Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
I. Considerazioni preliminari
4. Le relazioni tra i popoli antichi
Si crede abbastanza generalmente che le relazioni tra la Grecia e l’India siano incominciate, o almeno abbiano assunto un’importanza apprezzabile, solo all’epoca delle conquiste di Alessandro; per tutto ciò che è sicuramente anteriore a questa data, quindi, si parla semplicemente di somiglianze fortuite tra le due civiltà, e per tutto ciò che è posteriore, o supposto tale, si parla naturalmente di influenza greca, come vuole la logica particolare insita nel «pregiudizio classico».
Ecco di nuovo un’opinione che come molte altre è priva di ogni serio fondamento, dal momento che le relazioni tra i popoli, seppur lontani, erano nell’antichità assai più frequenti di quanto non si immagini abitualmente. Insomma, le comunicazioni non erano molto più difficili in quei tempi di quanto non lo fossero ancora uno o due secoli fa, e più precisamente fino all’invenzione delle ferrovie e dei piroscafi a vapore; certo si viaggiava meno che ai nostri giorni, meno spesso e soprattutto meno velocemente, ma si viaggiava in modo più proficuo perché si aveva tempo di studiare i paesi che si attraversavano, e talvolta anzi il viaggio era giustificato solo da questo studio e dai vantaggi intellettuali che se ne traevano. Non vi è pertanto ragione plausibile per definire «leggenda» quanto sappiamo sui viaggi dei filosofi greci, tanto più che questi viaggi spiegano molte cose altrimenti incomprensibili. La verità è che, ben prima degli albori della filosofia greca, i mezzi di comunicazione dovevano avere uno sviluppo di cui i moderni si fanno un’idea tutt’altro che esatta, e ciò aveva un carattere normale e permanente, senza alcun rapporto con le migrazioni dei popoli, le quali sono avvenute sempre e solo in modo discontinuo e alquanto eccezionale.
Fra le altre prove che potremmo citare in appoggio a quanto detto, ne indicheremo una sola, che riguarda specialmente i rapporti dei popoli mediterranei, e questo perché si tratta di un fatto poco conosciuto o per lo meno negletto, a cui nessuno sembra aver prestato l’attenzione che merita e di cui in ogni caso sono state fornite interpretazioni molto inesatte. Vogliamo alludere all’adozione, tutt’intorno al bacino del Mediterraneo, di uno stesso tipo fondamentale di moneta, con variazioni secondarie che fungono da segni distintivi locali; e questa adozione, benché non si riesca a fissarne con esattezza la data, risale certamente a un’età antichissima, almeno in rapporto a quel periodo dell’antichità che per lo più si esamina. In questo fatto non si è voluto vedere niente di più che un’imitazione delle monete greche, le quali sarebbero pervenute accidentalmente in regioni lontane; anche questo è un esempio dell’influenza esagerata che si suole attribuire ai Greci, nonché della deplorevole tendenza a far intervenire il caso in tutto quello che non si sa spiegare, come se il caso fosse qualcos’altro che un nome dato, per dissimularla, alla nostra ignoranza delle cause reali. Quel che ci sembra certo è che questo modello comune di moneta, che comporta essenzialmente una testa umana da un lato e un cavallo o un carro dall’altro, non è più specificamente greco di quanto non sia italico o cartaginese, o persino gallico o iberico; la sua adozione ha sicuramente richiesto un accordo più o meno esplicito tra i differenti popoli mediterranei, anche se le modalità di questo accordo necessariamente ci sfuggono. La stessa cosa succede per certi simboli o certe tradizioni che si ritrovano uguali in aree ancor più estese; e d’altronde, se nessuno contesta le regolari relazioni mantenute dai coloni greci con la metropoli, per quale ragione si contesterebbero maggiormente quelle che hanno potuto stabilirsi fra i Greci e altri popoli? D’altra parte, anche là dove una convenzione del tipo di quella affermata non sia mai intervenuta, per ragioni che possono essere di ordini diversi, che non è nostro compito indagare qui e che del resto sarebbero difficilmente determinabili, non è per nulla provato che ciò abbia impedito lo stabilirsi di scambi più o meno regolari; altri, semplicemente, saranno stati i mezzi, perché dovevano adattarsi a circostanze diverse.
Per precisare la portata che è opportuno riconoscere al fatto da noi indicato, anche se si tratta soltanto di un esempio, c’è da aggiungere che gli scambi commerciali non dovettero mai avvenire con continuità senza prima o poi indurre scambi di un genere del tutto diverso, e in particolare scambi intellettuali; e può anche darsi che in certi casi le relazioni economiche, lungi dall’avere quella priorità che hanno presso i popoli moderni, siano state di un’importanza più o meno secondaria. La tendenza a ricondurre tutto al punto di vista economico, sia nella vita interna di un paese sia nelle relazioni internazionali, è infatti una tendenza propriamente moderna; gli antichi, anche occidentali, ad eccezione forse dei soli Fenici, non vedevano le cose a questo modo, e neppure gli orientali, anche al giorno d’oggi, le vedono così. Ecco un’altra occasione per ribadire come sia sempre pericoloso voler formulare un giudizio dal proprio punto di vista su questioni relative a uomini che, trovandosi in altre circostanze, possedendo un’altra mentalità, collocandosi diversamente nel tempo o nello spazio, certo non si sono mai posti da quel punto di vista, né avevano alcuna ragione per concepirlo; proprio questo è invece l’errore che troppo spesso commettono coloro che studiano l’antichità, ed è anche lo stesso che, come dicevamo fin dall’inizio, commettono immancabilmente gli orientalisti.
