"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 24 aprile 2015

René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù - I. Considerazioni preliminari - 5. Problemi di cronologia


René Guénon 
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù

I. Considerazioni preliminari 
5. Problemi di cronologia 

I problemi che riguardano la cronologia sono tra quelli che imbarazzano maggiormente gli orientalisti, e tale imbarazzo è in genere abbastanza giustificato; ma essi sbagliano, da una parte attribuendo a questi problemi un’importanza eccessiva, e dall’altra credendo di poter ottenere, con i loro metodi ordinari, soluzioni definitive, quando di fatto giungono solo a ipotesi più o meno fantasiose, sulle quali sono d’altronde ben lontani dal trovare un accordo.
Tuttavia vi sono casi che non presentano alcuna difficoltà reale, purché si accetti di non complicarli, come per capriccio, con le sottigliezze e i cavilli di una «critica» e un’«ipercritica» assurde.
È il caso dei documenti che, come gli antichi annali cinesi, contengono una precisa descrizione dello stato del cielo nell’epoca a cui si riferiscono; il calcolo della loro data esatta, poggiando su dati astronomici sicuri, non si presta ad alcuna ambiguità. Purtroppo questo non è un caso generale, anzi è quasi eccezionale, e gli altri documenti, quelli indù in particolare, non offrono per la maggior parte niente di analogo per guidare le ricerche; la qual cosa, in fondo, prova semplicemente che i loro autori non si sono affatto preoccupati di «fissare una data» in vista di una qualsiasi rivendicazione di priorità. La pretesa all’originalità intellettuale, che contribuisce in buona parte alla nascita dei sistemi filosofici, è, presso gli stessi occidentali, una cosa tipicamente moderna, ancora ignota nel Medioevo; le idee pure e le dottrine tradizionali non sono mai state proprietà di questo o quell’individuo, e le peculiarità biografiche di coloro che le hanno esposte e interpretate hanno un’importanza quanto mai secondaria. D’altronde, anche per la Cina, l’osservazione precedente si applica quasi solo agli scritti storici; ma dopotutto questi sono gli unici per cui la determinazione cronologica presenti un reale interesse, poiché essa ha un senso e una portata esclusivamente dal punto di vista della storia. D’altra parte si deve segnalare che, ad accrescere la difficoltà, esiste in India, ed esistette senza dubbio anche in civiltà ormai scomparse, una cronologia, o più esattamente qualcosa che le assomiglia, basata su numeri simbolici che bisogna guardarsi dal prendere letteralmente per numeri di anni; qualcosa di analogo si trova del resto persino nella cronologia biblica. In realtà questa pretesa cronologia si applica esclusivamente a periodi cosmici, e non a periodi storici; tra gli uni e gli altri non vi è confusione possibile, se non per effetto di un’ignoranza piuttosto grossolana, e tuttavia non si può fare a meno di riconoscere che gli orientalisti hanno dato fin troppi esempi di simili abbagli.
Una tendenza molto diffusa tra questi stessi orientalisti è di ridurre al massimo, e anzi sovente oltre ogni limite ragionevole, l’antichità delle civiltà di cui si interessano, quasi provassero disagio per il fatto che poterono esistere e prosperare in epoche tanto lontane, anteriori alle origini più remote che si possono attribuire all’attuale civiltà occidentale, o meglio a quelle da cui essa procede direttamente; il loro partito preso in materia non sembra avere altra scusa, e questo è veramente troppo poco. Lo stesso partito preso si è peraltro esercitato anche su cose sotto ogni aspetto molto più vicine all’Occidente di quanto non siano le civiltà della Cina e dell’India, e persino quelle dell’Egitto, della Persia e della Caldea; si è così tentato, per esempio, di «ringiovanire» la Cabala ebraica, in modo da potervi supporre un’influenza alessandrina e neoplatonica, mentre in realtà è avvenuto indubbiamente il contrario; e ciò sempre per la stessa ragione, ossia perché si è convenuto a priori che tutto deve provenire dai Greci, che essi hanno avuto nell’antichità il monopolio di ogni conoscenza, come gli europei immaginano di averlo ora, e che sono stati, sempre come questi stessi europei pretendono di essere attualmente, gli educatori e gli ispiratori del genere umano. Eppure Platone, la cui testimonianza in questo caso non dovrebbe prestarsi al sospetto, non ha avuto paura di riferire nel Timeo che gli Egiziani consideravano i Greci dei «bambini»; gli orientali, ancor oggi, avrebbero molte ragioni di dire la stessa cosa degli occidentali, se non si facessero scrupoli di una cortesia forse eccessiva. Ricordiamo tuttavia che proprio questo apprezzamento fu giustamente formulato da un indù, il quale, sentendo per la prima volta esporre le concezioni di certi filosofi europei, fu così poco meravigliato da dichiarare che erano idee adeguate tutt’al più a un bambino di otto anni!
