"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 30 aprile 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - II. I modi generali del pensiero orientale - 2. Principi di unità delle civiltà orientali

René Guénon
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

II. I modi generali del pensiero orientale
2. Principi di unità delle civiltà orientali

È estremamente difficile, oggi, individuare un principio di unità per la civiltà occidentale; si potrebbe dire addirittura che la sua unità, la quale si fonda sempre in modo naturale su un insieme di tendenze che costituiscono una certa conformità mentale, non è più che una semplice unità di fatto, la quale è priva di principio, così come lo è questa stessa civiltà da quando, all’epoca del Rinascimento e della Riforma, si ruppe il legame tradizionale di ordine religioso che per essa era precisamente il principio essenziale e di essa faceva nel Medioevo quella che si chiamava la «Cristianità».
L’intellettualità occidentale non poteva avere a propria disposizione, nei limiti entro cui si esercitava la sua attività tipicamente ristretta, alcun elemento tradizionale di ordine diverso che potesse sostituirsi a quello religioso; intendiamo dire che un elemento di questo genere non poteva, escludendo eccezioni non atte a generalizzarsi in quell’ambiente, essere concepito altrimenti che in modo religioso. Per quel che riguarda l’unità della razza europea in quanto razza, essa è, come abbiamo già detto, troppo relativa e debole per poter servire di base all’unità di una civiltà. Il rischio era dunque che si venissero a formare da quel momento molteplici civiltà europee senza nessun legame effettivo e consapevole; e infatti proprio a partire dal momento in cui fu spezzata l’unità fondamentale della «Cristianità» si videro costituirsi in suo luogo, attraverso molte vicissitudini e incerti tentativi, le unità secondarie, frammentarie e impoverite delle «nazionalità». L’Europa conservava nondimeno, anche nella sua deviazione mentale, e come suo malgrado, l’impronta della formazione unica che aveva ricevuto nei secoli precedenti; le stesse influenze che avevano provocato la deviazione si erano esercitate dovunque in modo simile, sebbene con gradi diversi; il risultato fu ancora una mentalità comune, e conseguentemente una civiltà che permaneva comune nonostante tutte le divisioni, ma che, invece di dipendere legittimamente da un principio, qualunque esso fosse, sarebbe ormai passata, se così si può dire, al servizio di una «assenza di principio», che la condannava a un irrimediabile decadimento intellettuale. Si può sicuramente sostenere che quello era il prezzo del progresso materiale verso il quale, da allora, il mondo occidentale si è diretto in modo esclusivo, poiché esistono vie di sviluppo inconciliabili; ma, comunque sia, ha significato veramente, a nostro avviso, pagare per quel progresso troppo magnificato un prezzo altissimo.
Questa considerazione molto sommaria permette innanzitutto di capire come in Oriente non possa esistere nulla di simile alle nazioni occidentali: la nascita delle nazionalità è tutto sommato il segno di una dissoluzione parziale, in una civiltà, che risulta dalla perdita di ciò che ne costituiva l’unità profonda. Nello stesso Occidente, lo ripetiamo, il concetto della nazionalità è essenzialmente moderno; non si riuscirebbe a trovare niente di analogo in tutto ciò che era esistito prima, né le città greche, né l’Impero romano (nato d’altra parte dalle estensioni successive della città originaria) o i suoi prolungamenti medioevali più o meno indiretti, né le confederazioni o le leghe di popoli come quelle dei Celti, e neppure gli Stati organizzati gerarchicamente secondo il modello feudale.
