Giamblico
Sul
Destino[1]
Giamblico
(Calcide 245-325 ca.). Si adoperò per rivivificare le dottrine pitagoriche e
platoniche. Allievo di Porfirio alla scuola neoplatonica d’Alessandria, fondò
poi la “scuola siriaca”. Oltre a molti frammenti (noti attraverso l’Eklogon
di Stobeo), restano di lui cinque libri della stessa opera principale
Συναγωγὴ τῶν
Πυϑαγορείων
δογμάτον (De vita Pythagorica, Protrepticus
o Adhortatio ad philosophiam, De communi
mathematicæ scientia, In Nicomachi arithmeticam introductio, Theologumena
arithmeticæ) e l’opera De mysteriis.
Dall’epistola di Giamblico a Macedonio
Stobeo
I 5. 17
Tutti gli esseri sono esseri in forza
dell’uno, e infatti anche ciò che è in modo primario
da principio si produce a partire dall’Uno, ma in modo del tutto particolare le
cause totali in forza dell’Uno ricevono il potere di produrre e secondo un
unico intreccio sono tenute unite e allo stesso tempo sono ricondotte insieme
al principio dei molti, in quanto presussistono.
In base a questo ragionamento, dunque, a un’unica
causa totale è sospesa anche la molteplicità delle cause naturali, che sono
costituite di molteplici specie, divise in un gran numero di parti e dipendono
da più principi; d’altra parte tutte le cause si intrecciano l’una con l’altra
secondo un unico legame e la connessione delle molte cause rimonta a un’unica
forza causale, la più comprensiva.
Dunque questa
unica concatenazione non è formata alla rinfusa a partire dal molteplice, né
realizza l’unità acquisendo consistenza a partire dall’intreccio, né si trova
dispersa negli esseri individuali; piuttosto è secondo un unico intreccio
causale, superiore e antecedente agli esseri individuali, che questa unica
concatenazione porta a compimento tutte le cose e le lega insieme in sé e le
riconduce a sé secondo l’unicità formale.
Si deve dunque definire il destino un ordine unico che comprende in sé allo stesso
tempo tutti gli ordini.
Dall’epistola di Giamblico a Macedonio sul destino
Stobeo
II 8. 43
È sostanza immateriale quella dell’anima
che esiste in sé, incorporea, del tutto ingenerata e indistruttibile – dal momento che possiede a partire da se stessa l’essere e
il vivere –, si muove di moto del tutto proprio ed è principio della
natura e di tutti i movimenti. Dunque in quanto essa è
tale, contiene in sé la vita che detiene il potere di determinarsi e quella
indipendente. [E] per quanto si dà alle cose soggette
al divenire e si subordina al moto dell’universo, in tale misura è sia spinta
sotto il dominio del destino sia sottomessa alle necessità della natura;
invece, per quanto esercita la sua attività intellettiva, che è realmente
libera da tutte le cose ed è di propria elezione, in tale misura compie
volontariamente le sue funzioni proprie e raggiunge davvero il contatto col
divino e buono e intelligibile.
Stobeo
II 8. 44
Bisogna, allora, darsi cura di vivere
quel tipo di esistenza che è secondo intelletto ed è degli dei; solo questa infatti ci dà un’anima che non ha padrone, ci scioglie dai
legami necessari e ci fa vivere non una forma di esistenza umana, bensì divina,
cioè colma di beni divini, per volontà degli dei.
Stobeo
II 8. 45
E infatti,
riassumendo, i movimenti cosmici del destino si svolgono in maniera simile alle
attività e alle rivoluzioni immateriali e intellettive; l’ordine del destino
rispecchia il buon ordine intelligibile e non contaminato; le cause seconde
sono connesse alle cause superiori e il molteplice nella generazione è in
relazione all’essenza indivisibile e allo stesso modo tutte le cose del destino
sono unite alla superiore provvidenza. In conclusione, per la sua stessa
essenza il destino è intrecciato alla provvidenza e, per il
fatto che la provvidenza esiste, esiste il destino e sussiste a partire
da essa e in relazione a essa.
