Il concetto di creazione perpetua nella
mistica islamica e nel buddismo zen
l. In questo
articolo[1]
ci proponiamo di analizzare la struttura del concetto di «creazione perpetua»
che nel sufismo trae spunto dall'espressione coranica khalq jadîd, letteralmente «nuova creazione», che si trova nella
sura L, 15.
Bal
hum fî labsin min khalqin jadîd.
No. Ciononostante, dubitano di una nuova creazione!
Non c'è alcun bisogno di dire che, in
questo contesto, «nuova creazione» si riferisce alla
resurrezione del corpo nel Giorno del Giudizio. Gli scettici «dubitano» perché
stentano a credere che, dopo essere divenuti ossa e cenere dopo, la morte, possano essere ricreati nella forma umana originale. E
questo in breve il senso letterale, o essoterico (zâhirî), di khalq jadîd nel contesto
coranico.
Nell'‘Irfan (che corrisponde
alla filosofia mistica dell'Islam), si riscontra tuttavia una
interpretazione completamente diversa di questa espressione: la
cosiddetta interpretazione «interna» o «esoterica» (bâtinî), alla luce
della quale «nuova creazione» assume un significato del tutto nuovo,
trasformandosi in un concetto completamente diverso, che denota un aspetto
importante dell'esperienza mistica o della coscienza mistica. E questa
particolare accezione irfanica di «nuova creazione»
che analizzeremo. Ci si potrà chiaramente rendere conto di come sarebbe più
appropriato tradurre l'espressione coranica khalq
jadîd, nel tipo di contesto esoterico che ci
riguarda, con «creazione sempre nuova» piuttosto che con «nuova creazione» o
con «creazione perpetua».
Tuttavia, piuttosto che condurre sin
dall'inizio l'analisi della nozione di «creazione perpetua», quale la intendono
i filosofi i mistici dell'Islam, analizzeremo in un
primo tempo una nozione simile, un caso rigorosamente identico che si può
riscontrare in Giappone nel Buddismo zen, in particolare nel pensiero
metafisico di uno dei suoi esponenti più rappresentativi, il Maestro Dogen.
Seguiremo un procedimento indiretto, non solo facendo un esposizione
di filosofia comparata, ma cercando anche e soprattutto di illustrare con un
esempio concreto (è poco importante conoscerne la religione di appartenenza) il
carattere universale della nozione di «creazione perpetua»; intendiamo allo
stesso tempo mostrare che, in un contesto simile, la «creazione perpetua»,
lungi dall'essere il prodotto di un procedimento filosofico o di
un'elaborazione intellettuale, è un modo di intendere ben vivo, una nozione di
esperienza che rispecchia in modo diretto uno degli aspetti più importanti
della coscienza mistica.
2. Dogen (1200-1253), maestro
rappresentativo dello zen giapponese, detiene una posizione eminente nella
storia del Buddismo zen. Maestro zen dell'epoca Kamakura (1185-1333) è noto sia
per l'intensità della sua esperienza spirituale sia per le sue notevoli doti,
senza precedenti, in filosofia, e in particolare nei suoi scritti in prosa
giapponese. Contrariamente alla maggioranza dei maestri zen cinesi o
giapponesi, che sono decisamente contrari a qualsiasi
forma di pensiero, a maggior ragione di pensiero filosofico, Dogen audacemente
esprime quel che ha elaborato nello stato di pura meditazione, sotto forma di
pensiero sviluppato; di modo che, leggendo le sue opere, si ripercorre la sua
esperienza zen che si svolge in forma di discorso interiore, benché la sua
«logica» o il suo sistema di pensiero sia tanto peculiare da dar adito ad
alcune perplessità circa la possibilità di denominarla «filosofia» nel senso
comune del termine. Ad ogni modo, le conclusioni di questa forma di pensiero
particolare ci sono giunte attraverso un'opera voluminosa intitolata Shôbô Genzô (La Quintessenza della Visione Perfetta della Realtà).
Accingiamoci adesso ad analizzare un noto
brano di questo libro, in cui Dogen spiega a suo modo un'idea che può corrispondere
a quella di «creazione perpetua» nel misticismo
islamico. Per dare un'esatta idea del suo stile, proponiamo dapprima una
traduzione letterale del brano, per spiegarne successivamente
il significato.
Il legno da bruciare si
trasforma in cenere. La cenere non si ritrasforma mai in legno da bruciare. Non
si deve tuttavia giungere alla conclusione affrettata,
sulla scorta di questa osservazione, che le ceneri vengono dopo e la legna da
ardere prima.
Sappi che la legna da ardere
rimane nello stato proprio al suo dharma [il suo stato antologico] che è quello
di «essere legna da ardere». Benché abbia un «prima» e
un «dopo», esso è tagliato tanto dal «prima» quanto dal «dopo».
Allo stesso modo, le ceneri rimangono nello stato proprio alloro dharma che è di «essere-ceneri», e in
questo stato, tuttavia, esse hanno un «prima» e un «dopo»[2].
Questo testo può essere inteso nel
seguente modo. Immaginate un ceppo che bruci e divenga cenere. Osservando
quanto avviene in un caso simile, la maggior parte delle persone è indotta a
credere che quanto era all'inizio ceppo sia diventato
cenere (si sia cioè trasformato in cenere). In altri termini, una certa
sostanza continua ad esistere attraverso l'intero processo e ad
un certo momento cambia forma per diventare qualcosa d'altro. Dogen insiste sul
fatto che questa è un'idea falsa, che si basa sull'apparenza illusoria della
realtà. Il legno non diventa mai cenere. È solo apparenza. Il «fatto-di-essere-legno» è per il legno uno stato antologico
irriducibile. Il legno è legno e nient'altro.
Tuttavia, nel nostro esempio, persino nei momenti in cui bruciando il ceppo era
ancora legno, esso non era lo stesso pezzo di legno che continuava ad esistere
per un certo lasso di tempo prima di trasformarsi in
cenere. Infatti, persino nello stato proprio al suo dharma che è di-essere-legno, esso aveva
in ogni istante un «prima» e un «dopo». Ciò significa che, persino nelle
sembianze di ceppo, esisteva in realtà una successione di forme momentanee
di ceppi, ognuna delle quali nata allistante per morire subito dopo.
Tutto ciò sembra indicare chiaramente
che, dal punto di vista di Dogen, l'opinione comune in base alla quale il
legno, per esempio, è una sostanza, una entità
ontologica, fino al momento in cui non divenga qualcosa d’altro, è mera
illusione. La frase inziale «il ceppo si trasforma in
cenere» si riferisce soltanto all’apparenza illusoria delle cose quali può
vederle l'uomo della strada. Anche il seguito «il
ceppo rimane allo stato ontologico proprio al fatto-di-essere-ceppo» può
considerarsi una specie di concessione fatta al senso comune. Puo trattarsi,
nella migliore delle ipotesi, di un riferimento al modo in cui le cose vengono normalmente designate. Infatti
in ogni istante quel che viene chiamato (e considerato) ceppo è qualcosa di
assolutamente nuovo, che non ha niente a che vedere con quel che era l’istante
prrma e quel che sarà l'istante dopo.
Hakuun Yasutani maestro zen
contemporaneo, commentando questo brano fa la seguente osservazione[3]
a proposito della citazione di Dogen: «il ceppo rimane nello stato ontologico proprio
al fatto-di-essere-ceppo, e, benche rimanga
in questo stato, esso ha un prima e
un dopo. Pur avendo prima e un dopo, esso è tagliato dal prima e dal dopo». Yasutaru dice che non bisogna prendere queste parole alla
lettera, in quanto Dogen espone qui il suo pensiero
nella forma che corrisponde al modo comune di pensare della gente. Quel che
vuol dire esattamente, prosegue Yasutani, è che il «ceppo non è un ceppo; non
esiste proprio alcun momento in cui il ceppo rimane nello stato antologico di ceppo;
esso non ha né prima né dopo; è tagliato sia dal
prima sia dal dopo».
