Introduzione generale allo studio delle dottrine indù
I. Considerazioni preliminari
3. Il pregiudizio classico
Abbiamo già indicato quel che intendiamo per «pregiudizio classico»: è propriamente il partito preso di attribuire ai Greci e ai Romani l’origine di ogni civiltà. In fondo non è possibile trovare ad esso molte altre ragioni che questa: gli occidentali, poiché la loro civiltà non risale di fatto oltre l’epoca greco-romana, e da questa deriva quasi interamente, sono portati a immaginare che la stessa cosa si sia verificata dappertutto, e stentano a concepire l’esistenza di civiltà completamente diverse e di origine molto più antica; si potrebbe dire che, intellettualmente, essi sono incapaci di andare oltre il Mediterraneo.
D’altronde l’abitudine di parlare «della civiltà», in modo assoluto, contribuisce in larga misura a mantenere questo pregiudizio: la «civiltà», così intesa e supposta unica, è qualcosa che non è mai esistito; in realtà ci sono sempre state e ci sono ancora «delle civiltà». La civiltà occidentale, con le sue caratteristiche specifiche, è semplicemente una civiltà tra le altre, e ciò che pomposamente viene chiamato «l’evoluzione della civiltà» è solo lo sviluppo di questa civiltà particolare a partire dalle sue origini relativamente recenti, sviluppo che è d’altronde ben lontano dall’esser stato sempre «progressivo», in modo regolare e sotto tutti gli aspetti: quel che abbiamo detto in precedenza sul preteso Rinascimento e sulle sue conseguenze potrebbe servire qui come esempio nettissimo di una regressione intellettuale che per di più non ha fatto che aggravarsi fino ai nostri giorni.
Per chiunque voglia esaminare imparzialmente le cose, è manifesto che i Greci hanno adottato quasi tutto degli orientali, almeno dal punto di vista intellettuale, come essi stessi hanno ammesso abbastanza sovente; per quanto falsi siano potuti essere, su questo almeno non hanno mentito, e del resto non ne avrebbero avuto alcun interesse. La loro unica originalità, dicevamo prima, risiede nella maniera in cui hanno esposto le cose, secondo una capacità di adattamento che non può essere loro contestata, ma che trova necessariamente un limite nella misura della loro comprensione; si tratta perciò di una originalità di ordine puramente dialettico. Infatti i modi di ragionamento, che derivano dai modi generali del pensiero e servono a formularli, sono diversi nei Greci e negli orientali; bisogna sempre tenerlo presente quando si segnalano certe analogie, pur reali, come ad esempio quella del sillogismo greco con ciò che è stato definito più o meno esattamente il sillogismo indù. E nemmeno si può dire che il ragionamento greco si distingua per un rigore particolare; più rigoroso degli altri può sembrare soltanto a coloro che hanno nei suoi confronti una familiarità esclusiva, e tale apparenza proviene unicamente dal fatto che esso si confina sempre in un campo più ristretto, più limitato e per ciò stesso meglio definito. Ciò che invece è realmente caratteristico dei Greci, ma non depone molto a loro favore, è una certa sottigliezza dialettica di cui i dialoghi di Platone offrono numerosi esempi, e dove si vede il bisogno di esaminare indefinitamente una stessa questione sotto tutti gli aspetti, considerandola nei più minuti particolari, fino a giungere a una conclusione più o meno insignificante; c’è motivo di credere che i moderni, in Occidente, non siano i primi a soffrire di «miopia intellettuale».
Dopotutto non è forse il caso di rimproverare oltre misura i Greci per avere ristretto, così come hanno fatto, il campo del pensiero umano; da un lato questa era una conseguenza inevitabile della loro costituzione mentale, della quale non possono essere considerati responsabili, e dall’altro essi resero comunque accessibili a una parte dell’umanità delle conoscenze che altrimenti rischiavano di rimanerle completamente estranee. È facile rendersene conto osservando i risultati a cui giungono gli occidentali quando affrontano direttamente certe concezioni orientali e quando cercano di interpretarle conformemente alla loro mentalità: tutto quel che non possono ricondurre a forme «classiche», sfugge loro totalmente, e tutto quel che ad esse bene o male riconducono è per ciò stesso deformato, al punto da diventare irriconoscibile.
Il cosiddetto «miracolo greco», come viene chiamato dai suoi ammiratori entusiastici, si riduce insomma a ben poca cosa, o per lo meno, là dove implica un cambiamento profondo, tale cambiamento è un decadimento: esso si riduce all’individualizzazione delle concezioni, alla sostituzione del razionale al puro intellettuale, del punto di vista scientifico e filosofico al punto di vista metafisico. D’altra parte poco importa che i Greci abbiano saputo. dare meglio di altri un carattere pratico a certe conoscenze, o che ne abbiano tratto conseguenze a carattere pratico, mentre i loro predecessori non lo avevano fatto; è anzi lecito dire che in tal modo essi hanno attribuito alla conoscenza un fine meno puro e disinteressato, poiché per la loro forma mentis non riuscivano a mantenersi nella sfera dei principi se non con difficoltà e in via eccezionale. Questa tendenza «pratica», nel senso più ordinario del termine, è una di quelle che si sarebbero poi accentuate nello sviluppo della civiltà occidentale, ed è visibilmente predominante nell’epoca moderna; a questo riguardo fa eccezione solo il Medioevo, assai più rivolto alla speculazione pura.