D’altra parte, quanto abbiamo detto dell’antica unità della «Cristianità», unità di natura essenzialmente tradizionale, e peraltro concepita secondo un modo specifico che è il modo religioso, può applicarsi quasi esattamente alla concezione dell’unità del mondo musulmano. La civiltà islamica è infatti, fra le civiltà orientali, quella che più si avvicina all’Occidente, e anzi si potrebbe dire che per le caratteristiche come per la posizione geografica essa è l’intermediaria, sotto diversi aspetti, fra l’Oriente e l’Occidente; ci sembra, quindi, che la tradizione possa essere esaminata in due modi profondamente distinti, dei quali uno è puramente orientale, mentre l’altro, che è il modo propriamente religioso, è condiviso con la civiltà occidentale. Del resto ebraismo, cristianesimo e islamismo si presentano come i tre elementi di uno stesso insieme, fuori del quale, è bene dirlo fin da ora, è per lo più difficile applicare propriamente il termine stesso di «religione», per poco che gli si voglia conservare un senso preciso e nettamente definito; ma nell’islamismo l’aspetto strettamente religioso è in realtà quello più esteriore; su questi punti dovremo tornare in seguito. Ad ogni modo, considerando per il momento solo l’aspetto esteriore, è su una tradizione che si può definire religiosa che si fonda tutta l’organizzazione del mondo musulmano: non avviene qui, come nell’Europa attuale, che la religione sia un elemento dell’ordine sociale, ma al contrario è tutto l’ordine sociale che si integra nella religione, dalla quale la legislazione è inseparabile perché in essa trova il suo principio e la sua ragione d’essere. È ciò che, sfortunatamente per loro, non hanno mai capito bene gli europei che si sono occupati delle popolazioni musulmane, e che per tale incomprensione hanno commesso errori politici dei più grossolani e inestricabili; non vogliamo però soffermarci ora su considerazioni del genere, che indichiamo incidentalmente. Al riguardo aggiungeremo solo due osservazioni che non sono prive di interesse: la prima è che la concezione del «califfato», unico fondamento possibile per qualsiasi «panislamismo» veramente serio, non è in alcun modo assimilabile a quella di una qualunque forma di governo nazionale, e che peraltro possiede tutte le caratteristiche per disorientare gli europei, abituati a vedere una separazione assoluta, se non addirittura una opposizione, tra il «potere spirituale» e il «potere temporale»; la seconda è che per pretendere di instaurare nell’Islam dei «nazionalismi», occorre tutta l’ignorante presunzione di pochi «giovani» musulmani, che tali si autodefiniscono per ostentare il loro «modernismo» e nei quali l’insegnamento delle università occidentali ha completamente obliterato il senso tradizionale.
A proposito dell’Islam dobbiamo ancora insistere su un altro punto, vale a dire l’unità della sua lingua tradizionale: abbiamo già detto che tale lingua è l’arabo, ma bisogna precisare che si tratta dell’arabo letterario, distinto in una certa misura dall’arabo volgare che ne costituisce un’alterazione e, grammaticalmente, una semplificazione. Vi è qui più o meno la stessa differenza che abbiamo indicato, per la Cina, fra la lingua scritta e la lingua parlata: solo l’arabo letterario può avere tutta la fissità indispensabile per sostenere la funzione di lingua tradizionale, mentre l’arabo volgare, come ogni altra lingua che serve all’uso comune, subisce naturalmente delle variazioni secondo le epoche e le regioni. Tuttavia queste variazioni non sono così considerevoli come di solito si crede in Europa: esse riguardano soprattutto la pronuncia e l’uso di alcuni termini più o meno specifici e non sono tali da costituire una pluralità di dialetti, giacché tutti coloro che parlano arabo sono perfettamente in grado di capirsi; insomma, anche per quanto riguarda l’arabo volgare, esiste un’unica lingua che è parlata dal Marocco al Golfo Persico, e i cosiddetti dialetti arabi, più o meno dissimili, sono un’invenzione pura e semplice degli orientalisti. Quanto poi alla lingua persiana, benché non sia fondamentale dal punto di vista della tradizione musulmana, il suo impiego in numerosi scritti relativi al «sufismo» le conferisce comunque, per la parte più orientale dell’Islam, un’incontestabile importanza intellettuale.