Ciò dipende dal fatto che il ceppo è in
sé quasi non-esistente perché
non ha di per se stesso natura propria e sussistente.
Si potrebbe anche dire che ha una realtà
prettamente momentanea. Ad ogni modo, il suo statuto ontologico è tanto precario da non poter durare
neanche due istanti. Ogni cosa è
in ogni istante «tagliata dal prima e dal dopo». Ciò
significa che ogni cosa, presa come tutto ontologico e
considerata come entità esistente in modo continuo, non è in realtà
altro se non una successione di esistenze momentanee, o una sene di istantl
ontologicl. Perciò, ogni cosa nasce per dissolversi immediatamente, e poi
rinascere. Il mondo rinasce in ogni istante.
Considerata come tesi filosofica, la
nozione di istantaneità dell'esistenza sembra alquanto
un luogo comune, soprattutto nei buddismo dove, sin dagli inizi, il carattere
«effimero» di ogni cosa è una nozione fondamentale. Quel che rende particolarmente
importante, nell'ottica attuale, questa citazione, e il suo libro ne contiene
parecchie altre analoghe, è il fatto che Dogen
descrive in questa circostanza un'esperienza realmente vista e vissuta. Si
tratta della testimonianza personale di Dogen, non di una tesi filosofica.
Lungi dall'essere il risultato di un procedimento razionale simile a quello
dell'atomismo scolastico, quel che egli dice scaturisce in modo evidente dalla
profondità del proprio risveglio spirituale. Quel che cerca di esprimere è la
visione della realtà che gli si è presentata nello stato di contemplazione. Per
questo motivo l’«istantaneità» dell'esistenza non è per lui «effimerità»
in senso puramente negativo: non è qualcosa
di doloroso e di tragico; al contrario, secondo Dogen, l’effimerità è un
qualcosa di positivo, di rassicurante e persino di vivificante, poiché è la
vera immagine della realtà dell'esistenza. Analizzeremo meglio in seguito
questo concetto.
In un altro brano del libro[4]
Dôgen parla del «cammino della montagna». E un
riferimento alla celebre frase del Maestro Kai (1042-1117) sulla montagna di
Tai Yô: «La montagna verde è costantemente in
cammino». La «montagna» simboleggia in questo caso l'immobilità, in quanto le montagne hanno per la gente comune l'aspetto di
un qualcosa di stabile, di ben consolidato e di immobile per l'eternità. Alla
luce di quel che abbiamo in precedenza visto, tuttavia, la «montagna verde» non
è del tutto immobile, al contrario si muove costantemente, nel senso che «appare e scompare in ogni istante». È per l'appunto in
questo processo incessante di apparizione-scomparsa che Dogen rinviene l'attualizzazione hic e nunc della
dimensione temporale (o sovratemporale) della realtà. Dogen dice:
La montagna è completa e
perfetta nel suo stato di montagna. Di conseguenza essa è in pace in modo
atemporale (come montagna) e in cammino in modo costante. Non si dovrebbe
dubitare del cammino della montagna, in quanto il suo
cammino è essenzialmente lo stesso dell'uomo, poco importa se i suoi movimenti
possono esteriormente sembrare diversi da quelli delle gambe dell'uomo.
E per il fatto di camminare
ininterrottamente che la montagna continua a rimanere montagna.
Infatti il passo della montagna è più rapido e vivace
di una raffica di vento impetuoso. Ma quelli che
vivono nella montagna non se ne rendono conto. «Nella montagna» si riferisce alla moltitudine di esseri viventi nd mondo.
Neanche coloro
che vivono al di fuori della montagna se ne rendono conto. Ma è senz'altro scontato che quanti non hanno occhi per
vedere (la realtà della) montagna siano inconsapevoli della Verità. In breve
non La conoscono, non La vedono, non La ascoltano.
L'espressione «l'acqua
scorre» non stupisce nessuno: tutti ritengono normale che l'acqua scorra. Ma, dice Dôgen, la gente comune non conosce in realtà il
vero senso dell’espressione «l’acqua scorre». Il fatto di essere turbati
dall'ascoltare qualcuno dire «la montagna scorre» rivela di primo acchito la
loro ignoranza, perché «Una montagna che scorre» e «l'acqua che scorre» fanno capo esattamente al medesimo aspetto della realtà.
Dôgen cita qui la Raccolta di Proverbi ed
Eventi del Maestro Un Mon (in cinese Yün Men, 864-949).
Un giorno un monaco chiese a Un Mon: «Qual è il luogo di nascita ultimo di tutti i Budda?». Un Mon
rispose: «La montagna dell'Est scorre». La domanda in
questione era: «Come vede la Realtà ultima?». Un Mon
diede una risposta in apparenza non pertinente nell'indicare lo «scorrimento della montagna». Avrebbe potuto dire «la
montagna non scorre» e nello stesso e identico modo avrebbe potuto dire «l'acqua non scorre». Perché in realtà Dôgen afferma che la
realtà ultima, assoluta della montagna, è quella, per un certo verso, di
scorrere (se si considera il fatto-di-essere-montagna attraverso una serie di istanti antologici che si succedono) e, per altro verso,
di non scorrere (se si considera l'attualizzazione dell'eternità nella
successione stessa degli istanti ontologici).
Dôgen si basa, per sviluppare tale tesi,
su una sua idea originale del rapporto tra tempo ed esistenza. Per lui,
l'esistenza è solo un lampo, che dura un istante. Come si è visto in
precedenza, tutto quel che esiste si rinnova in ogni
istante. In ogni istante l'esistenza è completamente nuova; essa è «tagliata dal prima e dal dopo».
Per capire esattamente quel che dice
Dôgen a tal proposito, è fondamentale non dimenticare che per lui il tempo si identifica completamente con l'esistenza[5].
Egli considera il tempo non come una specie di luogo nel
quale le cose esistono e gli avvenimenti accadono, né come una forma di
conoscenza innata nell'uomo: per lui, il tempo è l'esistenza stessa. E dobbiamo
ricordarci che il tempo è essenzialmente l'istante. Dire «tale cosa esiste in tal istante» è come dire «questo istante»! In altre parole, la
prima proposizione è una tautologia, perché in «questo istante» è inerente il momento ontologico, l'esistenza momentanea di questa cosa
particolare. L'annullamento di «questo istante» corrisponde all'annullamento di «questa cosa» e viceversa.
D'altro canto, tuttavia, in ognuno di
questi istanti ontologici, Dôgen rinviene
l'attualizzazione di quel che lui chiama ni-kon,
la cui traduzione più fedele sarebbe «Presente intemporale» o Eternità quale si
cristallizza nell’«istante». Il tempo è qui l’attualizzazione dell'Intemporalità.
Il vantaggio di questo punto di vista è di dimostrare che tutte le diverse
cose-istanti individuate posseggono un'unità
fondamentale, nel senso che vengono tutte simultaneamente viste in una
dimensione metafisica, al di là del tempo. Dôgen spiega ciò nei seguenti
termini[6]: supponiamo di aver visto ieri qualcosa (poniamo x), e supponiamo di vedere oggi qualcosa
d'altro (poniamo y). Poiché «ieri» e
«oggi» sono distinti e differenziati l'uno dall'altro
dal punto di vista temporale, x che
ho visto ieri non può essere la stessa cosa dell'y che vedo oggi; x non
esiste più, mentre y è alla mia
portata. In compenso, dal punto di vista del «Presente intemporale» la
distinzione tra «ieri» ed «oggi» si annulla
completamente e, per suo tramite, anche quella tra x ed y. Dôgen dice: «Mi addentro in una regione montuosa, raggiungo la vetta
della montagna più alta e di là contemplo le migliaia di sommità che si
dispiegano». Le sommità si possono ben vedere, distintamente, tutte quante
insieme. Posso allo stesso tempo abbracciare con lo sguardo la distesa
illimitata delle catene montuose. La montagna particolare (x) che vedevo ieri è là, proprio come la montagna (y) che vedo oggi. In questo caso non c'è
differenza tra «ieri» ed «oggi». La montagna (x) che vedevo ieri rimane sempre nello
stesso posto, nel «Presente intemporale», perché in
questa dimensione nulla scompare.