Generalmente parlando, gli occidentali sono per natura ben poco metafisici, il confronto tra le loro lingue e quelle degli orientali basterebbe a fornirne una prova, se solo i filologi fossero capaci di cogliere veramente lo spirito delle lingue che studiano. Gli orientali invece hanno una tendenza spiccatissima a disinteressarsi delle applicazioni, e ciò è facilmente comprensibile, perché chiunque si dedichi essenzialmente alla conoscenza dei principi universali non può avere che un interesse mediocre per le scienze specifiche, e può tutt’al più accordare loro una curiosità passeggera, in ogni caso insufficiente a provocare numerose scoperte in tale ordine d’idee. Quando si sa, con certezza in qualche modo matematica e perfino più che matematica, che le cose non possono essere diverse da quel che sono, non si può non disdegnare l’esperienza, giacché la constatazione di un fatto particolare, qualunque esso sia, non prova mai nulla di più né di diverso che l’esistenza pura e semplice del fatto stesso; al massimo una constatazione simile può qualche volta servire a illustrare una teoria, a mo’ di esempio, ma niente affatto a provarla, e credere il contrario è un’illusione grave. In queste condizioni non è proprio il caso di studiare le scienze sperimentali per se stesse, e dal punto di vista metafisico esse hanno, al pari dell’oggetto a cui si applicano, solo un valore puramente accidentale e contingente; molto spesso dunque si tralascia anche di isolare le leggi particolari, che tuttavia si potrebbero trarre dai principi come applicazione specifica a questo o quel campo definito, se si giudicasse che ne vale la pena. Si può allora capire tutto quello che allontana il «sapere» orientale dalla «ricerca» occidentale; ma ci si può ancora stupire che la ricerca sia arrivata a costituire un fine in sé per gli occidentali moderni, indipendentemente dai suoi possibili risultati.
C’è un altro fatto che è essenziale notare a questo punto, e che si presenta d’altronde come un corollario di quanto precede: nessuno, senza eccezione, è mai stato più lontano degli orientali dall’avere, come l’antichità greco-romana, il culto della natura, poiché la natura non è mai stata per essi che il mondo delle apparenze; senza dubbio anche tali apparenze hanno una realtà, ma è una realtà transitoria e non permanente, contingente e non universale. Così il «naturalismo», in tutte le sue forme, costituisce, per uomini che potremmo dire metafisici per temperamento, solo una deviazione, se non addirittura una vera e propria mostruosità intellettuale.
Bisogna pur dire che i Greci, nonostante la loro tendenza al «naturalismo», non si sono mai spinti fino a dare alla sperimentazione l’importanza eccessiva che le attribuiscono i moderni; in tutta l’antichità, anche occidentale, si ritrova un certo disprezzo per l’esperienza, che sarebbe forse difficile spiegare se non vedendovi una traccia dell’influenza orientale, perché esso aveva parzialmente perduto la sua ragion d’essere per i Greci, le cui preoccupazioni non erano granché metafisiche e per i quali le considerazioni di carattere estetico soppiantavano molto spesso le ragioni più profonde che sfuggivano loro. Le considerazioni che precedono sono quelle che più abitualmente vengono formulate per spiegare il fatto in questione; ma noi pensiamo che si tratti, per lo meno all’origine, di qualcos’altro. Ciò non toglie, in ogni caso, che presso i Greci si trovi già in un certo senso il punto di partenza delle scienze sperimentali quali sono intese dai moderni, scienze nelle quali la tendenza «pratica» si unisce alla tendenza «naturalistica», dal momento che entrambe possono raggiungere il loro pieno sviluppo solo a detrimento del pensiero puro e della conoscenza disinteressata. Così, il fatto che gli orientali non si siano mai dedicati a certe scienze particolari non è in alcun modo un segno di inferiorità, ed anzi intellettualmente è l’esatto contrario; si tratta insomma di una normale conseguenza del fatto che la loro attività si è sempre sviluppata in tutt’altra direzione e verso un fine completamente diverso. Le molteplici direzioni nelle quali può esercitarsi l’attività mentale dell’uomo imprimono a ogni civiltà il suo carattere proprio, determinando la linea fondamentale del suo sviluppo; e nello stesso tempo questo dà l’illusione del progresso a chi, conoscendo una sola civiltà, vede esclusivamente la linea in cui essa si sviluppa, credendola la sola possibile, e non si rende conto che lo sviluppo in un aspetto può essere largamente compensato da un regresso in altri.
Se consideriamo l’ordine intellettuale, il solo essenziale per le civiltà orientali, ci sono almeno due ragioni perché i Greci abbiano, a questo proposito, adottato tutto da esse, ossia tutto quel che c’è di realmente valido nelle loro concezioni; una delle ragioni, quella su cui abbiamo finora insistito di più, deriva dalla relativa inettitudine della mentalità greca al riguardo; l’altra è che la civiltà ellenica è molto più recente delle principali civiltà orientali. Ciò è particolarmente vero per l’India, anche se, là dove esiste qualche rapporto tra le due civiltà, taluni spingono il «pregiudizio classico» fino ad affermare a priori che questa è una prova di un’influenza greca. Eppure, se una tale influenza ha davvero agito nella civiltà indù, non ha potuto essere che molto tardiva, e ha dovuto necessariamente rimanere del tutto superficiale. Potremmo ammettere per esempio che ci sia stata una influenza di ordine artistico, benché anche da questo punto di vista particolare le concezioni degli Indù siano sempre rimaste in tutte le epoche estremamente diverse da quelle dei Greci; d’altronde non si ritrovano tracce sicure di un’influenza di questo genere se non in una certa parte, molto ristretta sia nello spazio sia nel tempo, della civiltà buddhista, che non può essere confusa con la civiltà indù propriamente detta. Ma questo ci obbliga a spendere almeno qualche parola su ciò che potevano essere nell’antichità le relazioni tra popoli diversi e più o meno lontani, poi sulle difficoltà che sollevano in linea generale le questioni di cronologia, così importanti per i fautori intransigenti del troppo famoso «metodo storico».
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