Passando ora alla civiltà indù, la sua unità è ancora di ordine puramente ed esclusivamente tradizionale: essa comprende elementi appartenenti a razze o gruppi etnici diversissimi, e che possono tutti definirsi a ugual titolo «indù» nel senso stretto della parola, ad esclusione di altri elementi appartenenti a queste stesse razze o almeno ad alcune di esse. Certuni vorrebbero che all’origine le cose non stessero in questo modo, ma la loro opinione si fonda soltanto sull’ipotesi di una pretesa «razza ariana», che è dovuta semplicemente all’immaginazione troppo fertile degli orientalisti; il termine sanscrito ârya, dal quale è stato tratto il nome di questa razza ipotetica, è sempre stato in realtà un epiteto distintivo che si applica ai soli uomini delle prime tre caste, e indipendentemente dall’appartenenza a questa o quella razza, la cui considerazione qui non interviene affatto. Vero è che il principio dell’istituzione delle caste è rimasto, come molte altre cose, così incompreso in Occidente che non c’è da stupirsi se tutto ciò che vi si riferisce, direttamente o indirettamente, abbia occasionato ogni sorta di confusioni; ma su questo argomento ritorneremo in un’altra parte del nostro lavoro. Quel che, bisogna ricordare per il momento è che l’unità indù riposa interamente sul riconoscimento di una certa tradizione, la quale, anche qui, ingloba tutto l’ordine sociale, ma solo a titolo di semplice applicazione a determinate contingenze; quest’ultima riserva è dovuta al fatto che la tradizione suddetta non è più religiosa, come lo era nell’Islam, ma di un ordine più puramente intellettuale ed essenzialmente metafisico. Quella specie di duplice polarizzazione, esteriore e interiore, a cui abbiamo accennato a proposito della tradizione musulmana, non esiste nell’India, dove perciò non si possono fare gli accostamenti con l’Occidente che erano ancora possibili almeno per l’aspetto esteriore dell’Islam; qui nulla esiste più di simile alle religioni occidentali, e a sostenere il contrario possono esserci solo degli osservatori superficiali, i quali dimostrano così la loro perfetta ignoranza dei modi del pensiero orientale. Siccome ci ripromettiamo di trattare specialmente delle civiltà dell’India, è inutile per il momento dilungarci in merito.
La civiltà cinese, come abbiamo già detto, è la sola la cui unità sia essenzialmente, nella sua natura profonda, un’unità di razza; il suo elemento caratteristico, al riguardo, è ciò che i Cinesi chiamano gen, concetto che si può rendere, senza eccessiva inesattezza, con «solidarietà di razza». Tale solidarietà, che implica a un tempo la perpetuità e la comunione dell’esistenza, si identifica del resto con l’«idea di vita», applicazione all’umanità esistente del principio metafisico della «causa iniziale»; e dal passaggio di tale nozione nel campo sociale, con l’attuazione continua di tutte le sue conseguenze pratiche, discende l’eccezionale stabilità delle istituzioni cinesi. Questa stessa concezione permette di comprendere come l’intera organizzazione sociale riposi qui sulla famiglia, prototipo essenziale della razza; in Occidente si sarebbe potuto trovare qualcosa di parzialmente analogo nella città antica, dove pure la famiglia formava il nucleo iniziale e lo stesso «culto degli avi», con tutto ciò che implicava di fatto, aveva un’importanza della quale i moderni stentano a rendersi conto. Non crediamo tuttavia che, da nessun’altra parte se non in Cina, ci si sia mai spinti così oltre nel senso di una concezione dell’unità familiare che si oppone a qualsiasi individualismo, che sopprime per esempio la proprietà individuale e quindi l’eredità, e che rende in qualche modo impossibile la vita di chi, volontariamente o no, si trovi escluso dalla comunità della famiglia. Quest’ultima esercita nella società cinese una funzione almeno tanto importante quanto quella della casta nella società indù, e che in qualche modo le è comparabile; ma il principio resta completamente diverso. D’altronde la parte propriamente metafisica della tradizione è, in Cina più che altrove, nettamente separata da tutto il resto, vale a dire insomma dalle sue applicazioni a differenti ordini di relatività; va da sé però che tale separazione, per profonda che sia, non può giungere fino a una discontinuità assoluta, che in quanto tale priverebbe le forme esteriori della civiltà di ogni principio reale. Lo si vede fin troppo nell’Occidente moderno dove le istituzioni civili, spogliate di ogni valore tradizionale, ma conservanti qualche vestigio del passato ormai incompreso, hanno talvolta l’apparenza di una vera parodia rituale senza la minima ragione d’essere, e la cui osservanza è più propriamente una «superstizione», con tutta la forza che dà a questa parola la sua rigorosa accezione etimologica.
Quanto abbiamo detto è sufficiente a mostrare come l’unità di ognuna delle grandi civiltà orientali sia di natura completamente diversa da quella della civiltà occidentale attuale, come si appoggi su principi che, ben più profondi e indipendenti dalle contingenze storiche, sono eminentemente atti ad assicurarne la durata e la continuità. Le considerazioni che precedono, d’altronde, troveranno un loro naturale complemento in quel che seguirà, quando avremo occasione di trarre dall’una o dall’altra delle civiltà in questione gli esempi che saranno necessari per comprendere la nostra trattazione.

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