Stobeo
II 8. 45a
Dato questo stato di cose, anche il
principio umano dell’agire ha consonanza con entrambi questi principi
dell’universo [i.e. destino e provvidenza]; d’altra parte, implica
in
noi anche un principio delle azioni staccato dalla natura e sciolto
dal movimento dell’universo: per questo tale principio non è contenuto nel principio dell’universo. Infatti, poiché [non] deriva dalla
natura né dal movimento dell’universo, essendo più eminente e non essendo dato
dall’universo, è posto prima nell’ordine; ma poiché si è distribuito alcune
parti a partire da tutte le regioni del cosmo e da
tutti gli elementi e si serve di tutte queste parti,
è compreso esso
stesso anche nell’ordine del destino, contribuisce a tale ordine, ne porta a
compimento la costituzione e se
ne serve opportunamente.
E per quanto l’anima contiene in sé una
ragione pura, autosussistente e che si muove di moto del tutto proprio e svolge
la sua attività a partire da sé ed è perfetta, in tale
misura essa è sciolta da tutte le cose esterne; ma per quanto proietta anche
altre vite che inclinano verso la generazione ed è in comunione col corpo, in
tale misura è intrecciata anche con l’ordine del cosmo.
Stobeo
II 8. 46
Se poi qualcuno, introducendo la
spontaneità e la sorte, crede di eliminare l’ordine, sappia che nell’universo
non c’è niente che sia privo di ordine, episodico, senza causa, indeterminato,
fortuito, che consegua dal nulla e sia per accidente. Né dunque possono essere
eliminati l’ordine, la continuità delle cause, l’unione dei principi e il
predominio delle realtà prime che si estende attraverso il tutto.
Allora è preferibile dare la seguente
definizione: la sorte è causa degli ordini molteplici o anche di ordini di altro genere, causa che sorveglia e unifica, più
eminente della combinazione degli eventi; ora la chiamiamo dio, [ora] la
consideriamo [invece demone].
Infatti, quando cause delle combinazioni
degli eventi sono gli esseri superiori, è un dio a sorvegliarle, ma qualora lo
siano le cose naturali, un demone. Sempre, dunque, tutte le cose sono portate a
compimento grazie a una causa e tra le cose che divengono
non ce n’è proprio nessuna che sopraggiunge fuori dall’ordine.
Stobeo
II 8. 47(-48)
Allora perché le distribuzioni vengono assegnate contro il merito? O questo è del tutto
empio anche solo chiederlo? I beni infatti non
risiedono in qualcos’altro, ma nell’uomo stesso e nella scelta dell’uomo, e
anzi essi sono definiti in senso più proprio solo nella libertà di scelta,
invece i dubbi sono avanzati dai più per ignoranza. Dunque
il frutto della virtù non è altro che la virtù stessa.
Né chi è virtuoso
è sminuito dalla sorte, giacché la nobiltà d’animo lo rende superiore rispetto
a ogni cattiva sorte. Né ciò accade contro natura: la vetta dell’anima e la sua
perfezione, infatti, bastano a portare a compimento la natura migliore
dell’uomo. E certamente le cose che sembrano essere contrarie esercitano,
mantengono salda e accrescono la virtù e senza di esse non è possibile
raggiungere l’eccellenza nella virtù. E quindi questa disposizione dell’uomo
virtuoso preferisce specialmente ciò che è bello e ripone la sola perfezione
della ragione in una vita beata, mentre le altre cose non le tiene
in alcun conto e le disprezza.
Poiché quindi nell’anima consiste l’uomo,
e poiché l’anima è intellettiva e immortale, e il bello e il bene e il fine di essa sussistono nella vita divina, nessuna delle
cose mortali ha il potere di dare un qualche contributo alla vita
perfetta,
né di diminuirne la felicità. In generale, infatti, la nostra
beatitudine sussiste nella vita intellettiva, e nessuna delle cose intermedie
la fa accrescere né è possibile ridurla. Allora invano gli uomini vanno
parlando dei casi e dei favori iniqui della sorte.
