Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
I. Considerazioni preliminari
6. Difficoltà linguistiche
La difficoltà che maggiormente si oppone all’interpretazione corretta delle dottrine orientali è quella che deriva, come già abbiamo indicato e come intendiamo esporre soprattutto nelle pagine seguenti, dalla differenza essenziale esistente tra i modi del pensiero orientale e quelli del pensiero occidentale.
Questa differenza si traduce naturalmente in una differenza corrispondente nelle lingue che sono destinate ad esprimere tali modi, da cui una seconda difficoltà, connessa alla prima, quando si tratta di rendere determinate idee nelle lingue dell’Occidente, le quali mancano di termini adatti e, soprattutto, sono assai poco metafisiche. D’altronde è solo un aggravarsi delle difficoltà che sono insite in ogni traduzione, e che si incontrano anche, in misura minore, quando si passa da una lingua a un’altra che pure è vicinissima filologicamente non meno che geograficamente; inoltre i termini che vengono considerati corrispondenti, e che sovente hanno la stessa origine o derivazione, talvolta non offrono affatto, malgrado ciò, un’equivalenza esatta nel significato. Questo non stupisce, perché è evidente che ogni lingua deve adattarsi in modo particolare alla mentalità del popolo che se ne serve, e ciascun popolo ha la propria mentalità, più o meno ampiamente diversa da quella degli altri; tale differenza delle mentalità etniche è assai minore solo quando si considerano popoli che appartengono a una stessa razza o si ricollegano alla stessa civiltà. In tal caso, i caratteri mentali comuni sono senz’altro i più essenziali, ma i caratteri secondari che vi si sovrappongono possono dare luogo a variazioni che rimangono notevolissime; e ci si potrebbe persino domandare se tra gli individui che parlano una stessa lingua, entro i confini di una nazione che comprenda elementi etnici diversi, il senso delle parole non abbia sfumature più o meno significative da una regione all’altra, tanto più che l’unificazione nazionale e linguistica è spesso recente e abbastanza artificiosa: non sarebbe affatto strano, ad esempio, se la lingua comune ereditasse in ogni provincia, sia nella sostanza sia nella forma, qualche particolarità dell’antico dialetto al quale si è sovrapposta e che ha sostituito più o meno completamente. Comunque sia, le differenze di cui parliamo sono naturalmente molto più sensibili da un popolo all’altro: se possono esserci diversi modi di parlare una stessa lingua, vale a dire, in fondo, di pensare servendosi di essa, c’è sicuramente un modo specifico di pensare che si esprime normalmente in ogni lingua distinta; e la differenza raggiunge in qualche modo il suo massimo in lingue molto differenti le une dalle altre sotto ogni aspetto, o persino in lingue filologicamente affini ma adattate a mentalità e civiltà molto differenti, poiché i raffronti filologici permettono assai meno facilmente dei raffronti mentali di stabilire equivalenze autentiche. È per queste ragioni che, come dicevamo fin dall’inizio, la traduzione più letterale non sempre è la più esatta per quanto riguarda le idee, anzi tutt’altro, così come la conoscenza puramente grammaticale di una lingua è del tutto insufficiente a fornircene.
Questa differenza si traduce naturalmente in una differenza corrispondente nelle lingue che sono destinate ad esprimere tali modi, da cui una seconda difficoltà, connessa alla prima, quando si tratta di rendere determinate idee nelle lingue dell’Occidente, le quali mancano di termini adatti e, soprattutto, sono assai poco metafisiche. D’altronde è solo un aggravarsi delle difficoltà che sono insite in ogni traduzione, e che si incontrano anche, in misura minore, quando si passa da una lingua a un’altra che pure è vicinissima filologicamente non meno che geograficamente; inoltre i termini che vengono considerati corrispondenti, e che sovente hanno la stessa origine o derivazione, talvolta non offrono affatto, malgrado ciò, un’equivalenza esatta nel significato. Questo non stupisce, perché è evidente che ogni lingua deve adattarsi in modo particolare alla mentalità del popolo che se ne serve, e ciascun popolo ha la propria mentalità, più o meno ampiamente diversa da quella degli altri; tale differenza delle mentalità etniche è assai minore solo quando si considerano popoli che appartengono a una stessa razza o si ricollegano alla stessa civiltà. In tal caso, i caratteri mentali comuni sono senz’altro i più essenziali, ma i caratteri secondari che vi si sovrappongono possono dare luogo a variazioni che rimangono notevolissime; e ci si potrebbe persino domandare se tra gli individui che parlano una stessa lingua, entro i confini di una nazione che comprenda elementi etnici diversi, il senso delle parole non abbia sfumature più o meno significative da una regione all’altra, tanto più che l’unificazione nazionale e linguistica è spesso recente e abbastanza artificiosa: non sarebbe affatto strano, ad esempio, se la lingua comune ereditasse in ogni provincia, sia nella sostanza