendiamo dire che egli prende soprattutto in considerazione le cose divine sotto l’aspetto dell’amore, amore che sarebbe però sbagliato interpretare qui in un senso semplice-mente affettivo come fanno i moderni psicologi. Al pari di molti grandi mistici Bernardo fu attirato in modo particolare dal Cantico dei Cantici, il quale fu da lui commentato in numerosi sermoni che costituiscono una serie prolungantesi lungo quasi tutta la sua carriera; tale commento, rimasto sempre incompiuto, descrive tutti i gradì dell’amore divino, fino alla pace suprema alla quale l’anima giunge nell’estasi. Lo stato estatico, qual è da lui compreso e che egli ha certamente provato, è una sorta di morte alle cose di questo mondo; insieme con le immagini sensibili scompare ogni sentimento naturale; nell’anima stessa tutto è puro, così come nel suo amore. Un simile misticismo non poteva mancare di riflettersi nel trattati dogmatici di San Bernardo; il titolo di uno dei suoi trattati più importanti, De diligendo Deo, mostra in effetti a sufficienza quale posto vi occupi l’amore; ma ci si sbaglierebbe a credere che ciò avvenga a scapito dell’intellettualità vera. Se l’abate di Clairvaux volle sempre estraniarsi dalle vane sottigliezze dell’accademia, la ragione ne era che non aveva nessun bisogno dei laboriosi artifici della dialettica; egli risolveva di primo acchito le più ardue questioni perché il suo modo di procedere non passava attraverso una lunga serie di operazioni discorsive; a ciò a cui i filosofi cercano di giungere per una via contorta e quasi a tentoni, egli arrivava con immediatezza, per via di intuizione intellettuale, intuizione in assenza della quale nessuna metafisica è possibile, e fuori dalla quale non si può afferrare se non l’ombra della verità.
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Un’ultima caratteristica della fisionomia di San Bernardo, essenziale da segnalare, è la posizione eminente che occupa, nella sua vita e nelle sue opere, il culto della Santa Vergine, culto che ha dato origine a tutta una fioritura di leggende, le quali sono forse la ragione per cui esso è così popolare. Bernardo si compiaceva di attribuire alla Santa Vergine il titolo di Nostra Signora [Notre-Dame], il cui uso si è diffuso a partire dalla sua epoca, e indubbiamente per la più gran parte in conseguenza della sua influenza; la ragione di ciò è che egli era ‑ come è stato detto ‑ un vero «cavaliere di Maria», e la considerava veramente come la propria «dama», secondo il senso cavalleresco del termine. Se si accosta tale fatto alla funzione sostenuta dall’amore nella sua dottrina, ruolo identico a quello che questo stesso amore aveva, sotto forme più o meno simboliche, anche nelle concezioni proprie agli Ordini di cavalleria, si comprenderà facilmente perché abbiamo tenuto a ricordare le sue origini di famiglia. Diventato monaco, egli restò sempre cavaliere come cavalieri erano tutti quelli della sua razza; e in conseguenza di questo stesso fatto si può dire che era in certo qual modo predestinato a sostenere il ruolo ‑ come avvenne in tante circostanze ‑ di intermediario, conciliatore e arbitro tra il potere religioso e il potere politico, in quanto nella sua persona era insita quasi una partecipazione alla natura sia dell’uno sia dell’altro. Insieme monaci e cavalieri, erano questi i due caratteri dei membri della «milizia di Dio», dell’Ordine del Tempio; essi erano anche ‑ e prima di tutto ‑ quelli dell’autore della loro regola, di quel gran santo che fu chiamato l’ultimo dei Padri della Chiesa, e nel quale qualcuno ha voluto, non senza ragione, riconoscere il prototipo di Galaad, il cavaliere ideale e senza macchia, l’eroe vittorioso della «cerca del Santo Graal».