La superstizione del «valore» *
* Études Traditionnelles, giugno 1940. (Rivista di Studi Tradizionali n. 39)
In alcuni nostri scritti abbiamo denunciato un certo numero di «superstizioni» specificamente moderne che si fondano in definitiva sul prestigio attribuito a una parola, prestigio che è tanto maggiore quanto più l’idea da essa evocata è vaga e inconsistente. L’influenza esercitata da pure e semplici parole, indipendentemente da quel che esse esprimono o dovrebbero esprimere, non è infatti mai stata così grande come alla nostra epoca; essa corrisponde invero ad una caricatura della potenza inerente alle formule rituali; e coloro che sono i più accaniti nel negarle sono anche, per una singolare nemesi, i primi a lasciarsi sedurre da qualcosa che è in fondo una sorta di parodia profana.
Va da sé che la potenza delle formule e delle parole non è dello stesso ordine: quella delle formule rituali si basa essenzialmente sulla «scienza sacra» ed è qualcosa di effettivo che s’esercita realmente nei più diversi domini a seconda degli effetti che si vogliono ottenere; al contrario, quella della loro contraffazione profana non è suscettibile, in modo diretto perlomeno, che d’una azione puramente «psicologica» e soprattutto sentimentale, cioè dipendente dal più illusorio dei domini. Ma non si deve pensare che una simile azione sia inoffensiva; anzi, queste illusioni «soggettive», per quanto insignificanti possano essere in se stesse, presentano nondimeno conseguenze reali nell’attività umana nel suo insieme; e, soprattutto, contribuiscono grandemente a distruggere ogni forma di vera intellettualità, il che, del resto, è probabilmente la principale funzione loro assegnata nel «piano» della sovversione moderna.
Le superstizioni di cui parliamo variano in una certa misura continuamente, perché anche per queste, come per tutto alla nostra epoca, v’è una specie di «moda»; ma non vogliamo tuttavia affermare che, quando nasce una nuova superstizione, essa sostituisca subito e completamente le precedenti, dacché è facile constatarne la coesistenza nella mentalità contemporanea; ma è sempre la più recente ad occupare un posto predominante e a relegare in secondo piano le altre. Possiamo così ad esempio dire che vi fu per prima la superstizione della «ragione», che raggiunse il suo apogeo verso la fine del XVIII sec.; poi quella della «scienza» e del «progresso», aventi dei resto stretti legami con la precedente, che caratterizzarono il XIX secolo. Venendo ad un’epoca a noi più vicina, fece la sua comparsa la superstizione della «vita», la quale ebbe il suo punto culminante nei primi anni del nostro secolo. Poiché tutto cambia con una velocità sempre più crescente, queste superstizioni, come le teorie scientifiche e filosofiche alle quali sono in un certo modo connesse, vanno «logorandosi» sempre più rapidamente; per cui v’è da segnalare la nascita di un’altra nuova superstizione, quella del «valore», sorta apparentemente da qualche anno, e che tende già a soppiantare quelle che l’hanno preceduta.
Non v’è certo in noi la tendenza ad esagerare l’importanza della filosofia, e specialmente di quella moderna, perché, pur riconoscendo che può essere uno dei fattori che agiscono sulla mentalità moderna, pensiamo che sia lungi dall’essere il più importante e che, nella sua forma «sistematica», rappresenti piuttosto un effetto che una causa; ma proprio per questo motivo, essa esprime in modo più preciso ciò che esisteva già allo stato latente in tale mentalità, e di conseguenza non fa che mettere in evidenza, un po’ come una lente d’ingrandimento, cose che altrimenti sarebbero sfuggite all’attenzione dell’osservatore o che perlomeno sarebbe stato più difficile individuare. Per comprendere meglio di che cosa si tratta, sarà bene ricordare anzitutto le tappe, da noi già indicate altrove, dello scadimento graduale delle concezioni filosofiche moderne. Per prima, si ebbe una riduzione di tutte le cose all’«umano» e al «razionale»; quindi una limitazione sempre più stretta del senso dato al «razionale» stesso, di cui si finì per scorgere soltanto le funzioni più basse; infine, una discesa nell’«infrarazionale» con il cosiddetto «intuizionismo» e le diverse teorie ad esso più o meno apparentate. I «razionalisti» acconsentivano ancora a parlare di «verità», anche se per loro non poteva trattarsi invero che d’una verità molto relativa; gli «intuizionisti» hanno voluto sostituire il «vero» con il «reale», termini che potrebbero in un certo modo equivalersi se le parole venissero prese nel loro senso normale, cosa che di fatto è ben lungi dal verificarsi; infatti si è prodotta una strana deformazione per cui, nell’uso corrente, la parola «realtà» ha finito con il designare esclusivamente le cose d’ordine sensibile, cioè precisamente quelle che hanno soltanto il minimo grado di realtà. In seguito i «pragmatisti» hanno preteso di ignorare del tutto la verità e di sopprimerla in qualche modo sostituendola con l’«utilità»; si è avuta così propriamente una caduta nel «soggettivo», poiché è evidente che l’utilità d’una cosa non è affatto una qualità inerente alla cosa stessa, ma dipende interamente da colui che la considera e ne fa l’oggetto di una specie di apprezzamento individuale, senza interessarsi minimamente di quel che è la cosa al di fuori di questo apprezzamento, cioè, in fondo, della sua realtà effettiva: sarebbe ben difficile spingersi oltre nella negazione di ogni intellettualità.