Chi penserà che noi riduciamo eccessivamente il ruolo dei Greci, riconducendolo quasi solo a un’opera di «adattamento», potrebbe obiettare che non tutte le loro idee ci sono note, che molte cose non sono pervenute fino a noi. Ciò è senz’altro vero in qualche caso, e specialmente nell’insegnamento orale dei filosofi; ma quel che conosciamo non ci consente già ampiamente di giudicare il resto? L’analogia, che è la sola a poterci fornire i mezzi per passare, in una certa misura, dal noto all’ignoto, ci dà qui completa ragione; e d’altronde, basandoci sull’insegnamento scritto che possediamo, possiamo ragionevolmente presumere che l’insegnamento orale corrispondente, in quel che conteneva precisamente di specifico e di «esoterico», vale a dire di «più interiore», fosse, come quello dei «misteri» con il quale doveva avere più di un rapporto, ancor più fortemente caratterizzato da un’ispirazione orientale. Del resto, l’«interiorità» stessa di questo insegnamento può solo garantirci che era meno lontano dalla sua fonte e meno deformato di ogni altro, perché meno adattato alla mentalità generale del popolo greco; in caso contrario la sua comprensione non avrebbe evidentemente richiesto una preparazione speciale, soprattutto una preparazione così lunga e difficile come era per esempio quella in uso nelle scuole pitagoriche.
Del resto gli archeologi e gli orientalisti invocherebbero a sproposito contro di noi un insegnamento orale, o addirittura opere andate perdute, visto che il «metodo storico», al quale tengono tanto, ha come carattere essenziale di considerare solo i monumenti che si trovano sotto i loro occhi e i documenti scritti che hanno tra le mani; e appunto qui si mostra tutta l’insufficienza di questo metodo. In effetti ora si impone una considerazione che troppo sovente viene persa di vista: se di una certa opera si trova un manoscritto di cui si può determinare la data con un mezzo qualunque, ciò prova che l’opera in questione non è certamente posteriore a tale data, ma niente di più, mentre non prova affatto che non possa esserle di molto anteriore. Può benissimo succedere che in seguito vengano scoperti altri manoscritti più antichi della stessa opera, e comunque, anche se non se ne scoprono altri, non si è autorizzati a concludere che non ne esistano, né, a maggior ragione, che non ne siano mai esistiti. Se ne esistono ancora, nel caso di una civiltà che è durata fino ai giorni nostri, è per lo meno verosimile che non siano lasciati al caso di una scoperta archeologica, come quelle che sono possibili per una civiltà scomparsa; né d’altra parte vi è ragione di supporre che coloro che li conservano si credano un giorno tenuti a disfarsene a profitto degli eruditi occidentali, tanto più che la loro conservazione può avere un interesse sul quale non insisteremo, ma a paragone del quale la curiosità, sia pur fregiata dell’epiteto di «scientifica», è di scarsissimo valore. D’altro canto, riguardo alle civiltà scomparse, non si può fare a meno di constatare che, nonostante tutte le ricerche e le scoperte, una quantità di documenti non verrà mai più ritrovata, per la semplice ragione che è andata distrutta accidentalmente; siccome gli incidenti di questo genere sono stati, in molti casi, contemporanei alle civiltà stesse di cui si tratta, e non necessariamente posteriori alla loro estinzione, e siccome noi stessi possiamo constatarne abbastanza frequentemente di simili attorno a noi, è estremamente probabile che la stessa cosa si sia più o meno prodotta anche nelle altre civiltà che si sono mantenute fino alla nostra epoca; e anzi le probabilità che le cose stiano realmente così sono tanto maggiori quanto più lunga è la successione di secoli che le separa dalla loro origine. Ma c’è di più: anche senza incidenti, i manoscritti antichi possono scomparire del tutto naturalmente, normalmente per così dire, per pura e semplice usura; allora vengono sostituiti da altri che portano necessariamente una data più recente, e che sono i soli di cui in seguito si potrà constatare l’esistenza. Per farsi un’idea di ciò, basta osservare quel che avviene nel mondo musulmano: un manoscritto circola ed è trasportato, secondo i bisogni, da un centro d’insegnamento all’altro e talvolta in regioni molto distanti, fino a che non sia così usurato da essere pressoché inutilizzabile; se ne fa allora una copia il più esatta possibile, che da quel momento si sostituirà al vecchio manoscritto, verrà utilizzata nello stesso modo, e sarà a sua volta sostituita da un’altra quando anch’essa si deteriorerà, e così via. Sicuramente queste sostituzioni successive possono intralciare molto le ricerche degli orientalisti; ma coloro che vi si dedicano non si preoccupano granché di questo inconveniente, e anche se ne venissero a conoscenza non acconsentirebbero per così poco a modificare le loro abitudini. Tutte queste considerazioni sono in se stesse così evidenti che forse non varrebbe nemmeno la pena di formularle, se gli orientalisti non fossero a tal punto accecati da quel partito preso che indicavamo, da non vedere questa evidenza.