sia nella forma, qualche particolarità dell’antico dialetto al quale si è sovrapposta e che ha sostituito più o meno completamente. Comunque sia, le differenze di cui parliamo sono naturalmente molto più sensibili da un popolo all’altro: se possono esserci diversi modi di parlare una stessa lingua, vale a dire, in fondo, di pensare servendosi di essa, c’è sicuramente un modo specifico di pensare che si esprime normalmente in ogni lingua distinta; e la differenza raggiunge in qualche modo il suo massimo in lingue molto differenti le une dalle altre sotto ogni aspetto, o persino in lingue filologicamente affini ma adattate a mentalità e civiltà molto differenti, poiché i raffronti filologici permettono assai meno facilmente dei raffronti mentali di stabilire equivalenze autentiche. È per queste ragioni che, come dicevamo fin dall’inizio, la traduzione più letterale non sempre è la più esatta per quanto riguarda le idee, anzi tutt’altro, così come la conoscenza puramente grammaticale di una lingua è del tutto insufficiente a fornircene.
Quando parliamo della lontananza dei popoli, e quindi delle loro lingue, bisogna tener presente che può essere una lontananza nel tempo come nello spazio, sicché quanto abbiamo detto si applica parimenti alla comprensione delle lingue antiche. Anzi, parlando di uno stesso popolo, qualora la sua mentalità subisca nel corso dell’esistenza modificazioni notevoli, non soltanto termini nuovi si sostituiscono nella lingua a termini antichi, ma lo stesso significato di quelli che si mantengono varia in relazione con i cambiamenti mentali, al punto che, in una lingua che sia rimasta quasi inalterata nella forma esteriore, le stesse parole finiscono in realtà per non corrispondere più agli stessi concetti, e sarebbe allora necessaria, per ristabilirne il senso, una vera e propria traduzione che sostituisca, con altre del tutto diverse, quelle parole che pur tuttavia sono ancora in uso; il raffronto tra la lingua francese del secolo XVII e quella di oggi fornirebbe numerosi esempi in merito. Dobbiamo aggiungere che ciò è soprattutto vero per i popoli occidentali, la cui mentalità, come già abbiamo indicato, è estremamente instabile e mutevole; e del resto c’è ancora una ragione decisiva perché in Oriente un tale svantaggio non si verifichi, o per lo meno sia ridotto al minimo, ed è che una demarcazione nettissima vi è stabilita tra le lingue volgari, le quali variano necessariamente in una certa misura per rispondere alle necessità dell’uso corrente, e le lingue che servono all’esposizione delle dottrine, lingue fissate immutabilmente, e il cui fine preserva da tutte le variazioni contingenti; ciò che, peraltro, diminuisce ancora l’importanza delle considerazioni cronologiche. In Europa si sarebbe potuto trovare qualcosa di parzialmente analogo all’epoca in cui il latino era abitualmente impiegato nell’insegnamento e negli scambi intellettuali; una lingua che abbia un tale uso non può essere definita propriamente una lingua morta, ma piuttosto una lingua fissata, e in ciò appunto consiste il suo grande vantaggio, per tacere della sua comodità nelle relazioni internazionali, dove le «lingue ausiliarie» artificiali, preconizzate dai moderni, sono inesorabilmente destinate a fallire. Se possiamo parlare di una fissità immutabile, soprattutto in Oriente e per l’esposizione di dottrine la cui essenza è puramente metafisica, è perché di fatto queste dottrine non «si evolvono» nel senso occidentale della parola, rendendo perfettamente inapplicabile ad esse l’uso di qualsivoglia «metodo storico»; per strano e anzi incomprensibile che ciò possa sembrare a degli occidentali moderni, che vorrebbero ad ogni costo credere nel «progresso» in tutti i campi, le cose stanno così, e non riconoscendolo ci si condanna a non capire mai nulla dell’Oriente. Le dottrine metafisiche non sono soggette a nessun cambiamento di fondo, e neppure a perfezionamenti; possono soltanto svilupparsi sotto certi aspetti, accogliendo espressioni più particolarmente appropriate a ognuno di tali aspetti, ma che si mantengono sempre in uno spirito rigorosamente tradizionale. Se in via eccezionale accade diversamente e una deviazione intellettuale si verifica in un ambiente più o meno ristretto, questa deviazione, se è davvero grave, comporterà in tempi abbastanza brevi l’abbandono della lingua tradizionale nell’ambiente dato, dove essa verrà sostituita da un idioma di origine volgare, ma che a sua volta acquisterà una certa fissità relativa, perché la dottrina dissenziente tende in modo spontaneo a porsi come tradizione indipendente benché priva, è ovvio, di ogni autorità regolare. L’orientale, anche quando abbandona le vie normali della sua intellettualità, non può vivere senza una tradizione o qualcosa che ne tenga il posto, e in seguito cercheremo di far capire che cosa sia per lui la tradizione sotto i suoi diversi aspetti; è questa, d’altronde, una delle cause profonde del suo disprezzo per l’occidentale, il quale troppo sovente gli si presenta come un essere privo di ogni legame tradizionale.