Dôgen prosegue col dire che il pino ha il tempo (le successioni di istanti)
per il fatto-di-essere-pino. Ma esso è anche il mio «Presente intemporale»[7].
Il bambù ha il tempo per il fatto-di-essere-bambù ed
esso è diverso dal tempo del pino, tuttavia esso è anche il mio «Presente
intemporale»; il tempo del pino è identico al tempo del bambù, e ciò significa
che il pino, il bambù e tutte le altre cose sono simultaneamente presenti
nell'Eterno Presente.
Perciò, conclude
Dôgen, se si considera il mondo dal punto di vista temporale, esso appare come
una successione interminabile di tempi brevi o lunghi, ma, è questa la cosa più
importante, in ogni unità di tempo, sia essa lunga (come l'ora, il giorno, il
mese, l'anno, ecc.) o breve, (come il momento, l'istante, la frazione di
secondo, ecc.), sono presenti tutte le altre unità di tempo. In altri termini
ogni unità di tempo particolare è un'attualizzazione del tempo
nella sua globalità. E siccome, come si è chiaramente dimostrato, un'unità di
tempo, per Dôgen, si identifica in tutto e per tutto
in un'unità d'esistenza, l'affermazione precedente non significa altro che ogni
cosa particolare è, rispetto ad ogni momento antologico successivo, una
attualizzazione del Tutto.
Riassumiano adesso il
pensiero di Dôgen, nella misura in cui incide sul nostro argomento, «la creazione perpetua». Il tempo è l'essere. Un'unità di
tempo è quindi un'unità di esistenza. La più ridotta
frazione di tempo, l'istante, deve essere considerata istante
ontologico. Tutto quel che si chiama cosa è soltanto una serie di questi
istanti ontologici. In questo senso, niente permane, neanche per due istanti.
In ogni istante la cosa è nuova. Una cosa in tale istante per esempio, è
completamente «disgiunta» da quel che era l'istante
precedente e da quel che sarà l'istante successivo.
Esiste, d'altra parte, una
dimensione di essere-tempo completamente diversa, che viene
sperimentata nella pratica di meditazione zen in quanto mio «Presente
temporale». In questa dimensione si vedono simultaneamente tutte le cose,
giacché tutte le differenze che possono esistere in termini temporali tra di
esse sono completamente scomparse: ogni istante ontologico particolare è infatti in questo caso una attualizzazione degli altri.
Inteso in questo modo, il concetto di
tempo-atemporalità di Dôgen ha un suo corrispettivo nell'Islam nel pensiero di ‘Ayn
al-Qudât al-Hamadânî, che ci accingiamo ad esporre.
3. Abbandoniamo
quindi il Buddismo zen, per rivolgere l’attenzione alla filosofia mistica
dell'Islam (‘irfân)[8]
rappresentata in un primo tempo a ‘Ayn al-Qudât
al-Hamadânî (1098-1131). Questo famosissimo pensatore svolse infatti
un importantissimo ruolo nella prima fase del processo di formazione della
filosofia islamica. Per molti versi può essere considerato il diretto precursore
del Magister Maximus, Ibn ‘Arabî (1165-1240). Bisogna ricordare che egli era un
discepolo diretto del grande mistico Ahmad al-Gazâlî e discepolo indrretto del
fratello di Ahmad, il celebre Muhammad al-Gazâlî (nel Medioevo noto in
Occidente col nome di Algazel). Grazie ad uno studio assiduo dell'opera di
quest'ultimo, acquisisce una formazione intellettuale, filosofica e teologica
delle più raffinate, oltre ad una iniziazione alla
mistica. Il primo di questi maestri lo guida nel cuore stesso della mistica
islamica e del suo insegnamento esoterico. Questa riuscita combinazione di una
rigida formazione nel campo del pensiero razionale e di una disciplina del
tutto personale nella pratica mistica, rende Hamadânî un pensatore decisamente originale, che può essere considerato uno dei
più importanti precursori della lunga tradizione iraniana della filosofia
'irfânica.
Nel cercare di spiegare la nozione di
«creazione perpetua» in Hamadânî, dobbiamo trarre spunto dalla distinzione che
egli fa tra «campo (o dimensione) della ragione»[9]
(tawr al-'aql) e «campo (o dimensione) al di là della ragione» (al-tawr
warâ'a al- 'aql). Questa distinzione è infatti
il principio più elevato e più importante del suo pensiero, quello che sottende la sua architettura d'insieme.
Qualsiasi argomento si affronti con Hamadânî, siamo sempre e necessariamente
ricondotti a questo principio. Alcuni concetti fondamentali di Hamadânî non si
possono spiegare in modo esauriente senza ricorrere ad
una distinzione tra queste due dimensioni[10].
Per cominciare bisogna osservare che
ognuno di questi due campi deve essere inteso in quanto:
a) stato di coscienza soggettivo
b) stato di realtà oggettiva, malgrado Hamadânî
non faccia distinzione, quando scrive, tra punto a) e punto b) e che ricorra ai
termini di «campo della ragione» e di «campo al di là della
ragione» senza specificare il punto a cui si riferisce. In un certo senso, ciò
si giustifica pienamente, perché in qualità di mistico non scorge alcuna
differenza reale tra soggetto e oggetto, e perché, in un mondo in cui uno stato
di coscienza soggettivo è in sé un fatto che oggettivamente esiste, non si può
rinvenire contrasto tra epistemologia e metafisica.
Il «campo della ragione» in quanto stato interiore del soggetto corrisponde alla
funzione analitica e razionale che la ragione esplica a partire dall'esperienza
dei sensi. Esso corrisponde oggettivamente alla dimensione della realtà fenomenale
in cui la ragione svolge il proprio ruolo naturale.
Quanto al «campo al di
là della ragione», che, come si può immaginare, occupa una posizione
chiave nel sistema di Hamadânî inteso nell'accezione a) (e in questo senso
Hamadânî lo chiama spesso nûr fi al-bâtin,
«luce interiore»), esso è connesso con lo strato più profondo della coscienza
nel quale la mente umana, perdendo il suo carattere puramente «umano», entra
direttamente in contatto con l'ordine «divino» delle cose, cioè con la
dimensione transrazionale e sovrasensibile della realtà, che svela se stessa
soltanto alla coscienza di un mistico in meditazione profonda. Evidentemente,
la distinzione tra i due «campi» non contiene in sé
alcun tratto originale o caratteristico, direi che è piuttosto un luogo comune,
forse persino troppo comune per parlarne. Infatti la
stessa idea di un mistico che si rintana nel campo della ragione e della
sensazione è assurda. Quel che rende la distinzione veramente originale è, nel
caso di Hamadânî, il fatto che tutti i grandi concetti della teologia islamica
sono con ordine e logica oggetto di una duplice interpretazione, attraverso la
distinzione operata tra «campo della ragione» e «campo al di
là della ragione». In tal modo una sola ed
unica idea appare solitamente in due forme completamente diverse nel pensiero
di Hamadânî, in funzione dei due punti di riferimento.
Va da sé che la «creazione»
(khalq) è uno dei concetti
fondamentali del pensiero islamico. È comunque importante notare che la
«creazione» nel sistema di Hamadânî è un argomento che rientra nel «campo della ragione». L'idea di creazione temporale del
mondo da parte di Dio quale la intendono sia i credenti che
i teologi, secondo l'ottica di Hamadânî è destinata a perdere consistenza «nel
campo al di là della ragione». Perciò Hamadânî cerca una nozione più efficace
che faccia da base sia per la comprensione teologica che
per la comprensione autenticamente 'irfânica della «creazione». Egli la trova
nella nozione dell'Assoluto (o Dio) che è la Fonte ultima dell'esistenza.