Per ritornare al nostro punto di partenza, il fatto che i più antichi filosofi greci abbiano preceduto di diversi secoli l’epoca di Alessandro non autorizza affatto a concludere che non abbiano conosciuto nulla delle dottrine indù. Per citare un esempio, l’atomismo, molto tempo prima della sua comparsa in Grecia, era stato sostenuto in India dalla scuola di Kanâda, in seguito dai jaina e dai buddhisti; può darsi che sia stato importato in Occidente dai Fenici, come fanno supporre certe tradizioni, ma del resto diversi autori affermano che Democrito, il quale fu uno dei primi Greci ad adottare questa dottrina, o almeno a formularla chiaramente, aveva viaggiato in Egitto, in Persia e in India. I primi filosofi greci possono anzi avere conosciuto, non soltanto le dottrine indù, ma anche le dottrine buddhiste, perché certo non precedettero il buddhismo, e per di più quest’ultimo si estese per tempo fuori dell’India, in regioni dell’Asia più vicine alla Grecia e quindi relativamente più accessibili. Tale circostanza rafforzerebbe la tesi, plausibilissima, di prestiti ricevuti, certo non esclusivamente ma principalmente, dalla civiltà buddhista. In ogni caso è interessante notare come gli accostamenti che possono farsi con le dottrine dell’India siano assai più numerosi ed evidenti durante il periodo presocratico che nei periodi successivi; quale parte avrebbero dunque le conquiste di Alessandro nelle relazioni intellettuali tra i due popoli? In fatto d’influenza indù, tutto sommato, non sembrano avere introdotto se non quella che si può trovare nella logica di Aristotele, e a cui alludevamo in precedenza parlando del sillogismo, così come nella parte metafisica dell’opera dello stesso filosofo, per la quale si potrebbero anzi segnalare certe somiglianze un po’ troppo precise per essere puramente accidentali.
Se, per preservare a tutti i costi l’originalità dei filosofi greci, si obiettasse che esiste un fondo intellettuale comune a tutta l’umanità, resta nondimeno il fatto che questo fondo è qualcosa di troppo generico e vago per spiegare in modo soddisfacente somiglianze precise e nettamente determinate. D’altronde il divario delle mentalità in molti casi si spinge assai più lontano di quanto non pensino coloro che hanno sempre e soltanto conosciuto un unico tipo di umanità; in particolare, tra i Greci e gli Indù questa differenza era delle più considerevoli. Una spiegazione simile può bastare solo nel caso di due civiltà tra loro comparabili, che si siano sviluppate nella stessa direzione benché indipendentemente l’una dall’altra e abbiano prodotto concezioni identiche nella sostanza quantunque diversissime nella forma: è il caso delle dottrine metafisiche della Cina e dell’India. Inoltre, anche entro questi limiti, sarebbe forse più plausibile vedere in tutto ciò, come si è obbligati a fare per esempio quando si constata una comunanza di simboli, il risultato di una identità delle tradizioni primordiali, le quali presuppongono relazioni che possono risalire a epoche ben più remote dell’inizio del periodo definito «storico»; ma questo ci condurrebbe troppo lontano.
Dopo Aristotele le tracce di un’influenza indù nella filosofia greca diventano sempre più rare, se non addirittura nulle, perché questa filosofia si chiude in un ambito sempre più ristretto e contingente, sempre più lontano da ogni vera intellettualità, e perché tale ambito è per lo più quello della morale, connesso a preoccupazioni che sono sempre state completamente estranee agli orientali. Solo nei neoplatonici si vedranno ricomparire influenze orientali, ed è anzi proprio con loro che si incontreranno per la prima volta nei Greci certe idee metafisiche come quella dell’Infinito. Fino allora i Greci non avevano avuto infatti che la nozione dell’indefinito, e, tratto eminentemente caratteristico della loro mentalità, finito e perfetto erano per loro sinonimi; per gli orientali, al contrario, è l’Infinito che si identifica con la Perfezione. Questa è la differenza profonda che esiste tra un pensiero filosofico, nel senso europeo del termine, e un pensiero metafisico; ma al riguardo avremo occasione di ritornare più ampiamente in seguito, e queste poche indicazioni sono per il momento sufficienti, poiché la nostra intenzione non è di istituire qui un raffronto dettagliato fra le rispettive concezioni dell’India e della Grecia, raffronto che peraltro incontrerebbe molte difficoltà di cui poco si curano quanti lo considerano in modo troppo superficiale.
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