Protreptico o Esortazione alla Filosofia
3.
Sentenze protrettiche pitagoriche in versi, capaci di invitarci a ogni
filosofia che sia la migliore e la più divina
C’è anche un altro tipo di esortazione
che si serve anch’esso di sentenze, ma che non pone più a mo’ di parabola le
immagini alle sentenze, giacché è già in versi e in musica, ed è genuinamente
pitagorico, e noi lo possediamo per averlo appreso tra l’altro nei Versi
aurei, di cui è giusto presentare qui poche indicazioni, e cioè le
seguenti:
Fatica su queste cose, praticale, occorre che tu le ami:
esse
ti porranno sulle tracce della divina virtù.
Attraverso queste parole Pitagora esorta
a tutto ciò che di bello c’è nelle scienze e nelle occupazioni matematiche,
ritenendo che non ci si debba risparmiare le fatiche, né trascurare alcuna
pratica di studio, stimolando all’amore e all’impegno per le cose belle, e
riducendo tutto questo alla pratica della virtù, e non semplicemente di una
qualsiasi virtù, ma di quella che ci allontana dalla natura umana, e ci conduce
alla divina essenza e alla conoscenza e all’acquisizione della divina virtù. Ma
in effetti Pitagora ci invita alla sapienza contemplativa con le
seguenti parole:
Quando tu avrai dominato queste cose,
conoscerai
la costituzione degli dei immortali e degli uomini mortali,
dove
cioè ciascuna [di tali realtà] si sviluppa [liberamente] e dove viene
trattenuta;
e tu conoscerai, per quanto
ti è consentito, che la natura è sempre la medesima,
sicché
né tu puoi sperare ciò che è insperabile, né alcunché ti rimane nascosto.
Ebbene, non esistono cose più
straordinarie di queste per coloro che sono capaci per
natura di slanciarsi nobilmente verso la filosofia contemplativa, perché la
conoscenza degli dei è perfetta virtù e sapienza e felicità, e ci rende simili
agli dei, e d’altra parte la scienza delle cose umane fornisce le virtù umane e
ci rende esperti delle nostre faccende, e serve a farci distinguere ciò che
esse producono di utile o di nocivo, e ci preservano da alcune cose e ce ne
procurano delle altre, e insomma ci fa apprendere a parole e a fatti la
costituzione che è propria della vita umana. Ma la cosa più straordinaria che viene insegnata da un sapere siffatto è il conoscere come si
sviluppi liberamente e senza intoppi ogni aspetto della nostra vita, quali
siano le sue parti migliori, e come siano trattenute e impedite al punto che
non si possa facilmente uscirne svincolandosi dai legami.
La sentenza successiva a questa è la
raccomandazione all’indagine sulla natura e a ogni forma di contemplazione del
cielo. La natura di quest’ultimo, infatti, è sempre la medesima, perché ruota
allo stesso modo secondo la stessa rivoluzione, e se
qualcuno la vuole apprendere, né potrà attendersi cose inaspettate, né potrà
ignorare che cosa stia per accadergli necessariamente.
Le sentenze successive a queste sono
raccomandazioni prodotte dalla vita che noi stessi scegliamo, ad esempio:
Tu conoscerai che gli uomini, quando sono sventurati,
subiscono
le sventure che si sono scelte.
Se infatti gli
uomini sono causa delle loro azioni, possiedono anche il potere, che deriva
proprio da loro stessi, di scegliere i beni e di fuggire i mali, perché colui
che non si serve di questo potere è indegno dei vantaggi che la natura gli dà.
Nient’altro dunque dice [questa sentenza] se non questo, cioè che noi scegliamo il nostro demone, e che siamo per noi stessi nel
ruolo della fortuna e del demone, e che ci procuriamo da noi stessi la nostra
felicità: cosa che esorta alla sola bellezza e mostra che il valore di questa è
l’essere scelta per se stessa.