Origine ultima donde tutto quel che esiste trae
esistenza, da lui denominata yanbû'-e
wujûd, «fonte dell'esistenza»[11].
Il fatto che l'Assoluto sia Fonte ultima
di tutto quel che esiste significa, per quel che riguarda il «campo
della ragione», che il mondo è stato prodotto dall'atto divino della creazione.
Il concetto di creazione implica ovviamente il concetto
di tempo. Il mondo creato, cioè il mondo empirico,
fenomenale, sussiste essenzialmente nella dimensione temporale. In questa
sfera, tutto quel che accade si produce nel tempo,
tutto ha un inizio ed una fine ontologici.
Lo stesso yanbû'-e wujûd, cioè la stessa idea che l'Assoluto è Fonte ultima
di tutto quel che esiste, appare, nel «campo al di là della
ragione», in modo del tutto diverso rispetto all'idea di «creazione»
normalmente intesa.
Ciò dipende dal fatto che il «campo al di là della ragione» è un settore metafisica dove non
esiste e non può esistere alcuna sequenza temporale tra le cose, ove ogni cosa
viene privata della propria natura temporale. E il settore
dell'ordine sovratemporale, atemporale delle cose, distesa di esistenza
illimitata e non sottomessa al tempo. In tale sfera non c'è spazio per
una qualsiasi idea di creazione che implicherebbe concetto di tempo. Né c'è spazio,
in tale ambito, per il waqt mawhûm,
il «tempo immaginario» di cui parlano filosofi e
teologi a proposito dello stato sostanzialmente intemporale delle cose prima che Dio creasse il mondo. In
realtà, nella pratica, adoperiamo spesso espressioni del tipo «prima della
creazione del mondo» e «dopo la creazione del mondo». Hamadânî
ritiene che tali espressioni siano prive di senso nella «dimensione al di là della ragione»: laddove non esiste tempo, «prima» e
«dopo» non hanno alcun senso.
Per quanto riguarda tale dimensione
sovratemporale, il fatto che l'Assoluto sia la Fonte ultima di tutto quel che
esiste significa semplicemente, nell'ottica di Hamadânî,
che Dio è «con» (ma'a) tutte le cose.
Questa nozione, che egli chiama ma'iyyat
Allâh, l’«essere-con» di Dio rappresenta uno dei
punti cardine del sistema metafisico di Hamadânî. Egli adopera un altro sistema
tecnico per esprimere la stessa nozione, wajh
Allâh, «il Volto di Dio», Dio volge la Faccia, o più letteralmente ha la
Faccia rivolta ad ogni cosa[12].
Comunque, per quel che riguarda la «sfera della ragione (e della sensazione)», ci sono alcuni
aspetti importanti per i quali la concezione della creazione temporale del
mondo di Hamadânî è completamente diversa dall'accezione normale di creazione.
Ci limiteremo qui a trattare l'aspetto della questione che riguarda
specificamente la nozione di «creazione perpetua».
Secondo Hamadânî, il tratto più peculiare
della «dimensione al di là della ragione» è
rappresentato dal fatto di essere intemporale ed al di là del tempo. Non esiste sviluppo temporale, né inizio né fine per qualsiasi
cosa. Non vi è neppure ordine cronologico degli avvenimenti: parlare di una
cosa in termini di anteriore o posteriore è un'assurdità. Hamadânî: sostiene
che, nella dimensione al di là del tempo, quel che
contraddistingue le cose è l'equidistanza esistenziale rispetto a Dio, Fonte
ultima dell'esistenza. Dio è «con» ogni cosa, ossia in questa dimensione
qualsiasi cosa ha esattamente la stessa distanza ontologica
nei confronti di Dio. A questo livello, si contemplano quindi tutte le cose
come coesistenti, in un'estensione di esistenza non temporale, alla stregua
delle centinaia e migliaia di montagne che Dôgen: ritiene
tutte simultaneamente visibili per l'uomo che le guardi dalla cima della
montagna più alta. Eppure, prima di raggiungere la vetta, ossia finché errava
nella regione montagnosa, scalando le montagne le une dopo le altre, poteva
vedere soltanto la parte inferiore della regione, forse a malapena un solo
monte. Inoltre il paesaggio, ai suoi occhi, cambiava in ogni istante; infatti,
in ogni istante si trovava in un rapporto particolare ed
unico nei confronti dell'insieme del paesaggio.
Questo paragone può in modo appropriato
applicarsi alla situazione metafisica delle cose esistenti quale la vede
Hamadânî. Infatti anche nella sua ottica le cose che
coesistono insieme nel «campo al di là della ragione» in una distesa di
esistenza non temporale, perennemente calme ed immobili, cominciano
improvvisamente ad apparire in uno stato di flusso incessante nello stesso
momento in cui ne trasferiamo o proiettiamo le immagini nell’ambito del «campo
della ragione e della sensazione». In siffatta dimensione di sviluppo e di
successione temporali, si vede tutto muoversi e cambiare costantemente.
Hamadânî dice che ciò dipende dal fatto che, nella dimensione ontologica in cui
regna il Tempo, il rapporto (nisbah) di ogni cosa con la Fonte
ultima della propria esistenza cambia incessantemente. In ogni istante il
rapporto e diverso da quel che era negli altri istanti. Un solo ed unico rapporto ontologico non dura mai neanche due
istanti successivi. Per Hamadânî la conseguenza diretta è che ogni cosa riceve
in ogni istante una nuova esistenza.
Hamadânî spiega questa situazione
paragonandola al modo in cui la terra viene illuminata
dalla luce del sole.
La luce del sole può
illuminare la terra per il solo fatto che si instaura
un rapporto particolare tra terra e sole. Se tale rapporto si dissolvesse, la
stessa capacità della terra di ricevere la luce del
sole sarebbe immediatamente ridotta a nulla. È soltanto nella misura in cui il rapporto
tra i due sussiste che la ricettività della terra alla luce del sole permane[13].
Secondo Hamadânî, è comunque illusorio
credere nella permanenza di un solo ed unico rapporto,
perché in ogni momento si instaura un nuovo rapporto tra terra e sole. Poiché,
tuttavia, i rapporti che si instaurano in istanti
successivi si assomigliano molto, chi ha la «mente debole» e chi ha una «vista
poco lungimirate» ossia colui che ha una vista confinata al «dominio della
ragione (e della sensazione)», tende ad immaginare che la luce del sole che
illumina la terra in questo istante è esattamente la stessa che la illuminava
un istante prima o che la illuminerà un istante dopo.
Hamadânî prosegue con l'affermare
che il rapporto con ogni istante è unico, che è peculiare di quello stesso
istante[14].
Il fatto poi che ogni cosa tragga la sua esistenza dalla Fonte ultima di esistenza in forza di un rapporto attualizzato tra i due, si
applica a tutto, senza alcuna eccezione; questa relazione ontologica deve
comunque essere rinnovata e ristabilita in ogni istante se la cosa deve
continuare ad esistere per più di un istante.
Supponiamo, dice Hamadânî, che esista un
idiota che, dopo aver visto quattro persone, poniamo Zayd, 'Amr,
Hâlid e Bakr, dopo aver constatato che queste sono una sola e identica cosa in
quanto uomini, giunga alla conclusione che esse sono un’unica persona. Tutti
quanti non potrebbero fare a meno di ridere di questa dabbenaggine. Eppure,
persmo quanti sono dotati di un'intelligenza
pienamente sviluppata commettono lo stesso e medesimo errore per quel che
riguarda l'esistenza del mondo, e rari sono coloro che notano l'enorme
assurdità dell'errore commesso[15].