Gli «intuizionisti» e i «pragmatisti», ed anche i rappresentanti di qualche altra scuola di minor importanza, applicano volentieri alle loro teorie l’etichetta di «filosofia della vita»; ma pare che tale espressione non riscuota più quel successo che ebbe in un primo tempo e che a godere di maggiore favore sia oggi quella di «filosofia dei valori». Questa nuova filosofia sembra battersi contro il concetto di «reale», in qualsiasi modo lo si voglia intendere, pressappoco come il «pragmatismo» aveva preso di mira quello di «vero»; la sua affinità con il «pragmatismo» è del resto sotto certi aspetti evidente, perché il «valore», proprio come l’utilità, dipende in fondo da un apprezzamento individuale, il cui carattere «soggettivo», come vedremo in seguito, è forse ancor più accentuato. È d’altronde possibile che l’attuale successo della parola «valore» sia in parte dovuto al senso grossolanamente materiale che, senza esserle proprio originariamente, ha assunto nel linguaggio corrente: quando si parla di «valore» o di «valutazione» si pensa subito a qualcosa che può essere «contato» o «messo in cifre», e bisogna convenire che ciò ben s’accorda con la mentalità «quantitativa» propria del mondo moderno. Ma questa è solo una spiegazione parziale: non dobbiamo infatti dimenticare che il «pragmatismo», il quale trae la sua denominazione dal fatto che riduce tutto all’«azione», non intende l’«utilità» unicamente in senso materiale, ma in senso morale; anche il «valore» è suscettibile di questi due sensi, ma è il secondo a predominare, perché è l’aspetto morale, o più esattamente «moralistico», ad avere il maggior rilievo. La «filosofia dei valori» si presenta anzitutto come una forma di «idealismo» e così si spiega la sua ostilità nei confronti del «reale», dal momento che nel linguaggio speciale dei filosofi moderni l’«idealismo» si oppone al «realismo».
Si sa che la filosofia moderna si fonda in buona parte su equivoci: uno di questi è appunto quello che si cela sotto l’etichetta di «idealismo», parola che può esser fatta derivare sia da «idea» che da «ideale»; e a questa duplice derivazione corrispondono infatti i due caratteri essenziali che si possono facilmente individuare nella «filosofia dei valori». L’«idea», beninteso, è presa qui in un senso unicamente psicologico, il solo che i moderni conoscono (e vedremo tra poco che è bene insistere su questo punto per dissipare un altro equivoco); esso ne rappresenta il lato «soggettivistico», mentre l’«ideale» ne rappresenta evidentemente quello «moralistico». In tal modo i due significati dell’«idealismo» si trovano strettamente associati, sostenendosi per così dire a vicenda, corrispondendo entrambi a tendenze assai generalizzate della mentalità odierna: da un canto lo «psicologismo» traduce uno stato d’animo che non è certo esclusivo dei soli filosofi. di professione e, dall’altro, è purtroppo ben noto il fascino che la parola «ideale» esercita sulla maggior parte dei nostri contemporanei!
L’incredibile è che tale filosofia abbia la pretesa di rifarsi all’«idealismo platonico» e non si può fare a meno d’esser presi da un certo stupore nel veder attribuita a Platone l’affermazione che «la vera realtà non risiede nell’oggetto, ma nell’idea, cioè in un atto del pensiero». Diremo subito che non esiste affatto un «idealismo platonico» che possieda anche solo uno dei significati che i moderni danno alla parola «idealismo».
Le «idee», in Platone, non hanno niente di «psicologico» né di «soggettivo» e non hanno assolutamente niente in comune con un «atto del pensiero»; esse sono, invece, i principi trascendenti o gli «archetipi» di tutte le cose; per questo motivo costituiscono la realtà per eccellenza, e si potrebbe dire, sebbene Platone non lo esprima in questi termini (così come, del resto, non enuncia espressamente da nessuna parte qualcosa che si possa chiamare una «teoria delle idee»), che il «mondo delle idee» non è altro in definitiva che l’Intelletto divino. Quale rapporto può avere tutto ciò con il frutto di un «pensiero individuale»? Anche dal semplice punto di vista della storia della filosofia, si tratta di un errore veramente madornale: non solo Platone non è né «idealista», né in qualsiasi modo «soggettivista», ma non si potrebbe essere più integralmente «realisti» di quanto egli sia; che i nemici dichiarati del «reale» vogliano fame un loro predecessore è veramente paradossale. Inoltre costoro commettono un altro errore, di certo non meno grave, quando, per ricollegare il loro «moralismo» a Platone, invocano la funzione in qualche modo «centrale» che egli assegna all’«idea del Bene». Esprimendoci con il linguaggio della Scolastica diremmo che essi non fanno che confondere il «Bene trascendente» con il «Bene morale», dimostrando così quanto sia grande la loro ignoranza di certe nozioni del resto elementari; e, quando si vedono i moderni interpretare in tal guisa le concezioni degli antichi, anche se non si tratta in fondo che di filosofia, ci si può ancora stupire se deformano nel modo più oltraggioso le dottrine d’un ordine più profondo?