Più o meno vicine a questa sono le sentenze del
tenore seguente:
Coloro che, da un lato, quando sono vicini ai beni né li
guardano né li ascoltano,
raramente,
dall’altro lato, comprendono come liberarsi dai mali.
Che i beni ci siano vicini, infatti, e
siano connaturali all’anima di tutti noi e ci appartengano come le cose più
proprie, tutto ciò è straordinariamente protrettico. E il non guardare e il non
ascoltare, da un lato, e l’essere ottenebrati dalla sensibilità, dall’altro
lato, sono uno splendido invito alla vita intellettiva,
come se fosse il solo intelletto a guardare e ascoltare ogni cosa. E la
liberazione dai mali, che pochi osservano, esorta a liberarci dal corpo e a
vivere la vita dell’anima in se stessa, che noi chiamiamo “meditazione sulla
morte”.
C’è, in successione, anche un altro
metodo protrettico che è quello che deriva dalla ripugnanza verso i malvagi.
Non è tollerabile, infatti, che simili a oggetti cilindrici
i malvagi, pur subendo infinite sventure,
si muovano di qua e di là.
La malvagità infatti
produce la violenza e l’irrazionalità e il muoversi a caso, e ora qua ora là, e
soprattutto l’illimitatezza, cose che bisogna assolutamente fuggire.
La sentenza successiva è la seguente:
Malefica compagna, infatti, colpisce di nascosto l’innata
contesa,
che non bisogna alimentare, ma
fuggire cedendole il passo.
E qui la sentenza indica la doppia natura
dell’uomo, nonché l’animale straniero che la natura ci
ha messo accanto fin dalla nascita, e che alcuni chiamano mostro policefalo,
altri una specie mortale di vita, altri ancora natura generatrice; ma qui
Pitagora ha denominata “innata” la contesa, non in quanto
ha un posto uguale a quello che hanno gli aspetti relativi alla nostra vita più
propria, ma in quanto è compagna che segue la nostra vita più nobile. È quella appunto che Pitagora prescrive di fuggire, e cioè quella
che noi dobbiamo sostituire con la nostra attività intellettiva che è uniforme
e priva di contrasti, attività intellettiva che, invece che colpire, è affine
al bene e, invece che inclinare verso la rovina, è punto di partenza per la
salvezza, e lascia fuori come straniera la realtà avventizia e quella
secondaria che ne consegue, e assume la vita primordiale e perfetta che ha da
sé e in sé ogni cosa. Per tutto ciò, dunque, è opportuno ridurre al minimo
la prima e alimentare al massimo quest’ultima; e cosi tale
esortazione alla vita secondo intelletto diviene la più efficace.
In effetti alla divina perfezione e alla migliore
collocazione nel seguire gli dei ci invitano le sentenze del tipo seguente:
Padre Zeus, tu ci renderai tutti
liberi da molti mali
se indicherai a noi tutti di quale
demone dobbiamo servirci.
Ma tu abbi coraggio, perché divino
è il genere dei mortali.
In queste parole c’è in primo luogo una raccomandazione
alla felicità divina, che è la migliore, perché è mescolata alle preghiere e
alle invocazioni degli dei e soprattutto di Zeus che è il loro re, ma in
secondo luogo una chiara indicazione del demone che ci è
concesso o dato in sorte dagli dei, e dell’ascesa per mezzo di lui di nuovo
verso gli dei. Non si potrebbe, infatti, per nient’altro risalire verso
l’aspetto più divino e più importante della propria essenza, se non per mezzo
di tale demone, di cui ci si serve come guida, e che ha il compito di rendere
autenticamente puro ogni amante degli dei. Da ciò appunto verrà una prima
cessazione dei mali che ci sono connaturali fin dalla nascita, poi ci sarà dato
di conoscere veramente la vita divina e beata, e quanto grande e di che natura
essa sia: innalzandoci assieme a essa, noi osserveremo la primigenia e divina
natura degli uomini, e stabilendoci in essa possiederemo il fine della vita più
beata che è stata proposta dagli dei agli uomini.