In realtà tutto ciò che esiste (mawjûd)
è in sé, secondo Hamadânî, qualcosa di non-esistente (ma'dûm). La «luce dell’esistenza» (nûr
al-wujûd) può illuminare un non-esistente solo in base ad un certo
rapporto che si instaura tra questo e la fonte ultima dell'esistenza.
A sua volta questo rapporto esistenziale
si differenzia in ogni istante completamente da quello che precedeva o da
quello che seguirà. In altri termini il mondo intero continua a essere
nuovamente creato d'istante in istante.
È questa, a grandi linee, la concezione
di Hamadânî per quanto riguarda l’idea di «ceeazione
eterna». Val la pena di ricordare che questa visione metafisica particolare
scaturisce dalla sua esperienza mistica e non deve essere confusa con
l'atomismo dei teologi Ash’ariti, nonostante che esteriormente le due posizioni
si assormglino in gran parte. Il pensiero di Hamadânî, essendo una
presentazione e diretta di un fatto di coscienza mistica, è qualitativamente
diverso dall’atomismo filosofico, che si basa su un'analisi puramente razionale
del modo di esistenza di qualsiasi cosa. Questa
distinzione sarà più chiara quando tratteremo di Ibn 'Arabi.
Per concludere
questo paragrafo, occorre sottolineare che l'idea stessa di «creazione perpetua»
è stata quindi innegabilmente coniata da Hamadânî, ma non l'espressione tecnica
khalq jadîd, «creazione (sempre)
nuova». Hamadânî non ricorre all'espressione coranica per indicarne l'idea. È Ibn ‘Arabî colui che, interpretando in modo del tutto originale
il versetto coranico in cui questa espressione particolare si trova, la
trasforma in un termine tecnico che sarà adoperato come tale, in tutte le
successive fasi di sviluppo della filosofia 'irfânica.
4. Rivolgiamo
adesso l'attenzione al Magister Maximus.
Per mettere in risalto l'originalità del suo approccio nei confronti del
problema della «creazione eterna», conviene ricordare
che nel corso della storia del pensiero islamico, numerosi pensatori hanno sviluppato
m modo diverso questo tema di base.
Dopo Ibn 'Arabî
sono stati proposti, all'interno dei limiti della filosofia, diversi approcci
interessanti, assolutamente estranei alla filosofia atomista degli Ash’ariti,
che può essere definita un caso tipico di risoluzione puramente razionale o
non-'irfânica del problema. Il ben noto concetto di harakah jawhariyyah o di «movimento (costante)» nella Substantia di Molla Sadra può essere considerato una delle elaborazioni filosofiche più originali
di questa stessa idea di base.
Tuttavia l'approccio filosofico più
popolare e più diffuso del problema, sempre nell'ambito della filosofia 'irfânica
consiste forse nello spiegare la «creazione perpetua» in termini di contingenza
ontologica essenziale (imkân dhâtî) di
qualsiasi cosa nel mondo, ossia della «contingenza»
che costituisce la composizione essenziale di tutti i fenomeni. In realtà, la
maggior parte dei testi o manuali di filosofia 'irfânica composti successivamente si rifanno a questo schema di pensiero.
Perciò, per illustrare un esempio concreto tra i tanti casi noti, vediamo in che modo Mubammad Lâhîji (+ca. 1506-7), nel suo
commento sul Gulshan-e Râz[16],
sviluppa il tema della «creazione eterna».
Come abbiamo appena menzionato, Lâhîji affronta
il problema dal punto di vista della struttura essenziale di
quel che esiste nel mondo empirico. Ogni cosa nel mondo è, da un punto di vista
ontologico, un mumkin, un
«contingente», cioè qualcosa che non ha esistenza necessaria; dire inoltre che
tutto quel che esiste ha un imkân o
una «contingenza ontologica» come «essenza propria», è come dire che tutto quel
che esiste nel mondo include in sé, in qualche modo, la non-esistenza, che,
qualsiasi cosa, presa e considerata in sé (considerata cioè separata da Dio,
Fonte ultima di esistenza), è 'adam,
«niente» o «non-esistenza». Perciò, per l'esistenza
stessa della propria negatività essenziale, ogni cosa esistente al mondo, se
abbandonata a se stessa, procede immediatamente verso il proprio
annichilimento.
In tal modo, ogni cosa può unicamente
avere un'esistenza temporanea, giacché nell'istante in cui viene
sospinta all'esistenza, la propria natura la riconduce ineluttabilmente alla
non-esistenza. Si suole chiamare «precarietà» la tendenza che ogni cosa ha, per
la sua stessa natura, ad annichilirsi; tutto quel che esiste
è perciò effimero, tutte le cose, dice Lâhîji, si precipitano con velocità vertiginosa
nell'abisso della non-esistenza. Niente si ferma, se non per un istante.
Esiste comunque, allo stesso tempo, la
costante attività creatrice dell'Assoluto, attività creatrice che Ibn 'Arabî chiama nafs rahmânî,
lo «Spiro del Misericordioso» [Expir du
Miséricordieux], che continua a dare nuova esistenza alle cose mentre si annnientano
da se stesse. La «creazione perpetua», khalq
jadîd, si attua nel punto di convergenza del
seguenti fattori:
a)
la «contingenza» essenziale di ogni cosa;
b) l'effusione costante dello «Spiro del Misericordioso», proveniente dalla Fonte
metafisica assoluta.
La funzione dello «Spiro
del Misericordioso» consiste quindi nel conservare o, più letteralmente,
nell'incatenare (habs kardah) all'esistenza le cose essenzialmente non
esistenti. Non bisogna comunque credere che l’«incatenamento» all'esistenza
implichi che queste cose acquisiscano un'esistenza continua, ininterrotta, cosa del tutto impossibile a causa della «contingenza»
essenziale delle cose. L’«incatenamento» all'esistenza cui alludiamo si
costituisce piuttosto, secondo Lâhîjî, nel seguente modo: ogni cosa esistente deve,
in seguito all'esigenza della propria «contingenza» ontalogica, smettere il
vestito dell'esistenza appena giunta all'esistenza, ma,
in ogni istante, lo «Spiro del Misericordioso» le conferisce una nuova veste di
esistenza, di modo che la cosa sembra essere rimasta esistente senza alcuna
interruzione. Ma nella frazione di secondo in cui la
cosa abbandona il vecchio abito per indossarne uno nuovo, l'occhio del mistico scorge
l'esistenza della cosa sospesa di sopra di un abisso vorticoso e senza fondo di
non-esistenza. È in tal caso che Lâhîjî afferma che tutte le cose sono in ogni istante
nello stato di «creazione eterna» (dar har ân dar khalq-e jadîdand),
in quanto il rapporto (nisbah) in cui ogni
cosa esistente «contingente» dipende dall'esistenza si rinnova in ogni istante.
L'approccio tipicamente filosofico del
problema della «creazione perpetua» che abbiamo appena
esaminato può, in definitiva, essere ricondotto, almeno parzialmente, ad Ibn
'Arabî. Ad ogni modo l'idea esposta da Lâhîjî non contraddice la visione del
mondo di Ibn 'Arabî, anche se quest'ultimo affronta il
problema a modo suo, con un atteggiamento diverso e molto più originale, che
analizzeremo nel paragrafo successivo.
5. Ibn 'Arabî si
accosta al problema della «creazione perpetua» in termini innanzi tutto di
Cuore (qalb) del mistico. Il capitolo XII dei Fusûs al-Hikam, dedicato alla questione della
«creazione eterna», porta al riguardo il titolo significativo
di Hikmah Qalbiyyah: La conoscenza esoterica in
relazione al Cuore[17].