La verità è che la «filosofia dei valori» non può rivendicare il sia pur minimo legarne con una qualsiasi antica dottrina se non ricorrendo ai peggiori giochi di parole sulle «idee» e sul «bene», ai quali si dovrebbero aggiungere altre confusioni come quella, del resto molto diffusa, tra «spirito» e «mentale». Tale confusione è tra le più tipicamente moderne proprio per le componenti «soggettive» e «moralistiche» da noi già indicate; non è di certo difficile rendersi conto di quanto essa sia l’opposto dello spirito tradizionale, come d’altronde lo è ogni «idealismo», la cui conclusione logica è di far dipendere la verità stessa (oggi si dice anche il «reale») dalle operazioni del «pensiero» individuale; può darsi che, in un’epoca in cui il disordine intellettuale non era ancora giunto al punto attuale, talvolta certi «idealisti» siano indietreggiati davanti all’enormità di una simile conseguenza, ma non crediamo che i filosofi contemporanei possano avere esitazioni del genere... Ci si può allora domandare a che cosa mira precisamente l’emergere di questa particolare idea di «valore», lanciata come una nuova «parola d’ordine» o, se si vuole, come una nuova «suggestione»; la risposta non è poi così difficile, se si pensa che la deviazione moderna nel suo insieme può essere descritta come una serie di sostituzioni che sono soltanto altrettante falsificazioni in ogni campo. È infatti più facile distruggere una cosa pretendendo di sostituirla, foss’anche con una grossolana parodia, che riconoscendo apertamente che si vuol lasciare dietro di sé il nulla; e, anche quando si tratta d’una cosa che ha già cessato d’esistere, vi può ancora essere l’interesse a fabbricarne un’imitazione per impedire che si avverta il bisogno di restaurarla, o per creare difficoltà a coloro che potrebbero avere tale intenzione. Fu così che, per dare solo qualche esempio del primo caso, l’idea del «libero esame» fu inventata per distruggere l’autorità spirituale, non negandola puramente e semplicemente, in un primo tempo almeno, ma sostituendo ad essa una falsa autorità, quella della ragione individuale; e fu così che il «razionalismo» filosofico si prefisse di sostituire l’intellettualità con qualcosa che ne è solo più la caricatura. L’idea del «valore» ci sembra tuttavia rientrare nel secondo caso: già da molto tempo non si riconosce più difatti nessuna gerarchia reale, cioè fondata essenzialmente sulla natura stessa delle cose; sennonché, per una ragione o per l’altra, che non intendiamo qui ricercare, è parso opportuno (non di certo ai filosofi, perché verosimilmente sono proprio le prime vittime dell’inganno) instaurare nella mentalità collettiva una falsa gerarchia, fondata unicamente su apprezzamenti sentimentali, quindi del tutto «soggettiva» (e tanto più inoffensiva agli occhi dell’«egualitarismo» moderno, in quanto è relegata nelle nuvole dell’«ideale», ossia tra le chimere dell’immaginazione); si può dunque dire che i «valori» rappresentano una contraffazione della gerarchia ad uso di un mondo che è stato condotto alla negazione di ogni vera intellettualità.
Altrettanto poco rassicurante è che si osi qualificare «spirituali» questi «valori», e l’abuso di tale aggettivo non è meno significativo di tutto il resto; infatti, ritroviamo qui un’altra contraffazione, quella della spiritualità, di cui abbiamo già dovuto denunciare vari esempi; anche la «filosofia dei valori» ha dunque da svolgere una sua funzione a questo riguardo? È indubbio, in tutti i casi, che non siamo più nella fase in cui il «materialismo» e il «positivismo» esercitavano un’influenza preponderante; si tratta ormai di un’altra cosa, la quale, per raggiungere il proprio obiettivo, deve assumere una natura più sottile; e, per esporre chiaramente tutto il nostro pensiero sull’argomento, diremo che l’«idealismo» e il «soggettivismo», nel campo delle concezioni filosofiche e per le loro reazioni sulla mentalità generale, sono ormai, e senza dubbio saranno sempre più, i principali ostacoli a ogni restaurazione della vera intellettualità.
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