Alla fine, dunque, Pitagora esorta
l’anima a trasferirsi [lassù] e a vivere la sua propria
e autonoma vita, secondo la quale essa si allontana dal corpo e dalle
disposizioni naturali da esso dipendenti. Ecco che cosa dice:
Assumi come auriga l’ottima intelligenza che è quella che
viene dall’alto [dagli dei],
e se dopo avere abbandonato
il corpo giungerai al libero etere,
sarai
immortale come un dio, non più un uomo mortale.
Orbene, il fatto che il migliore
intelletto si colloca come guida al posto più elevato, questo mantiene intatta
la somiglianza dell’anima agli dei, somiglianza a cui
è rivolta anche la prima esortazione; mentre il fatto di abbandonare il corpo e
l’emigrare verso l’etere, e il trasferire la natura umana alla purezza degli
dei e lo scegliere una vita immortale al posto di una mortale, tutto questo
consente di restituirla all’essenza degli dei e alla rivoluzione in loro
compagnia, situazione che noi avevamo prima di giungere alla forma umana. È
chiaro dunque che il metodo di tali raccomandazioni ci esorta a tutti i generi
dei beni e a ogni forma di vita migliore.
I Misteri egiziani[2]
Libro
VIII, 6-8
6.
[Astrologia e destino, secondo gli Egiziani. La teoria
delle due anime negli scritti ermetici.]
Tu, dunque, dici che la maggior parte
degli Egiziani fa dipendere la nostra libera volontà dal movimento degli astri. Come la cosa stia, occorre spiegartelo
con più dettagli, partendo dalle concezioni ermetiche. L’uomo, come dicono
questi scritti, ha due anime: l’una deriva dal primo
intelligibile e partecipa anche della potenza del demiurgo, l’altra è
ingenerata in noi dal movimento dei corpi celesti, in cui entra l’anima che
contempla Dio. Stando così le cose, l’anima che dai mondi scende in noi
accompagna i movimenti di questi mondi, mentre l’anima derivata
dall’intelligibile, intelligibilmente presente in noi, è al
di sopra del ciclo del divenire e per essa noi ci liberiamo dal destino,
e saliamo agli dei intelligibili: la teurgia che si eleva al non-generato si
realizza secondo tale vita.
7.
[Non tutto è stretto nei vincoli del destino.]
Perciò, non tutto, come s’intravede nei
tuoi dubbi, è legato nei vincoli indissolubili della necessità, che noi
chiamiamo destino: poiché l’anima possiede in se stessa il principio che la fa
volgere all’intelligibile, l’allontana dagli esseri
del divenire, l’unisce con l’essere e con il divino. Né d’altra parte
attribuiamo il destino agli dei, che veneriamo con templi e con statue come
liberatori dal destino. Ma se gli dei liberano dal destino,
le nature che ultime derivano da essi, scendendo nel divenire del cosmo e nel
corpo e congiungendosi con essi, mettono in atto il destino. A ragione, dunque,
noi offriamo agli dei tutto il sacro culto, affinché essi, che soli dominano la
necessità con la persuasione intellettuale, allontanino i mali che vengono dal
destino.
Ma non tutto è stretto nei legami del
destino: c’è un altro principio dell’anima, superiore a ogni natura e a ogni
conoscenza, per cui possiamo unirci agli dei, sovrastare sull’ordine cosmico,
partecipare alla vita eterna e alle attività degli dei sopracelesti. Secondo
questo principio, siamo in grado di liberare noi stessi. Infatti, quando agisce
la parte migliore di noi e l’anima si eleva agli esseri superiori a essa,
allora l’anima si separa tutta da ciò che la trattiene nel divenire, si
allontana dal meno perfetto, prende una vita diversa in cambio della sua, si dà
a un altro ordine, abbandonando completamente il precedente.
8.
[Quali dei liberano dal destino.]