Si deve innanzi tutto osservare che in
tale contesto particolare la parola qalb viene utilizzata come termine
tecnico. Essa non si riferisce al cuore in quanto
organo fisico, ma designa piuttosto un organo spirituale, luogo interiore di
coscienza mistica e dimensione spirituale dell'animo in cui gli aspetti della
realtà sovrasensibile e transrazionale si rivelano al mistico. Per distinguere il
«cuore», quale viene inteso in questo contesto, dal
cuore in quanto organo fisico, Ibn 'Arabî utilizza l'espressione qalb al-'ârif, che significa alla
lettera «cuore dello gnostico» e che si potrebbe tradurre, per ragioni di
ordine pratico, con Cuore (spirituale).
La locuzione qalb al-'ârif può sembrare un luogo comune, ma è in realtà una espressione cui Ibn 'Arabî attribuisce un significato
particolare, in quanto per ârif,
«gnostico», egli intende il walî nel
livello più alto, cioè insân kâmil,
l'Uomo Universale.
Attribuendogli questo significato, Ibn 'Arabî comincia a sottolineare l'estensione o la capacità
infinita del Cuore spirituale. In sostegno di tale visione, invoca un celebre hadith qudsî (tradizioni del Profeta
nelle quali Dio Stesso parla in prima persona) che dice: «Mâ wasi'a-nî ard-î wa-lâ samâ-î. Wa-wasi'a-nî qalb 'abd-î
al-mu'min al-taqî al-naqî», [«Né la Mia terra, né il Mio cielo sono abbastanza
grandi per contenerMi. Ma il “cuore” del mio
servitore, fedele, pio e puro, è abbastanza grande per contenerMi»]. Secondo
l'interpretazione di Ibn 'Arabî, «il Mio servitore
fedele, pio e puro» significa 'ârif,
vale a dire che il Cuore in quanto organo spirituale è, nel caso del mistico
del rango più elevato, provvisto di un'estensione infinita, al punto da poter
contenere o racchiudere persino l'Assoluto.
Ibn 'Arabî cita
le preghiere di alcuni grandi mistici che l'hanno preceduto per corroborare la
propria visione, come, per esempio, quella di Abû Yazîd al-Bâstâmî:
Anche se il Trono divino e
tutto quel che vi è contenuto dovessero trovarsi
moltiplicati all'infinito in un cantuccio del cuore del mistico (qalb al-'ârif), questi non se ne
renderebbe conto.
Interpretando in modo abbastanza libero,
ciò significa che, se mettessimo tutto quanto l'universo incluso ciò che esso
contiene), moltiplicato all'infinito, nel «cuore» di un mistico, questo universo infinitamente vasto occuperebbe uno spazio
tanto ridotto che lo stesso mistico non se ne accorgerebbe.
Per capire correttamente tale
affermazione, si deve ricordare che il qalb
di cui parla Ibn 'Arabî è il Cuore dell'Uomo
Universale. In altri termini, è il Mentale Cosmico, o la Coscienza cosmica e
universale dell'Uomo Universale quale lo intende Ibn 'Arabî.
Nell'ottica di Ibn 'Arabî la coscienza cosmica
dell'Uomo Universale è jami',
«universale»; questo significa che essa racchiude in sé tutti gli attributi
dell'esistenza (jami' sifât al-wujûd),
ossia tutto quel che fu, è e sarà nel mondo dell'essere. L'universalità del
Cuore si riduce quindi all'Universalità dell'Assoluto, perché tutti gli «attributi dell'esistenza» che si suppongono racchiusi nel
Cuore sono altrettante manifestazioni dell'Assoluto. E in questo senso che si
può affermare che il «cuore del mistico» contiene persino
l'Assoluto.
Si deve osservare al riguardo che il
termine qalb in senso 'irfânico si
associa sempre, da un punto di vista etimologico, al termine taqallub (che appartiene alla stessa
radice consonanticas Q.L.B.). Taqallub significa trasformazione o cambiamento continuo, qualcosa
che assume incessantemente forme diverse. Alla luce di quel che abbiamo detto,
il qalb del mistico coincide quindi con
la trasformazione ontologica incessante e costante dell'Assoluto che si chiama tajallî, «irradiazione
Divina».
Nell'ottica di Ibn 'Arabî, l'Assoluto, a causa della
sua estrema pienezza metafisica, può soltanto esprimere attraverso forme esteriori
la pienezza interiore dell'esistenza; è di là che viene il fayd, ossia l'Emanazione Divina o l'Effusione metafisica[18].
L'Assoluto qui si considera un qualcosa
che comprende in se stesso un numero infinito di articolazioni interne o, si
potrebbe dire, di inclinazioni ontologiche. Nella
terminologia tradizionale teologica, tali articolazioni ontologiche
dell'Assoluto si chiamano Nomi e Attributi Divini.
Ognuno di questi Attributi Divini ha bisogno di esteriorizzarsi. Perciò
l'Assoluto, secondo le esigenze ontologiche dei propri Nomi e Attributi
(si calcolano normalmente novantanove Nomi Divini, ma in realtà essi sono
infiniti, dice Ibn 'Arabi), si manifesta attraverso un
numero infinito di forme concrete.
D'altro canto, come si è già visto, il
Cuore cosmico (qalb) del mistico è abbastanza grande da contenere persino
l'Assoluto. Alla luce di quanto si è appena visto, tale affermazione implica
necessariamente che il Cuore rifletta istante per istante
tutte le forme in cui l'Assoluto
si manifesta. E proprio questo che si deve intendere per taqallub al-qalb, la «trasformazione costante del Cuore»
del mistico.
Bisogna notare che non esiste
limite né fine all'irradiazione teofanica (tajallî) dell'Assoluto
e che parallelamente le trasformazioni interne (taqallub) del Cuore non
hanno limiti, e ciò significa che la conoscenza dell'Assoluto si amplia
incessantamente.
Non è questa comunque la visione ultima
della struttura metafisica della Realtà, poiché esiste un'ulteriore
differenziazione tra tajallî e taqallub, vale
a dire tra l'irradiazione teofanica dell'assoluto
e la trasformazione interna dei Cuore. In base a tale distinzione il cuore del mistico deve
riflettere l’«irradiazione teofanica» dell'Assoluto come uno specchio terso.
Secondo Ibn 'Arabî non si può considerare l'immagine
ultima della Realtà in questo modo. Per giungere alla visione ultima, si deve
fare ancora un passo avanti e trascendere lo stato in cui il Cuore viene raffigurato come un qualcosa che riflette
infinitamente le varie forme dell'Assoluto, perché, in tale stato, non si è più
in grado di distinguere la coscienza umana del Cuore dalla manifestazione
Divina. Al contrario, il Cuore stesso, nella sua costante trasformazione interna,
si riconduce alle varie forme dell'irradiazione teofanica. Allo stesso modo,
l'incessante trasformazione (taqallub) dell'Assoluto è essa
stessa trasformazione costante (taqallub) del Cuore. Come afferma
Ibn 'Arabî:
Il Cuore del mistico trae
conoscenza dalla trasformazione costante (taqallub) dell'Assoluto
attraverso la trasformazione dd proprio cuore in forme varie[19].
Ibn 'Arabî
osserva al riguardo che il sé (nafs) del mistico in uno stato
simile non è il più proprio sé «umano»; infatti il proprio sé è adesso
perfettamente identico allo huwiyyah (l'Ipseità o l'aspetto-del-Lui) dell'Assoluto. L'«Ipseità»
dell'Assoluto è l'Assoluto nella misura in cui è possibile designarlo come
«lui», se non lo si considera nel suo carattere
assoluto originale. L'Ipseità Divina rappresenta quindi lo
strato metafisica più profondo dell'Assoluto che possiamo illustrare con
precisione, nella misura in cui essa si manifesta nelle forme più concrete ed
individuali.
Nello stato spirituale di coscienza cui
fa qui riferimento Ibn ‘Arabî, non si riscontra alcuna
opposizione tra il Cuore del Mistico e l'Ipseità dell'Assoluto. D'altronde la trasformazione interiore del Cuore del Mistico non è
altro che la trasformazione antologica dell'Assoluto. Secondo Ibn 'Arabî si tratta della corretta interpretazione della
celebre massima man 'arafa nafasa-hu 'arafa
rabbahu: «Chi conosce se stesso conosce il suo Signore».