C’è poi un altro fatto, che i partigiani del «metodo storico» non possono tenere presente senza trovarsi in disaccordo: l’insegnamento orale ha quasi dappertutto preceduto l’insegnamento scritto, ed è stato il solo in uso per periodi probabilmente lunghissimi, anche se la loro durata esatta è difficilmente determinabile. In via generale, uno scritto tradizionale è per lo più la fissazione relativamente recente di un insegnamento che agli inizi era stato trasmesso oralmente, e a cui rarissimamente è possibile assegnare un autore; ne consegue che quand’anche si fosse certi di essere in possesso del manoscritto primitivo, della qual cosa forse non esistono esempi, rimarrebbe ancora da sapere quanto tempo è durata la trasmissione orale anteriore, e questa è una domanda che il più delle volte rischia di restare senza risposta. Tale esclusività dell’insegnamento orale ha potuto avere ragioni molteplici, e non presuppone necessariamente l’assenza della scrittura, la cui origine è certo remotissima, almeno sotto forma ideografica, di cui la forma fonetica è soltanto una degenerazione originata da un bisogno di semplificazione. Si sa, per esempio, che l’insegnamento dei Druidi rimase sempre esclusivamente orale, anche in un’epoca in cui i Galli conoscevano senz’ombra di dubbio la scrittura, poiché si servivano correntemente di un alfabeto greco nelle loro relazioni commerciali; perciò l’insegnamento druidico non ha lasciato alcuna traccia autentica, ed è già molto se se ne può ricostruire più o meno esattamente qualche frammento molto ristretto. Sarebbe un errore credere peraltro che la trasmissione orale dovette col tempo alterare l’insegnamento; dato l’interesse che la sua conservazione integrale presentava, vi sono al contrario forti ragioni per pensare che fossero adottate le necessarie precauzioni, affinché si mantenesse sempre identico, non soltanto nella sostanza ma anche nella forma; e si può constatare che questo mantenimento è perfettamente realizzabile, se solo si osserva ciò che accade ancora oggi presso tutti i popoli orientali, per i quali la fissazione a mezzo della scrittura non ha mai comportato la soppressione della tradizione orale né è mai stata considerata capace di sostituirvisi completamente. È curioso come comunemente si ammetta che certe opere in origine non fossero scritte; in particolare lo si afferma per i poemi omerici dell’antichità classica, per le chansons de geste del Medioevo; perché allora non si dovrebbe ammettere la stessa cosa per opere che hanno attinenza, non più con l’ordine semplicemente letterario, ma con quello dell’intellettualità pura, dove la trasmissione orale ha ragioni ben più profonde? Non vale veramente la pena di insistere ulteriormente, e quanto alle ragioni profonde alle quali abbiamo or ora alluso, non è questo il luogo per svilupparle; avremo del resto occasione di dirne qualcosa in seguito.
C’è ancora un punto che vorremmo indicare nel presente capitolo: se è spesso così difficile situare esattamente nel tempo un certo periodo dell’esistenza di un popolo antico, talvolta non lo è meno, per quanto strano possa sembrare, situarlo nello spazio. Intendiamo dire che certi popoli hanno potuto, in epoche diverse, emigrare da una regione all’altra, e niente ci dimostra che le opere lasciate dagli antichi Indù o dagli antichi Persiani, per esempio, siano state tutte composte nei paesi dove vivono attualmente i loro discendenti. Anzi, niente ce lo dimostra nemmeno quando queste opere contengano la designazione di luoghi determinati, i nomi di fiumi o di monti che ancora conosciamo, perché è possibile che questi stessi nomi siano stati successivamente applicati nelle diverse regioni dove il popolo in questione si è fermato nel corso delle sue migrazioni. Vi è qui qualcosa di abbastanza naturale: gli attuali europei non hanno spesso l’abitudine di dare alle città che fondano nelle colonie, e alle varietà geografiche che vi incontrano, denominazioni prese dal loro paese d’origine? Si è discussa talvolta la questione se l’Ellade dei tempi omerici corrispondesse effettivamente alla Grecia delle epoche più recenti, o se la Palestina biblica fosse veramente la regione che chiamiamo ancora con questo nome: discussioni simili non sono forse così vane come di solito si pensa, e almeno è sensato porre la questione anche se, negli esempi da noi citati, è abbastanza probabile che debba essere risolta in modo affermativo. Al contrario, per ciò che riguarda l’India vedica, a una domanda di questo tipo ci sono ragioni per rispondere negativamente; gli antenati degli Indù devono aver abitato, in un’epoca peraltro indeterminata, una regione molto a settentrione, poiché, secondo alcuni testi, vi accadeva che il sole facesse il giro dell’orizzonte senza tramontare; ma quando abbandonarono questa dimora primitiva, e dopo quante tappe giunsero nell’India attuale? Da un certo punto di vista sono questioni interessanti, che però noi ci accontentiamo di segnalare senza pretendere di esaminare qui, perché non rientrano nell’argomento che stiamo trattando. Le considerazioni finora esposte sono semplici preliminari che ci sono sembrati necessari prima di affrontare le questioni propriamente attinenti all’interpretazione delle dottrine orientali; e per queste ultime questioni, che costituiscono il nostro argomento principale, dobbiamo ancora segnalare un altro genere di difficoltà.

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