E che, dunque? È
mai possibile liberarsi tramite gli dei che s’aggirano
nel cielo e credere al tempo stesso che essi reggano il destino e incarcerino
le nostre vite con vincoli indissolubili? Forse niente impedisce anche questo, se è vero che,
contenendo gli dei in sé molte essenze e potenze, ci sono in essi innumerevoli
differenze e opposizioni. Si può tuttavia dire che in ciascuno degli dei, anche
in quelli visibili, ci sono alcuni principi intelligibili di essenza, per mezzo
dei quali viene alle anime la liberazione dal divenire cosmico. Se perciò si
lasciassero soltanto due generi di dei, pericosmici e
ipercosmici, la liberazione verrà alle anime per mezzo degli ipercosmici.
Questi problemi sono discussi con maggiore accuratezza negli scritti sugli dei:
quali dei elevano all’intelligibile e secondo quali loro
potenze, in qual modo liberano dal destino e mediante quali ieratiche
ascensioni, qual è l’ordine della natura cosmico-siderea e in qual modo
l’attività intellettuale più perfetta domina su questa; sicché non è pio
dire neppure ciò che tu hai citato da Omero che cioè gli dei sono pieghevoli.
Perché le operazioni del culto sacro sono state da tempo
antico fissate con leggi immacolate ed intellettuali, ciò che è inferiore è
affrancato da un ordine e da una potenza superiore, e dall’inferiore noi ci
distacchiamo, appena passiamo ad una sorte migliore. E niente in tutto ciò si
compie in contrasto con la legge stabilita ab origine, sicché gli dei
siano suscettibili di cambiamenti secondo una norma cultuale istituita successivamente, ma fin dalla loro prima discesa Dio mandò
giù le anime perché ritornassero di nuovo a lui. Perciò,
non avviene a causa di siffatta elevazione nessun mutamento, né stanno in
contrasto le discese e le ascese delle anime. Infatti, come nel tutto il
divenire e questo universo sono strettamente connessi
con l’essenza intellettiva, così nell’ordine delle anime con la loro cura per
il monde creato s’accorda la liberazione dal divenire.
Dall’epistola di Giamblico a Sopatro
Stobeo
I 5. 18
E del destino l’essenza risiede tutta
nella natura. Chiamo natura la causa del cosmo che non è separata da esso e
abbraccia in modo inseparato le cause totali della generazione per quanto, in
modo separato, le essenze e gli ordini superiori comprendano in sé. E dunque la
vita corporea e la ragione generatrice, le forme unite alla materia e la
materia stessa, la generazione composta da tutto ciò,
il movimento che tutto trasforma e la natura che amministra in modo ordinato le
cose che si generano, i principi della natura e i suoi fini e le sue
operazioni, e anche i legami reciproci di queste cose e i processi dall’inizio
alla fine, tutto ciò costituisce il destino.
Tratto da: https://letteraespirito.wordpress.com
[1] Estratti da varie opere: Dall’epistola di
Giamblico a Macedonio (Stobeo I 5.17, II 8.43-48; cfr. Giamblico, I
frammenti dalle epistole, a cura di Daniela P. Taormina e Rosa Maria
Piccione, Bibliopolis, Napoli, 2010), Protreptico o Esortazione alla
Filosofia (Capitolo 3; cfr. Giamblico, Summa pitagorica, a cura di
Francesco Romano, Bompiani, Milano, 2012), I Misteri egiziani (Libro
VIII, 6-8; cfr. Giamblico, I misteri egiziani, a cura di Angelo R.
Sodano, Rusconi, Milano, 1984), Dall’epistola di Giamblico a Sopatro
(Stobeo I 5.18; cfr. Giamblico, I frammenti dalle epistole, ibid.).
[2] Trattasi della Risposta del maestro Abammone alla lettera
di Porfirio ad Anebo e soluzione delle questioni poste
in essa. I singoli capitoli sono preceduti da un breve riassunto del loro
contenuto. Nel corpo del testo sono in corsivo le citazioni, letterali o
parafrasate, della Lettera ad Anebo di Porfirio.
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