La Realtà una ed
assoluta assume forme infinitamente varie e diverse nella dimensione
dell'apparenza fenomenale. La trasformazione incessante (taqallub) del Cuore del Mistico, come pure la trasformazione (taqallub) dell'Assoluto, si configurano
proprio in ciò. Non si dovrebbe commettere l'errore di credere che il Cuore del
mistico, nel processo del taqallub
interno, continui a riflettere il taqallub
ontologico incessante dell'Assoluto. Infatti, qualsiasi «riflesso»
presuppone la sussistenza indipendente di due cose differenti che si trovino di
fronte:
a) lo specchio
b) quel che vi è riflesso.
Il taqallub
di cui stiamo trattando non rientra però in questa specie: non c'è posto per
una cosa che ne rispecchi un'altra, in quanto si
riscontra, nella fattispecie, un solo ed unico taqallub, da entrambe le parti.
Ibn 'Arabî
giunge così alla propria concezione della «creazione eterna». Rifacendosi al
versetto del Corano (Bal hum fî labsin min
khalqin jâdid) che abbiamo citato all'inizio, egli osserva che coloro che sono «spiritualmente ciechi» e privi di capacità
mistica non capiranno mai il senso profondo dell'espressione khalq jâdid, «nuova creazione». Nella
sua interpretazione, che egli ritiene l'unica giusta, questa frase si riferisce
al fatto che un vero mistico vede il mondo «trasformarsi ad
ogni respiro» (tabaddul al-'âlam ma'a
al-anfâs), cioè d'istante in istante. In ogni attimo il mondo intero si
presenta in una veste nuova. Porre la questione in questi termini equivale,
come sì è visto, ad affermare che il Cuore cosmico dell'Uomo Universale assume
in ogni istante una forma nuova. Secondo Ibn 'Arabî
tutto questo può ricondursi ad un'unica affermazione: il tajâlli Divino (l’'irradiazione teofanica) non smette mai di essere
attivo, ed inoltre non si ripete mai.
La stessa idea può altrettanto
efficacemente esprimersi in termini di «creazione», se
si afferma che il mondo, cioè il Cuore dell'Uomo universale, si ricrea in ogni
istante. Il mondo che vediamo e nel quale viviamo in questo istante non è una
prosecuzione del mondo che vedevamo un istante fa,
così come il mondo che verrà tra un istante sarà a sua volta del tutto diverso
da quello dell'istante presente.
L'esistenza del mondo in
quanto continuum temporale è
in realtà una successione di esistenze, ciascuna delle quali appare e scompare in
ogni istante. Perciò, tra due esistenze consecutive si riscontra sempre una
frattura, un abisso ontologico di non-esistenza, indipendentemente dalla
brevità e dall'impercettibilità che tale discrepanza può
assumere nei confronti di occhi normali. Quel che è valido per il mondo preso
come totalità vale ovviamente per ogni cosa presa separatamente. Questo significa
che non esiste sostanza stabile nel mondo. Quel che si ritiene comunemente
sostanza stabile, per esempio una pietra, che il nostro senso comune considera esistente
in modo continuo per un lasso di tempo più o meno lungo,
è in realtà una serie di pietre esattamente simili che sono ricreate l'una dopo
l'altra. Non esiste in quest'ottica differenza tra una pietra e la fiamma di un
lume che sta bruciando. Chi crede che una pietra sia un'unica sostanza stabile
è rimasto, nell' ottica di Ibn 'Arabî, allo stadio
mentale infantile, «bimbi» (sibyân), rispetto
agli adulti, che sono i mistici. Ancor prima di Ibn 'Arabî,
Hamadânî aveva notato:
I bambini, nell'osservare un
lume che brucia in modo continuo, sono portati a credere che quello che vedono è soltanto una fiamma. Gli adulti invece sanno
perfettamente che si tratta di una serie di fiamme diverse che appaiono e
scompaiono in ogni istante. Dal punto di vista dei mistici, ciò vale
necessariamente per qualsiasi cosa al mondo, tranne che per Dio[20].
Secondo Ibn 'Arabi,
il mondo vive una vita nuova in ogni istante. In questo senso assaporiamo o
quantomeno si suppone che assaporiamo in ogni momento
la novità assoluta della creazione originale del mondo.
6. Il pensiero di Ibn 'Arabî
riguardo alla «Creazione perpetua», che abbiamo appena esposto, fa perno sulla
nozione di trasformazione incessante del Cuore del mistico. Ora, se scindiamo
l'idea dal contesto mistico e la consideriamo una tesi
puramente filosofica, siamo con grande evidenza in presenza dì una specie di
atomismo. In qualità di sostenitore dell'atomismo, Ibn
'Arabî deve necessariamente confrontarsi con l'atomismo teologico degli Ash’ariti,
che in realtà somiglia molto, nella struttura esteriore, a quello di Ibn 'Arabî.
Lo stesso Ibn 'Arabî
si rende conto di questa somiglianza esteriore e si sente tenuto,
dal proprio punto di vista,
a criticare la posizione Ash'arita. E interessante osservare che, agendo così,
egli scende dalla
propria posizione di mistico sul piano del pensiero razionale e filosofico proprio
degli As'ariti e cerca di confutarli sul loro stesso terreno.
Ibn 'Arabî
esordisce ammettendo che anche gli Ash'ariti hanno scoperto l'idea di
«creazione eterna», ma si affretta ad aggiungere che lo hanno fatto «per puro
caso o per accidente». Inoltre, la loro scoperta della verità è stata parziale,
in quanto è ristretta solo ad alcune cose, senza
estendersi a tutte; gli Ash'ariti non riconoscono la «creazione perpetua» se
non per quanto concerne gli «accidenti», escludendo completamente le
«sostanze».
In realtà, la nota massima Inna al-'arad lâ yabqâ zamânayn, «Non esiste accidente che duri due unità di tempo»,
costituisce una delle tesi di base della filosofia Ash'arita. Supponiamo per
esempio che ci sia un fiore rosso: l'accidente, il colore rosso, non è, secondo
gli Ash'ariti, un continuum
temporale; non è una qualità, che rimane attualizzata in modo continuo, senza
interruzioni. E, al contrario, un qualcosa che appare e scompare, poi riappare
e riscompare, e tale processo prosegue finché il colore non è più visibile o si
trasforma in altro colore. E solo per illusione ottica che si ha l'impressione
che un solo ed unico colore esista alla superficie del
fiore in quanto continuum temporale. Ma è una pura
illusione.
Tale è in breve la posizione degli Ash'ariti
riguardo agli accidenti. Entro questi limiti, sostiene Ibn 'Arabî,
essa è accettabile, ma l'errore degli Ash'ariti, prosegue, consiste nel fatto
che essi non consentono alla «creazione continua» di sconfinare dall'ambito
degli accidenti. Di fatto, secondo gli Ash'ariti, le sostanze non sottostanno alla
legge antologica della momentaneità. Il fiore contraddistinto dal colore, per
esempio, si considera un'entità stabile che continua a sussistere per parecchie
unità di tempo. In modo alquanto singolare, una sostanza, nell'antologia ash'arita,
è solo un tutto che si compone di un certo numero di
accidenti diversi (majmû' al-a 'râd).
Gli Ash'ariti hanno certamente ragione,
afferma Ibn 'Arabî, nel sostenere che nessun accidente
dura per più di una unità di tempo. D'altro canto, però, se essi affermano che
una sostanza è un tutto formato da accidenti, la loro
tesi viene quindi a sostenere che gli elementi, ciascuno dei quali non rimane
in vita nemmeno due istanti, costituiscono, allorché riuniti, una unità che
sussiste per parecchie unità di tempo. Questa, conclude
Ibn 'Arabî, è un'assurdità, persino sul piano del pensiero razionale.