Per considerare sotto un altro angolo visuale, e quasi nel loro stesso principio, le difficoltà che volevamo segnalare particolarmente in questo capitolo, possiamo dire che ogni espressione di un qualsiasi pensiero è di per sé necessariamente imperfetta, dal momento che circoscrive e restringe i concetti per chiuderli in una forma definita che non può mai essere del tutto adeguata, il concetto contenendo sempre qualcosa di più della sua espressione, e addirittura immensamente di più quando si tratti di concetti metafisici che devono sempre tener conto dell’inesprimibile, in quanto fa parte della loro stessa essenza aprirsi su possibilità illimitate. Il passaggio da una lingua a un’altra, per forza di cose meno adatta della prima, non può insomma che aggravare questa imperfezione originaria e inevitabile; ma quando si è giunti a cogliere in qualche modo il concetto stesso attraverso la sua espressione primitiva, identificandosi per quanto è possibile alla mentalità di colui o coloro che lo hanno pensato, è chiaro che si può sempre rimediare in larga misura a questo inconveniente, fornendo una interpretazione che, per risultare intelligibile, dovrà essere un commento assai più che una pura e semplice traduzione letterale. Tutta la difficoltà reale quindi risiede, in fondo, nell’identificazione mentale necessaria per giungere a questo risultato; è certo che al riguardo esistono persone del tutto inadatte, ed è facile capire quanto ciò trascenda i limiti dei lavori di semplice erudizione. È questa l’unica maniera davvero proficua di studiare le dottrine; per capirle bisogna, per così dire, studiarle «dal di dentro», mentre gli orientalisti si sono sempre limitati a considerarle «dal di fuori».
Questo genere di lavoro, per le dottrine che si sono regolarmente trasmesse fino alla nostra epoca e che hanno ancora degli interpreti autorizzati, è relativamente più facile che per quelle di cui ci è pervenuta la sola espressione scritta o figurata, non accompagnata dalla tradizione orale estinta da lungo tempo. È quindi tanto più deplorevole che gli orientalisti abbiano sempre ostinatamente trascurato, con un partito preso forse parzialmente involontario ma per ciò stesso più invincibile, questo vantaggio che era loro offerto in quanto studiosi di civiltà che ancora sopravvivono, vantaggio che invece è negato a quanti svolgono ricerche su civiltà scomparse. Ciò nonostante, come abbiamo già detto, anche questi ultimi, gli egittologi e gli assiriologi, per esempio, potrebbero sicuramente risparmiarsi molti errori se avessero una conoscenza più estesa della mentalità umana e delle diverse modalità che può assumere; ma una conoscenza del genere non è appunto raggiungibile se non attraverso lo studio vero delle dottrine orientali, il quale renderebbe in tal modo, per lo meno indirettamente, immensi servigi a tutti i rami dello studio dell’antichità. Sennonché, anche solo per questo fine che non ci sembra affatto il più importante, non bisognerebbe chiudersi in un’erudizione che di per sé ha un mediocrissimo interesse, ma che probabilmente è il solo ambito in cui possa esercitarsi senza eccessivi inconvenienti l’attività di coloro che non vogliono o non possono uscire dagli angusti confini della mentalità occidentale moderna. È questa, lo ripetiamo ancora una volta, la ragione essenziale per cui i lavori degli orientalisti sono del tutto insufficienti a permettere la comprensione di una qualsiasi idea, e al tempo stesso completamente inutili, se non addirittura nocivi in certi casi, al fine di un avvicinamento intellettuale fra l’Oriente e l’Occidente.
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