Nella visione di Ibn 'Arabî,
non esiste assolutamente niente al mondo, sostanza o accidente, che permanga
più di un istante. Se insistiamo nell'uso della terminologia filosofica, che
distingue tra «sostanza» e «accidente», insistiamo sul
fatto che tutto quel che esiste nel mondo è un accidente. Entità come tavoli,
fiori, uomini, ecc., sono accidenti alla stregua dei colori e delle forme.
Accidenti di che cosa allora? Questa
domanda è legittima, giacché la stessa parola «accidente» non avrebbe senso sul
piano filosofico, qualora non vi fossero sostanze in cui gli accidenti
potessero «accadere».
Perciò, ricorrendo sempre alla stessa terminologia
filosofica, Ibn 'Arabî risponde cosl alla domanda: gli
«accidenti» (tavoli, fiori e rispettive forme e colori) sono tutti accidenti
della Sostanza ultima, l'unica a trovare in se stessa la propria sussistenza,
la quale altro non è che l'Assoluto. Tutto quel che esiste nel mondo, sia che corrisponda a quanto denominato sostanza sia a quanto
denominato accidente, è in realtà un accidente e appare e scompare sulla
superficie della Sostanza Ultima, proprio come mnumerevoli bolle sulla
superficie dell'acqua. Sono tutti «accidenti» perché
per sino le cose che i filosofi definiscono «sostanze», per distinguerle dagli
«accidenti», sono semplicemente, in base alla visione di Ibn 'Arabî,
determinazioni specifiche della Sostanza ultima. Perciò Ibn 'Arabî
conclude: Inna al-'âlam kulla-hu majmu'
a'râd. [«Il mondo nella sua globalità è un tutto
composto da accidenti»][21].
Concluderemo il capitolo spiegando un problema che
rientra nell'argomento appena esaminato, di importanza fondamentale per una
corretta comprensione della posizione di Ibn 'Arabî in proposito.
Come si è notato, Ibn 'Arabî
considera in questo contesto l'Assoluto o Dio come la Sostanza ultima ed
eterna. Questa espressione è ingannevole. Non si deve dimenticare che Ibn 'Arabî adopera in modo metaforico la terminologia
aristotelica che distingue «sostanza» e «accidente». Considerare Dio una
«sostanza», per quanto particolare possa essere la sua configurazione, è per
Ibn 'Arabî una metafora prettamente filosofica.
Infatti, nel suo pensiero, Dio è pura esistenza e, in quanto
tale, deve essere al di sopra di qualsiasi suddivisione categoriale. Inoltre,
si deve ricordare che, persino nella filosofia non-mistica, l'Assoluto non può
essere classificato come «sostanza». L'esistenza pura
trascende la distinzione aristotelica tra sostanza e accidente.
È tuttavia importante notare che Ibn 'Arabî cerca in questo caso di confutare gli Ash'ariti sul
loro stesso campo, e in questo senso egli ha perfettamente diritto di parlare
di Dio in termini di Sostanza di cui tutte le cose del mondo costituiscono gli
accidenti. Perché, in fondo, è soltanto un modo per dire - il che costituisce
una delle sue tesi fondamentali - che l'Assoluto come pura esistenza non smetta
mai di smembrarsi in un numero infinito di cose concrete.
Perciò, la posizione di Ibn 'Arabî, se considerata come pura tesi filosofica, somiglia
in modo impressionante all'atomismo asha' arita, da cui si differenzia
unicamente, come si è sottolineato, per
il fatto che Ibn 'Arabî non compie, nel
caso specifico, alcuna sorta di distinzione tra le cosiddette sostanze e gli
accidenti. Infatti egli li considera tutti come
«accidenti» della Sostanza Divina, mentre gli Ash'ariti riducono la
momentaneità dell'esistenza di cui si è parlato ai cosiddetti accidenti, in
quanto distinti dalle sostanze.
Esiste comunque senza dubbio un solco ben
più profondo tra queste due posizioni. La tesi ash'arita è un prodotto del
pensiero razionale, laddove la tesi di Ibn 'Arabî è
una costruzione filosofica derivante dalla sua visione mistica del mondo. La
differenza è evidente, se non altro perché la visione del mutamento costante universale
di ogni cosa, ossia la visione della «creazione eterna», è, secondo Ibn 'Arabi, una visione sovrasensoriale, prerogativa del Cuore
cosmico dell'Uomo Universale, identico all'Ipseità dell' Assoluto. In tal
senso, non è una visione umana, bensì divina.
[1] Questo
articolo si basa su due confereze da me svolte all'Università di Teheran (Iran)
il 20 e il 24 maggio 1972. Approfitto dell'occasione per esprimere profondi
ringraziamenti al pro f. Seyyed Hossein Nasr che me ne ha offerto
l'opportunità.
[2] Brano del capitolo Genjô Kûan del Shôbô Genzô.
[3] Hakuun Yasutani, Shôbô Genzô Sankiû, Genjo Koan, Tokyo
1967, 74.
[4] Capitolo San Sui Kyô.
[5] Questa relazione si
basa su quanto Dôgen afferma sulla narura del tempo nel capitolo U-]i.
[6] Riporto le sue parole
in modo alquanto libero, perché una traduzione letterale non mi consentirebbe
di eliminare l'uso di parentesi, il che rallenterebbe il ritmo espressivo del
pensiero.
[7] L'espressione «il mio presente intemporale» significa l'Intemporalità
metafisica che conosco in stato di contemplazione.
[8] Per filosofia «'irfiinica»
o «'irfân», intendo una forma particolare di filosofia sviluppatasi
nell'Islam, un modello particolare di pensiero nel quale il pensiero razionale
è guidato dalla realizzazione spirituale attraverso una autodisaplina
contemplativa e va di pari passo con essa.
[9] Questo «campo» comprende anche, ai primi livelli, quello della
sensazione.
[10] Ho già spiegato
l'estrema importanza di tale distinzione nella struttura del pensiero di
Hamadânî: Le Mysticisme et le problème linguistique de l'équivocité dans la pensée
de 'Ayn al-Qudât Hamadânî, «Studia Islamica», XXXI (1970), Memoriae J. Schacht Dedicato, Paris,
153-170.
[11] Epistola XIX, Nâme-ha-ye 'Ayn al-Qudiit Hamadânî, Ed. 'Afif 'Oseyrân and 'Alinaqi
Munzawî, Teheran 1969, 166.
[12] Avendo già ampiamente
sviluppato questo argometo nell'articolo
precedentemente citato Creazione e ordine
intemporale delle cose, non mi soffermerò sui dettagli. Mi
limiterò a far notare che è possibile che Hamadânî mutui queste due espressioni
«Volto di Dio» e «l'essere-con Dio» ed il loro particolare contenuto metafisico
da Abû Hâmid Muhammad al-Gazâlî. Nel suo Miskat
al-Anwar (Ed. 'Afîfî, Il Cairo 1964, 55-56), Gazâlî,
spiegando la seguente frase del Corano:
Kullu shay'in hâlikun wajha-hu, (XXVIII, 88) interpreta «Volto di Dio» esattamente nello stesso senso
di Hamadânî; nell’illustrare il senso dell'espressione Allâh akbar, parla dell' «essere-con
Dio» dandone esattamente la medesima interpretazione metafisica.
[13] Zubdat al-Haqâ'iq, Ed.
'Afffi Osseyrân, Teheran 1962, 60.
[14] Ivi.
[15] Ivi, 60-61
[16] Mafâtîh al-Ijaz fî
Sharh-e Gulîshan-e Râz, Ed. Kayvan Sami'i, Teheran 1956,
126-127.
[17] Ed. 'Afîfî, Beirut
1954, 119-126.
[18] Su questo punto si veda il capitolo precedente Una analisi
della Wahdat al-Wujûd.
[19] Fusûs, cit., 122.
[20] Zubdad al-Haqâ'iq, cit., 62.
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